minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 54

La peggiore del giorno è questa: un paese che pensa di essere ricco, che si riempie la bocca con espressioni del tipo «la quinta, sesta, settima economia del mondo» da quarant’anni, un paese che pensa di essere il più bello, il più bravo e il più intelligente di tutti, insomma questo paese un giorno si becca una malattia e scopre di non saperla contenere. Perché gli ospedali non sono i più belli del mondo, perché non sono i più lesti a chiudere le zone rosse, perché non hanno i migliori piani di contenimento, a volte manco ci sono, i piani, perché perché eccetera. Questo paese di cui sto dicendo va in crisi, gli ospedali scoppiano, la situazione è davvero drammatica e un paese piccolino, bistrattato da tutti ma soprattutto dal primo paese, ridicolizzato e insultato, offre il proprio aiuto e invia medici e infermieri per aiutare il paese grande e ricco a risollevarsi. Dai e dai, grazie anche all’aiuto delle persone che sono venute ad aiutarlo, il paese si riprende un pochino, la situazione migliora e le cose si fanno meno drammatiche. Allora i medici e gli infermieri venuti in aiuto dal paese piccolino, la sera prima di lasciare il grande paese, nell’appartamento che è stato dato loro per la permanenza, festeggiano la fine di un periodo tremendo, bevendo insieme qualche birra e facendo un po’ di baccano. Eh no, eh no, questo non lo potete fare, siete venuti ad aiutarci – vostro dovere, peraltro – e questo non lo potete fare. I vicini chiamano i vigili e i vigili, solerti, affibbiano cinquecento euro di multa a ciascun medico e infermiere. Così imparate, prima di tornare domani nel vostro piccolo paese. Così imparate, a far casino. Ora lo dico al me del futuro, che magari non ricorderà tutti i dettagli di questa storia quando rileggerà tra molti anni: il piccolo paese è l’Albania. Il resto è facile, basta guardarsi attorno. Gratitudine senza confine.

Hanno chiaramente preso ispirazione dal mio minidiario. Scherzo. Diciamo che come me alcune persone si sono poste la questione di come documentare questa pandemia: se per i dati dei contagiati ci sono i bollettini, se per la cronaca ci sono i giornali, se per i decreti ci sono gli atti del Governo, per raccontare cosa è successo, succede e succederà nelle vite comuni, tra la popolazione, servono altri modi. Scrivere, magari, riprendere, i modi sono molti, purché siano trasmissibili. Tra i tanti, un modo interessante sono i musei. Non sappiamo ancora come si racconterà tutta questa vicenda, non sappiamo nemmeno se prima o poi qualcuno potrà tornare in un museo, se è per quello, ma sappiamo che è una cosa che andrà in ogni caso documentata. E così le teste pensanti di molti musei del mondo si sono organizzate e hanno cominciato a raccogliere materiali relativi alla pandemia covid-19 che si sviluppò sull’intero pianeta tra la fine del 2019 e… mmm. Mascherine, disinfettanti, guanti, tute, respiratori, manifesti, fotografie, avvisi, tutto quanto potrebbe essere utile. Se ricordate le immagini della zona rossa di Codogno, molti erano i fotografi che avevano documentato i posti di blocco della zona isolata. La stessa quarantena, di un paese intero prima e di molti paesi poi, va raccontata. Vanno raccolti gli elementi che possano documentare, nel futuro, le risposte mediche, scientifiche e culturali alla pandemia. La lettera di Johnson alle famiglie inglesi, per esempio, i magneti inseriti nel naso di un medico inglese a marzo nel tentativo di creare una barriera al contagio per via respiratoria, magari i respiratori creati dalle maschere di Decathlon e così via. Il British Science Museum di Londra ha una specifica galleria dedicata alla storia della medicina e, come museo anglosassone, ha una consuetudine e un’esperienza costruita negli anni sull’organizzazione di esposizioni partendo dagli oggetti quotidiani. Il museo, e non è il solo, ha dichiarato tempo fa di essere attivo nella raccolta di oggetti: «Alcuni articoli che sono già stati donati vengono per il momento archiviati in modo sicuro presso lo Science Museum, mentre altri materiali vengono custoditi dal donatore fino a quando non sarà possibile aggiungerli alla collezione». Ci verrà da ridere (diciamo…) quando rivedremo come eravamo conciati nei giorni della peggior diffusione del contagio, senza mascherine, senza guanti, qualcuno ricorderà l’ospedale di Alzano Lombardo, i medici chiusero il pronto soccorso di fronte a molte polmoniti strane dai caratteri non comprensibili e la Regione, a sera, ordinò di riaprire. A questo servono i musei, a mettere in ordine i fatti e a ricordare. Anche se a molti non fa piacere. A proposito: dopo cinquanta giorni di conferenze quotidiane e dichiarazioni a cadenza quasi oraria, chi ha visto Bertolaso e Fontana? Dileguati.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 53

