Secondo me questi sono spari. Altro che fuochi d’artificio, son raffiche di fucile d’assalto, troppo regolari. Per carità, ciascuno festeggia come vuole e si sa che in certi paesi la gioia è talmente irrefrenabile che si può sfogare solo sparando in aria, meglio un caricatore intero. È notte e il Mediterraneo è agitato, fa certi tonfi quando si schianta sulla costa che sarebbe difficile attraccare con un traghetto, non solo con una nave oliaria greca. Come in tutti i paesi autoritari nel caos tutti i luoghi sensibili sono illuminati, banchina, caserma, parcheggio delle camionette, e nelle case delle persone manco una luce, dentro come topolini. Io guardo da un balcone e dopo un po’, osservando la ruggine, mi chiedo se tenga, ‘sto coso. Il generale mi osserva da un ritrattino giù, nel mezzo di un cantiere.

Ora bisogna tornare a Tripoli e sarebbe meglio non tornare a Bengasi, sono più di duecento chilometri di stradaccia e considerati i dissuasori, le buche, i posti di blocco e i ponti crollati, significherebbe almeno quattro ore. E poi comunque il golfo della Sirte sono mille chilometri. Andiamo in un aeroporto nel mezzo del nulla, ma nulla nulla, vicino a una certa Beda Littoria, una pista e una stanza per controlli, arrivi e partenze. Adel, il nostro contatto locale, ci spiega che è meglio essere lì almeno quattro ore prima perché, spiega, l’aeroporto è in mano a una banda locale e se gli serve ci potrebbero portare via i posti. D’accordo, vada per l’anticipo, anche se tra me e me penso che i posti ce li porterebbero via comunque, anticipo o meno, se ne avessero desiderio. L’aeroporto si chiama Al Abraq, è internazionale perché vola a Tripoli, e sembra in tutto e per tutto un aeroporto di Narcos. E siccome sono pirla, ho fatto pure delle foto, eccone una dell’esterno:

Labbanda non arriva e abbiamo i nostri posti, saliamo su un sigarotto stretto e piccolo da due posti per fila e io penso che i voli interni non mi piacciono. Ma la ferrovia coloniale, qui come in Tunisia e in tutto il Nordafrica a parte l’Egitto, l’hanno tolta. Quindi, sigarotto. C’è persino la carta di imbarco, inaspettata, le perquisizioni serie mentre nello zaino ho due litri d’acqua che non interessano a nessuno, e potrei avere nove chili di semtex tranquillo. Ho di fianco un uomo maturo e serio in cappottone fino ai polpacci che, chissà perché, mi fa pensare a Terracini o Calamandrei, mah. Forse interpreto una dissidenza nei suoi abiti e modi.
A Tripoli conosciamo un gruppo di italiani nati in Libia prima e durante la guerra, tornati per rivedere i luoghi dell’infanzia. So a memoria che anche Claudio Gentile è nato qui, potere degli album Panini. Sono un’associazione italiana, ci dicono, di amici della Libia e quando hanno chiesto alla Farnesina i visti per la partenza il Ministero li ha caldamente sconsigliati. Ma loro sono partiti lo stesso, e pure noi, penso. Con loro c’è la direttrice italiana degli scavi di Sabratha e non avrà vita facile, immagino. Facile imbattersi qua e là in qualche compatriota nostalgico di Balbo e dell’italico ordine in Libia, Graziani no, lui no, era proprio esagerato. Montanelli che comprava la moglie dodicenne no? Eh, ma si poteva fare. Una testata, vi dò, babbei. È proprio vero che i ricordi dell’infanzia sono i migliori.

Girolando per la Tripoli coloniale mi imbatto in un cinema dell’epoca, ha la classica forma, pensilina e finestroni verticali compresi, sembra l’Impero di Asmara, uguale all’omonimo di Tor Pignattara. Il viale è quello che porta al palazzo del governatore, sono quasi tutti edifici di epoca coloniale e sono ricoperti di impalcature: a un occhio non esperto, il mio, non per ristrutturare ma per fare tutt’altro, a giudicare dai forati aggiunti apparentemente senza costrutto. In tutta la faccenda, prima di Balbo, fu coinvolto quel gran porcaccione del conte Volpi di Misurata, che nell’Italia repubblicana si ritroverà proprietario della SADE nella faccenda della diga del Vajont, supportato dal punto di vista militare dall’orrendo Graziani. E ancora oggi a Venezia danno la coppa Volpi, madonna che nervoso. Il palazzo del governatore è un assurdo architettonico misto tra razionalismo e architettura araba e per prominenza della posizione dà l’idea della dominazione, poi fu la dimora di Balbo e poi di re Idris. Gheddafi no, lui dormiva nelle caserme e le cambiava spesso, guardarsi le spalle.

Nella dechirichiana – o escheriana, se fosse più intelligente – chiesa di san Francesco fu celebrato il funerale di Balbo in gran pompa, tirato giù lo ricordo da fuoco amico. Bravi. Dentro incontro un gruppone di suorine di Calcutta, cioè dell’ordine di madre teresa (scritto minuscolo, non apprezzo per nulla), chissà che connessioni ci sono. Girolando ancora, trovo un tesoro: una piccola libreria, polverosa perché la sabbia entra dappertutto, gestita da un uomo cordiale il cui ruolo di libraio in Libia dev’essere tutt’altro che facile, come sventolare una bandiera bianca in mezzo a due linee di fronte. Tra le storie di Balbo, alcune anche in italiano, e di Saddam, trovo i sonetti di Shakespeare in arabo con testo a fronte, l’Orwell di 1984, un Vonnegut indecifrabile, un piccolo Principe nell’identica edizione italiana solo in arabo.

Pur volendo, non riesco a comprare nulla ma due parole le facciamo, sorridendoci a vicenda. Quella che ora è via Indipendenza era una volta via Vittorio Emanuele terzo, altro porcaccione imbelle. Sento la necessità di avere vicino Del Boca, grande merito a lui. Arrivo alla galleria Aurora, altro grave lascito del colonialismo italiano e qui finisco anche le galleriette di immagini, per dare conto qui a chi ne avesse curiosità.

E a questo punto mi congedo, senza trarre alcuna conclusione specifica. Che non sarebbe stato un viaggio facile lo sapevo ancor prima di partire e così è stato, porto a casa con me consapevolezza, rapporti umani significativi, ricordi belli e qualcuno meno, qualche incubo nuovo. Ora starà a me mettere a frutto quando visto e detto e se possibile trasmetterlo nella maniera più efficace possibile. Il mondo che conosco si è allargato e ristretto insieme, con questo viaggio, come l’ottimismo sulle sorti umane e del mondo, mica posso andare solo a Siena tutte le volte per farmi scaldare da forme e modi amichevoli e conosciute. Vedrò la prossima volta che strada piglio. Grazie a chi ha seguito.