Anche per l’anno prossimo, il mio augurio è il medesimo e comincia da questa ardita premessa di Marie Skłodowska Curie:
«Della vita non bisogna temere nulla. Bisogna solo capire».
Ovvero, di essere in grado di esercitare i propri mezzi per ottenere la comprensione delle cose e delle persone. Non per tutti, però, l’augurio è rivolto solo a chi ha voglia di fare lo sforzo. Siccome però il piccolo post al riguardo l’ho già scritto, rimando a quello.
Perché è un bel pezzo, non il loro migliore ma ben godibile, e ha un video stupidino ma spassoso, una sorriso lo strappa. I BKeys continuano per la loro strada con un suono tutto proprio, inconfondibile, e con solo una batteria e una chitarra. Poco? Non direi.
Dalle 5:19 di stamane è inverno. Sì, ancora una volta è arrivato, il solfrizzio d’inverno, ovvero quando il piano dell’enclitica spaziale incontra l’asse di rotazione e sfida il moto apparente.
Buon inverno alle persone gentili e dotate di grazia.
Ci sono posti nei quali uno poi non va. E commette grandissimo errore, ahilui. Monza è uno di questi e, a titolo di risarcimento, ecco tre motivi in crescendo per fare una bella gita appena fuori porta (se non siete di Bari).
Motivo uno: i re e l’espiazione altrui Il palazzo reale, di costruzione mariateresiana per il quarto figlio, governatore di Milano, era residenza estiva e come tale mantiene il bellissimo parco, al netto dell’autodromo, il roseto e la struttura leggera e sobria. Il vialone di fronte, lungo due chilometri, vide il giovane Gaetano Bresci sparare fatalmente a Umberto I re d’Italia, andando così ad aggiungersi al lungo elenco di regicidi e presidenticidi di fine Ottocento e inizio Novecento. Sul luogo dell’umberticidio fu posta una lugubre colonna espiatoria che ancora oggi fa non bella mostra di sé, attorniata dalle scritte dei nostalgici brescini. W Bresci M il re.
Secondo motivo: la corona ferrea La corona ferrea, conservata nel Duomo di Monza, è un’antica corona (alcuni parti sono del quinto, altre del settimo-ottavo secolo) utilizzata per l’incoronazione dei re d’Italia: secondo la tradizione, da Carlo Magno a Napoleone, passando per il Barbarossa e un po’ di Ottoni. È formata da sei piastre d’oro, incastonate di pietre preziose, e due piastre di ferro, ricavate da un chiodo della crocifissione di Gesù. Dicono. A metà del Trecento dei ladri si impadronirono della corona ma rubarono religiosamente solo le due piastre di ferro, lasciando le preziosità. La corona, quindi, divenne più piccola. Ora: non c’è re, per quanto grande e fiero, che indossando una corona di taglia ridotta non faccia la figura del, mmm diciamo, ritardato. E quindi? Quindi Carlo V, per esempio, si fece fare un cappello a cono sul quale far scivolare la corona; Napoleone, invece, al noto grido di: «Dio me l’ha data, guai a chi la tocca», la sollevò con le mani sopra la propria testa senza appoggiarla, per poi mettersi una corona fatta all’uopo. I Savoia no, ciccia, perché la corona è reliquia e loro furono scomunicati.
Terzo motivo: la cappella di Teodolinda e lei in generale Teodolinda, figlia del re dei Bavari, sposò Autari, re dei Longobardi. Ma Autari morì dopo poco e lei non possedeva alcuna caratteristica per restare regina dei Longobardi: infatti era straniera, cioè bavarese, cattolica, cioè quasi eretica per gli agnostici Longobardi, e soprattutto, come oggi, era donna. Eppure lei, brava e bella, riuscì a tenere il tutto in pugno. Furono anzi i duchi a proporsi a lei come re consorti secondo la di lei scelta, la quale ricadde su Agilulfo. Un luminoso esempio, dunque, di donna di potere in tempi difficili.
Filippo Maria Visconti, a metà del Quattrocento, avendo una sola figlia femmina, Bianca Maria, e ponendosi con urgenza il problema della successione, fece operazione politica riesumando la storia di Teodolinda, ridisponendone la tomba nel duomo di Monza e facendo affrescare dai fratelli Zavattari un enorme ciclo di affreschi raffiguranti la storia della valida e coraggiosa regina, al fine di legittimare la propria figlia. Il tutto si trova nella cappella di Teodolinda nel duomo, un ambiente clamoroso che, oltre a contenere anche la corona ferrea, è affrescato con un trionfo di oro, argento e pittura sopraffina, di gran commozione. Basti guardare l’immagine qui sopra, sempre Teodolinda.
Non mi dilungherò oltre, il duomo stesso merita attenzione, alcune ville altrettanto, ma questi tre motivi bastano da soli per una visita. Anche solo il secondo e il terzo o l’ultimo soltanto, se è per questo. Per dire: non andate a New York o a Bangkok o a Matera senza andare a Monza. Perché sarebbe sciocco non farlo.
L’opera d’arte, ormai è nota, è una banana attaccata con lo scotch americano al muro.
L’opera d’arte viene venduta a centoventimila dollari. La banana è vera e, quindi, come fanno le banane tende a marcire. La si può sostituire, dice l’artista, il proprietario può. Quindi, nel tempo, la banana non è mai la stessa. Poi magari anche lo scotch nel tempo comincia a non attaccare più. Si può sostituire? Conta il certificato di autenticità, dice l’artista. Dunque, forse il bene acquistato è il certificato e non l’opera? Qualcuno, tempo fa, ragionava sulla riproducibilità dell’opera d’arte, ora direi che è tempo di ragionare sulla sostituibilità. Sarà la stessa opera d’arte dell’inizio? Questo richiama da vicino il paradosso della nave di Teseo.
Un grande successo per la banana. Molti gli emuli.
Poi arriva un altro artista e mangia la banana.
Quindi ci tocca ragionare sull’opera d’arte nell’epoca della sua mangiabilità. Ma visto che tanto la banana andava sostituita, cos’ha mangiato il secondo artista? L’opera d’arte o una banana? Ed essendo artista, ha compiuto una performance artistica o ha semplicemente mangiato una banana? Il peccato, qui, non è la banana, il secondo artista o Cattelan, il peccato vero è non avere Roland Barthes che pensa un po’ a tutta la questione e poi ce lo racconta.
Duecentoventotto anni fa, chiaro. Non lo ricordo solo per i meriti musicali, che da soli son più che bastanti, ma perché fu uomo progressista, autonomo e indipendente, illuminista, portatore di idee di innovazione, svecchiatore della corte polverosa della Vienna asburgica e dei riti del passato. E fu così, ovvio, che morì poverello. E morì in una casa che non c’è più ma che stava qui.
Una lapide lo ricorda.
In questa casa, dunque, venne una sera buia d’inverno un uomo misterioso, vestito di nero, che commissionò un requiem. Per sé?
Nell’Antelope Canyon, in Arizona, la foto è di Pankaj Luthra PankPixels. Il posto è davvero notevole.
facciamo 'sta cosa
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