Oggi giornata di grande attività: cavi alla mano, si è trattato di rimettere in moto un’auto in cortile che nei cinquanta giorni aveva perso la scintilla. Grande fervore, cavi, motori, brum brum, pareva quasi una vita fa. Pure la pioggia a lavare le auto, una meraviglia. Una volta messa in moto, ho accluso gita dall’elettrauto (giustificazione: sia di necessità sia il mio codice ATECO che è tra quelli legittimati alla circolazione) e ho dovuto fare per forza qualche chilometro per ricaricare la batteria. Un giorno pieno di cose. Che stanchezza, a sera. Che succede, oggi? Fitch declassa il debito dell’Italia a BBB-, che è appena una tacca sopra l’umido per il compost, chiaramente reagiamo dicendo che non hanno capito. Il governo ha imposto un prezzo calmierato per le mascherine, cinquanta centesimi al pezzo, e le farmacie che le hanno pagate di più ora si rifiutano di venderle. Bene. Il percorso dell’app per il tracciamento ha finalmente preso una piega istituzionale con un, minimo ma necessario, controllo sui dati raccolti che, pare, saranno cancellati alla fine dell’anno. Va ben pur tutto, va bene l’emergenza, ma che una società privata tra i cui soci ci sono i figli di Berlusconi raccolga con un’app i dati sanitari degli italiani senza che si possa esprimere almeno perplessità, è davvero un po’ troppo. I sondaggi degli umori politici degli italiani dicono grande fiducia a Conte e discesa costante della Lega, data adesso al 25,6% suppergiù (qualcuno con una buona battuta ha detto: «la discesa del contagio»). Salvini sbanda e non sa come riconquistare l’attenzione, ci ha provato mettendosi gli occhiali, facendosi la barba, postando il video della figlia che suona, strepitando contro il MES, facendo il versipelle ancor di più e invocando prima la chiusura poi l’apertura poi la chiusura e poi l’assoluzione per infermità mentale ma a nulla sono valsi gli sforzi. Intanto, spalleggiandosi con l’amico e sodale Renzi, lavora a indebolire il governo ogni volta possibile. Anche la Meloni, certo, ma è la meno convinta dall’ipotesi di un governo di unità nazionale con dentro tutti. Ovvio, lei al governo ha solo da perdere. Se poi è costruttivo, manco dipinta.

Al di là delle critiche al governo – Confindustria accusa il poco coraggio, CEI come detto di non riaprire le Chiese, le categorie di far finire sul lastrico i commercianti – c’è una critica legittima da fare: la mancanza di un piano sanitario per la «Fase 2». Mentre si parla di «congiunti», di sport, di seconde case, nessuno parla di un piano organico che includa i tamponi e i test sierologici, nessuno comunica le forme di una condotta omogenea, o eterogenea su base territoriale, che con chiarezza esplichi quali saranno i prossimi passi per affrontare la pandemia. Forse, tra le priorità, certamente dopo i nostri amici cani e gatti e i le uscite dei bambini, se ne potrebbe parlare. Anche perché, a oggi, è del tutto oscuro quanto duri l’immunità (pare poco) e se sia possibile essere infettati nuovamente (sì) e qualcuno sostiene che il virus sia già mutato trentatré volte dalla Cina in poi. Quindi, prima delle gite al lago, forse bisogna affrontare altro. Per domani è attesa una circolare, vedremo cosa si dice. Al momento non è ancora chiaro di chi sarà la competenza e il dovere di stabilire delle nuove zone rosse in caso di nuovi contagi dopo il 4 maggio, se del governo o delle Regioni. Sarà il caso di capirlo, visto che pare sia uno dei cardini delle prossime strategie.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 52

