minidiario scritto un po’ così di un breve giro alla carlona: uno, luoghi per gli acquisti, scherzi del tempo, il centro del dibattito

Soprattutto nei paesi di lingua spagnola, gira una storiella ridicola che fa partire da Colombo, Colon, il concetto e il termine stesso di colonialismo. Ridicola nel senso che l’etimologia è del tutto un’altra, dato che il povero Colon avrà tante colpe ma non questa, ed è, ovviamente latina, coloniă, coloniae. Il significato è chiaramente slittato verso una connotazione negativa a seguito delle vicende coloniali, appunto, più recenti, ma l’etimo resta. Per dipanare ogni dubbio, basti pensare a Colonia, la città, per fare un unico esempio, con evidenza preesistente a Colombo, avamposto romano a presidio delle rive del Reno e del confine nord continentale dell’impero. Ed è, il caso, proprio dove sto andando io.

Un pretesto, una conferenza di lavoro, via. A Colonia son stato più volte, siccome era il posto sul quale i bombardieri alleati sganciavano le bombe sia in entrata che, soprattutto, in uscita, ne resta pochino. Il duomo, certo, colossale e frutto in buona parte del revival medievalistico di fine Ottocento, ne ho raccontato, un bel museo romano e uno di arte contemporanea, il museo Ludwig, nato dall’acquisizione coraggiosa di arte degenerata durante il nazismo da parte di un lungimirante industriale, per evitarne la scomparsa. D’altronde, quella scena era particolarmente vivace qui, prima della guerra, basti citare Max Ernst e la scena surrealista. Poi non molto, se non robuste dosi di acqua di Colonia, serve dirlo?, un meraviglioso fiumone, un’università importante e una certa vicinanza ad altre cose interessanti.

Al centro della Renania settentrionale-Vestfalia, Colonia fa parte di quell’agglomerato incredibile di industrie e persone, la Ruhr, la chiamano la megalopoli europea, che ha da sola un PIL di oltre settecentomila miliardi annui. Non è un numero per dirne uno alto. Cammino per un paio di vie del centro della città, dritte e lunghe qualche chilometro, completamente foderate di negozi di grandi catene, ininterrotti. Sono talmente tanti che si ripetono più di quanto non direi, c’è un DM o un Rossmann ogni duecento metri, evidentemente c’è necessità di cristallo di rocca. Piove, anzi no: nevica. Nevica eccome e, secondo le profezie del meteo, durerà. Non bene, però, per il gran numero di persone che sta per strada, imbacuccati alla bell’e meglio per racimolare qualche aiuto. Certo, è una grande e ricca città e i rivoli di tutto questo consumo da qualche parte vanno, però sono davvero tanti. Alcuni mi dicono che sì, hanno dei posti riscaldati dove andare la notte ma altri hanno il sacco a pelo. Perlomeno, è un risvolto positivo del consumismo, si riesce a mangiare con poco. Il contrasto è, come sempre, forte, ma che senso ha scoppiare di merci da una parte e non avere niente dall’altra?

Colonia, più della vicina ma piccola capitale Bonn, fu uno dei centri della ricostruzione materiale, morale e intellettuale del secondo dopoguerra nella Germania occidentale. Se coi mattoni si fa prima, la questione dei conti col nazismo e con uno Stato ancora largamente formato da gerarchie del regime fu tardiva ed ebbe inizio alla fine degli anni Cinquanta per buona parte a Colonia e grazie, anche se non solo, al cittadino Heinrich Böll. Il suo Opinioni di un clown, sebbene io allora l’abbia collocato nella situazione che vivevo, quella italiana, e non in quella tedesca, che non conoscevo, ha segnato la mia crescita. La critica di Böll ad Adenauer – già sindaco di Colonia – e alla sua indifferente e opportunistica politica di proseguimento della saldatura tra borghesia, industria e frange reazionarie a colpi di amnistie fu solida e costante, efficace in particolare perché formulata da un cattolico e dall’ambiente che lo stesso cancelliere rappresentava. Come spesso poi fanno i tedeschi, andarono all’estremo opposto e ancora oggi, per dire, è proibito rappresentare la svastica persino nei musei. Per dirne un’altra, è solo da qualche anno che si è deciso di ripubblicare Mein Kampf, con un robusto apparato critico, per ovviare al fatto che in rete si trova ovunque privo di ogni nota di contesto. Prima era vietato.

Come successe a Londra col Tamigi, l’unico ponte stabile sul Reno fino al 1811 lo costruirono i certi chiamati Romanes. Ed era un ponte enorme, il fiume è larghissimo. Poi, vedi il tempo, i barbari, il ponte andò in rovina e questi rimasero millecinquecento anni senza un ponte degno di questo nome mentre noi si era già da tempo ammazzato un Giulio Cesare. Poi nell’Ottocento ne fecero uno colossale, di quelli col kaiser e gli odini qua e là che resistette fino al marzo 1945, quando gli stessi nazisti lo fecero saltare. Il genio militare alleato lo sostituì con una passerella da carri armati e tale rimase fino agli anni Cinquanta. Le foto sono impressionanti. Come abbiano fatto a non tirar giù la cattedrale, proprio a fianco, durante i bombardamenti, resta un bell’interrogativo – siamo stati fortunati – con cui chiudo e vado a domani.


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