Sono in stazione a Ostrava chiaramente in preda a un robusto sequestro ematico. Una camminatina di un’ora sotto il sole a picco di Ostrava dopo il pranzo di carnazza è stata un’ottima idea. Mentre bevo acqua a più non posso, il mio vicino sta bevendo un tè caldo. Prendo il treno verso nord e scavallo in Polacchia, dalle corone agli zloty, che mi fa sempre pensare al mercato nero. E adottatelo ‘sto euro, che tempo ne avete avuto. Il carbone, che non guarda in faccia nessuno, si trova anche di là, nella Slesia polacca, le miniere e le acciaierie pure. E le città industriali anche, Katowice è la prima grossa che si incontra e ha attorno alcune città satellite, per esempio Tychy, costruite negli anni Cinquanta per dare sistemazione ai lavoratori. I quartieri sono in ordine alfabetico, a reticolo, e sono stati pensati per centomila persone, oggi di più. Va da sé che qua attorno l’unica città di grande bellezza è Cracovia. Io svolto e intendo andare a Rzeszów, città con grandi trascorsi commerciali con la lega anseatica, aveva una connessione diretta con Danzica, poi annessa all’impero austroungarico durante la prima spartizione del paese e tornata alla Polonia solo dopo la prima guerra mondiale. Il voivodato odierno è quello dei precarpazi ma la regione storica è la Galizia, che si estende da qui a Leopoli. Data la poca distanza, centosettanta chilometri e ottanta al confine, oggi Rzeszów è il centro logistico da cui passano tutti i rifornimenti all’Ucraina in guerra, armi comprese, e da cui fuoriescono le persone.
Ma le intenzioni sono una cosa e i fatti un’altra: al confine il treno si ferma quasi due ore ed essendo un intercity sigillato dentro fa un caldo significativo, fermi nel nulla. Nel mio scompartimento una famiglia di tre guarda al pc una serie tv coreana sottotitolata in polacco, lei comunque muore. Spoiler. Poi è Polonia, a tarda serata. Rzeszów, dicevo, oggi fa parte del network delle città europee emergenti, con Poznań nel paese, alti redditi e qualità della vita, come tutto l’est europeo ne ha passate di ogni dagli ottomani in poi e, in particolare, in Galizia l’olocausto è stato più terribile di dove già lo era. Grotowski era di qui, mio padre sapeva chi fosse, anzi io so chi sia per lui, mia madre più ferrata sulla Galizia, proprio questa, non la comunità autonoma spagnola.
La Polacchia è un bel paese, vario e grande, se non fosse così pieno di polacchi. A parte la battuta, di polacchi iperreligiosi e ultranazionalisti. Oddio, sul nazionalismo un minimo di ragione storica bisogna dargliela, contando le spartizioni che il paese ha subito, stretto tra rompicoglioni di prim’ordine, tedeschi, prussiani e russi. Per decenni il paese non è proprio esistito, a più riprese. Dodici ore che sono qui, però, e son già di nuovo stufo di Solidarność e Giovanni Paolo II. Voglio dire, persino nei parchi.
Rzeszów è graziosa e molto vivibile, si vede. Ne ha passate di tutti i colori e si vede, le glorie passate sono visibili sì e no. Un’enorme residenza settecentesca costruita sui bastioni di un castello difensivo rimanda, imparo, a una famiglia di rango principesco fondamentale per la storia polacca, i Lubomirski, che io sento per la prima volta e la cosa sembra grave. Poi si parla dei Tatari e bon, non mi ci raccapezzo proprio. In piazza questa sera c’è, credo, un evento elettorale: dopo quaranta minuti di Metallica dalle casse, ora una signora parla con toni abbastanza accesi di cose importanti, sembra, strappa qualche applauso e dietro di sé ha una sua grande immagine con lo spazio siderale come sfondo. Da quel che posso interpretare con le mie categorie politiche italiane, direi destra ma non è facile dirlo, specie se sono cose locali. Dietro c’è un tizio grosso grosso in giacca sportiva e cravatta che dev’essere il protagonista. Io bevo una birrona seduto, a volte applaudo a volte faccio buu. Tanto fisicamente sono come loro e dalla frequenza con cui mi chiedono informazioni, deduco che si ingannino spesso, quindi non vengo percepito come estraneo. No, lei, Karolina Pikuła, è qui a fare endorsement per lui, il candidato locale alle, boh, regionali della Moravia, voivodato, cose così. Sparano anche fiamme e la seconda cosa che leggo sul profilo Twitter, ehm, X, di lei è ‘Mama’, quindi capisco di non aver sbagliato. La città è piuttosto turistica, di turismo interno, e anche qui quando una pizzeria italiana o presunta usa i Ricchi e poveri per far capire che la pizza è buona giro largo. Nessuna traccia di guerra o segni di, nessuna percezione che l’Ucraina sia appena al di là del fiume, qualche adesivo e cartello ma come in tutto il paese. In fondo, probabilmente nemmeno nella parte occidentale dell’Ucraina si ha una percezione diretta del conflitto, secondo quel che mi dice un’amica.
Saluto il bel municipio in forme vicine alle gotico-baltiche che rimanda agli scambi di una volta, raccatto di nuovo le mie cose e vado verso nord. Pronto a fare il solito sforzo delle stazioni, ovvero capire la piattaforma, il binario, il settore spesso senza tabelloni o indicazione, con annunci sì frequenti ma in polacco stretto e poca gente che parla inglese. Gli intercity, a volte e non si capisce se ci sia un criterio, invece di sei posti per scompartimento ne hanno otto a parità, ovviamente, di larghezza e devo ammettere che per me sono un po’ sotto la soglia di vicinanza fisica che voglio avere con le altre persone. In generale, non polacche o galiziane. Se poi, e c’è sempre, c’è una vecchia che chiede di chiudere il finestrino e fa un caldo dell’accidenti, allora il viaggio diventa, oltre che molto allegro, lunghetto. Quel bel teporino tra coscia (mia) e coscia (sua).
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