Dal punto di vista dei viaggi, tra le altre cose, la situazione è grigia. Non dico andare in Malesia, dico andare a Reggio Emilia. Ancora nessuna possibilità di travalico dei confini regionali, tanto meno quelli comunali se non per comprovate esigenze lavorative o urgenti, e le possibilità di spostamento in città sono regolate allo stesso modo. I mezzi pubblici possono essere utilizzati ma a patto del distanziamento sociale, il che equivale a dire che viaggiano al massimo al venticinque per cento della capienza, con adesivi sui sedili per comunicare il «qui-si-può» e il «qui-no». La stessa metropolitana compie viaggi per poche decine di persone per treno, a star stretti.
Viaggiare è per me non solo un piacere e uno svago ma un’attività connaturata a me. Significa anche solo andare a visitare la chiesina all’angolo o il paesello a otto chilometri da dove vivo se ho un paio d’ore libere. È un’attitudine alla scoperta del mondo, è un desiderio di conoscenza e di organizzazione dello spazio e del tempo o, più banalmente di fianco e non in alternativa, curiosità irrefrenabile. Ovvio che mi manchi, più di molte altre cose. Per ovviare, sulla mappa immagino itinerari che vorrei fare non appena possibile. Oggi, per esempio, stavo esplorando l’alto Lazio: sono partito da villa Farnese a Caprarola per poi spostarmi a costeggiare il lago di Vico, visitare poco più a nord la faggeta e l’orrido in località Pozzo del diavolo, mi sono poi spostato di pochi chilometri a San Martino al Cimino, all’abbazia cistercense in particolare, per seguire le tracce di donna Olimpia; ho proseguito per Viterbo, il palazzo dei papi in particolare, poi appena fuori il santuario di Santa Maria della Quercia e villa Lante a Bagnaia. Potrei arrivare, a questo punto, a Bomarzo, a visitare il parco dei Mostri e a mangiare a Marta, sulle rive del lago di Bolsena. Il tutto in una trentina di chilometri al massimo, che meraviglia. Non da oggi, segno su mappa i luoghi che mi interessano, così da essere pronto quando organizzo un viaggio, breve o lungo che sia. Chiaro che in questo periodo la mappa si stia arricchendo di parecchi segnalini, con una certa pena al pensiero di non poterne togliere. Eccola qui, a oggi:

A proposito di viaggi, oggi mi ricordo di possedere un’auto. Cinquantadue giorni che è ferma, sotto una bella coltre spessa di polvere gialla, che sbadato. Mi avvicino timoroso e, dopo una timida prece e un rimprovero a me stesso, provo e per fortuna parte, con una nuvola grigia. Non è fortuna di tutti, molte batterie sono andate, in queste settimane. L’accendo e faccio due giri attorno all’isolato, come da prescrizioni, anche per non rimetterla nella medesima posizione, causa gomme. Oh, le gomme! Da cambiare, appena possibile, perché tenerla ferma con le gomme invernali, parbleu, non è cosa. Il che, sempre seguendo un filo di pensieri a macchia di leopardo, mi fa venire in mente che sono stati prorogati i termini per il cambio delle gomme. E vorrei ben vedere, ma ciò che mi importa dire qui è che in questi mesi sono slittate anche tutte le scadenze, causa evidente clausura: spostati i termini di consegna delle dichiarazioni dei redditi, del pagamento dei contributi, di tutti i documenti scaduti, dalle patenti alle carte di identità, tutto in là verso una speranza di vita normale quanto prima. All’inizio della pandemia ogni cosa, dai concerti alle scadenze fiscali, è stata spostata di poco in avanti, di un mese, allora non potevamo concepire di più. Poi, ad aprile, si è cominciato ad allungare i termini di due mesi o più, ora l’orizzonte per le scadenze va ampiamente verso l’autunno. Chissà se basterà. Perché anche le ultime notizie non sono confortanti: in Francia si sono ricreduti sull’ipotesi – incauta – di riaprire le scuole l’undici maggio e hanno posticipato al vedremo, in Germania pare che si vedano i primi effetti della riapertura nel senso che l’indice di contagio (quante persone infetta una persona) è risalito in pochi giorni da 0,7 a 1*. Pessima notizia, perché le nostre decisioni future dipenderanno da ciò che succederà nelle prossime settimane e siamo in attesa di vedere gli effetti concreti della timida riapertura di questi giorni, che sta riportando al lavoro circa 2,9 milioni di persone. Prudenza, quindi, è la parola d’ordine e il governo ben sta tenendo la barra, anche se i colpi inferti in queste ore sono consistenti: molti ciurlano nel manico, dalla CEI alla Lega, e spingono per le riaperture più per indebolire Conte che per altro o per tornaconto personale, vedi lo scontro CEI-papa. Il dossier in mano al governo riporta dei conti abbastanza precisi: per esempio, alla riapertura delle scuole corrisponderebbero circa cinquantamila persone in terapia intensiva, il triplo in caso di riapertura totale. Considerando che, con gli ampiamenti degli ultimi due mesi che hanno circa raddoppiato i posti, in Italia ci sono poco più di novemila posti letto disponibili, i conti sono presto fatti. Tenere chiuso, con buona pace di tutti.

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* Aggiornamento del 29/4.
Pare che la situazione in Germania sia, anche stavolta, mal riportata. Pare che il valore sia 0,9, cioè ancora quello precedente alla riapertura. Inoltre, il tutto andrebbe valutato nel tempo. Il virologo Jonas Schmidt-Chanasit, del Bernhard-Nocht-Institut für Tropenmedizin di Amburgo, ha spiegato che l’R0 «non si dovrebbe sopravvalutare» e che va tenuto presente il «quadro generale, cioè il numero di persone gravemente ammalate e la capacità degli ospedali e delle terapie intensive», dati che attualmente in Germania sono piuttosto rassicuranti.

sapete cosa potete fare con il vostro disaccordo?

O stronzoni (oddio, ho detto stronzoni alla CEI, momento epico per me), noi il 25 aprile siamo stati a casa, fatelo anche voi.

Passo allo spieghino: la CEI, con il tono arrogante e supponente che spesso la caratterizza, protesta pubblicamente per il decreto del governo che, dal 4 maggio nella «Fase 2», non permette la ripresa delle messe. Si può anche non essere d’accordo, avere magari una posizione diversa suffragata da elementi validi, ma non si può dire «arbitrariamente» con tono polemico quando si parla di una pandemia, vigliacco cane!, né invocare la libertà di culto o il servizio verso i poveri. Smettete di scrivere lettere pubbliche e andate ad aiutarli per davvero i poveri, che hanno ancor più bisogno in questo momento. Sono davvero senza parole.
Ma io conto poco, visto che li odio, quelli della CEI, ma conta ben di più qualcun altro che, pur non potendo smentirli pubblicamente, dice due cose molto molto chiare.

Capito? La grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni. Perché il bene pubblico è superiore alle esigenze, stavolta men che meno legittime, della CEI. Ah, se piovesse un bel po’ di grazia sulla CEI, che fin dai tempi di Ruini brilla per posizioni progressiste vicine a quelle del Concilio di Trento. Autonomia un cavolo.

minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 51

Il decreto, finalmente, dentro alla «Fase 2» di corsa, urrah.
Solo che è uguale alla «Fase 1». Chi l’avrebbe detto? Beh no, beh no, qualche differenza c’è: ora si può andare a trovare i «congiunti» con la mascherina, non ci si può abbracciare, e il testo fa intendere che non sarebbe il caso di fermarsi a cena per discorrere del più e del meno. Apriti cielo: chi sono questi «congiunti»? Posso andare ad Ancona a trovare la mia vicina di ombrellone dell’anno scorso con cui tanto avevamo legato? Il fratello del bisnonno è «congiunto»? Vattelappesca. Inoltre, si può fare attività fisica al di fuori del limite dei duecento metri. Posso andare a fare la Tre Valli Varesine col cane? Posso nuotare nel Po? E poi: è consentita la ripresa dell’attività sportiva a chi la svolge a livello professionale. Posso tirare al piattello al parco? Guardi che a me piace moltissimo, sono un vero appassionato, cosa c’entra che sono un operaio? Chiaro che tutto ciò è per celia, è per prendere la misura di cosa si possa fare e cosa no, è per polemica gratuita, è per quella gioia tutta italica di prendere in castagna qualcuno di famoso quando sbaglia. A costo di dire scemenze. Il decreto, per fortuna, apre timidamente e consente a diverse attività lavorative di riprendere (o, come si è visto in questi mesi, di dirlo apertis verbis), mantiene le maglie abbastanza strette per non compiere scivoloni nel controllo della diffusione del contagio. Fosse stato il contrario, mi sarei innervosito, ed è una cosa che temevo. Dopodiché, sapere cosa succederà sta solo nella mente degli indovini, se i divieti saranno rispettati, se le reazioni saranno composte, se tutto questo servirà o meno. Il fatto che tutti si mostrino scontenti o abbiano qualcosa da dire non è di per sé significativo, perché accade ogni volta, e il fatto che effettivamente il traffico sia aumentato di parecchio può rispondere all’apertura lavorativa. È uno stato di cose visibile di cui mi sono accorto, per fortuna, in tempo: non posso e non devo più affrontare le rotonde in motorino senza guardare o quasi. Adesso ci sono delle altre auto. E gli ampi parcheggi disponibili per quasi due mesi adesso sono di nuovo una speranza. Chissà dov’erano tenute le macchine prima. Conte compie una visita lampo in Lombardia tra Milano, Bergamo e Brescia e, curioso, ci arriva verso l’una di notte. Considerando il disaccordo tra governo e Regione, nel senso di guida leghista, fin dal primo giorno e considerando la coincidenza con il decreto «Fase 2», forse avrei fatto lo stesso. «Prima sarei stato d’intralcio», dice lui, e io penso che non avrebbe potuto esimersi dal venire ancora a lungo e che lo ha fatto per farlo e tanti saluti. Ma, ripeto, avrei fatto anch’io così, evitandomi assalti e polemiche inutili in questo momento.

Tra le buone notizie, c’è quella che annuncia che il nuovo ponte di Genova, quello che ha sostituito il ponte Morandi, è praticamente terminato (anche se non vedo i ristoranti e i parchi di cui parlava Toninelli. Ah, le false promesse…). Se l’accartocciamento del ponte sul Magra all’inizio di aprile (giorno 34) era un piccolo simbolo dello sgretolarsi del paese, questo è un piccolo segno di ripresa: perché devo confessarlo, ad agosto 2018 avevo scommesso che non ci sarebbe stato nulla fino a due anni dopo (ero in polemica con quei criminali che assicuravano che in tre mesi il ponte si sarebbe fatto) e, invece, mi devo ricredere con un anticipo di sei mesi. Bene. Se potremo anche percorrerlo, meglio. Ora ci sono ventimila proposte per il nome.

A sera, un amico gentile (grazie signor P.) mi invita a teatro. In senso letterale, l’espressione è corretta – «vedere dal vivo» – certo bisogna intendersi sul concetto di «vivo»: da un lato degli schermi ci siamo noi, i reclusi, e dall’altro, sempre recluso, c’è l’attore, in questo caso Andrea Cosentino. Ci colleghiamo in circa trenta non senza qualche difficoltà qua e là con un programma qualsiasi di videoconferenza (i software più utilizzati nel periodo) e assistiamo allo spettacolo. L’attore, ovviamente interessato all’esperimento anche per riuscire a capire come possa provare a reinventarsi una professione almeno per il prossimo anno, disastro anche per loro, ci chiede di tenere accesi i microfoni, così da avere eventualmente dei riscontri durante la messa in scena. Chiunque abbia mai usato questo tipo di programmi sa che mentre uno parla gli altri dovrebbero silenziarsi, poiché basta un rumore qualsiasi, un colpo di tosse, perché l’inquadratura e il suono si spostino sulla fonte più recente. Cominciamo e dopo pochi secondi io, e tutti, mi ritrovo a guardare una signora che non conosco che ride sul divano. Poi l’immagine torna sull’attore e alla prima battuta, signora. Cosentino-signora-Cosentino-signora-signora-signora, a seconda delle risate. Confesso che mi piglia il riso contagioso ma non cambia, anche fissando l’inquadratura sull’attore, resta la questione dell’audio. Dopo un po’ la regia taglia il microfono della signora e si procede. Che dire? Sono contento sia accaduto e di avere fatto parte di questo esperimento (che prevede altre serate) e penso che possa riservare degli ampi margini di miglioramento. È pacifico che è un’altra cosa rispetto al teatro e sarebbe sciocco pensare di avvicinarsi a ciò che è la resa in una sala con il pubblico presente. È un’altra cosa e andrebbe trattata come tale. Più sconfortante, forse, il risultato per l’attore, che credo debba rassegnarsi a perdere il contatto con il pubblico e a recitare dal proprio salotto davanti a un monitor, muto. Prospettiva non esaltante, in effetti. Però è bello dopo, quando si può parlare, insieme, condividere ciò che è appena stato e scambiare qualche opinione. E, magari, fare un brindisi, come ieri sera. E scoprire che, fuori inquadratura, il vino ce l’avevano tutti, pronto.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 50

Diobono, cinquanta giorni. Cinquanta giorni che non bevo un cappuccino al bar. Ma oggi c’è il decreto, stasera c’è Conte. E allora sì. Ormai è una corsa parossistica: si potrà andare a innaffiare gli orti, anche quelli degli altri; si potrà andare nelle seconde case ma solo nelle proprie; si potrà andare in giro, sì, ma con giudizio; si potrà divertirsi sì, ma con la testa; si potrà fare il bagno ma solo chi abita a tre metri al mare o su chiatte galleggianti; si potrà fare sport liberamente; si potrà andare a Cuneo il giovedì; si potrà volare col parapendio ma non in luoghi affollati; si potrà andare al ristorante ma solo ordinando il secondo; si potrà spostarsi in un’altra regione ma solo su mezzi a due ruote; sarà possibile comporre madrigali e mottetti in luogo pubblico purché accompagnati dalla cetra; si potrà compilarsi da soli l’autocertificazione; riapriranno i cinema e le case chiuse; ci sarà la pace fiscale e quella edilizia e sarà tre volte natale e festa tutto il giorno; si potrà, infine, andare in vacanza ma solo con il camper o la roulotte. Ecco, non sono tutte affermazioni così lontane da quanto si sente in questi giorni: fuffa all’ennesima potenza, dato che non si è vista l’ombra di una bozza di decreto o qualche indicazione in merito, tranne un’improvvida dichiarazione di non si sa chi a nome del governo sul bagno al mare.
Vedremo. Nel frattempo, si registrano da una parte la prosecuzione delle celebrazioni per il venticinque aprile – perché ci vuole tempo a caricare i video sui siti, visto che quest’anno si è festeggiato così – e dall’altra parte, la parte sbagliata, circolano purtroppo i soliti commenti volgari, gli sfregi alle lapidi e alle tombe, qualche povero idiota in cerca di risonanza. D’altronde, se più di duemila anni fa Erostrato fece quel che fece, non vedo perché oggi il livello dovrebbe essere più alto. E tra tutti i mentecatti segnalati, quest’anno vince il premio ‘Idiozia e Schifezza’ la vicesindaca di Rivoli che, in un video ipercasalingo sul balcone, esprime i propri pensieri in libertà, pensando di essere spiritosa e simpatica, su «Bella ciao» e la Resistenza. E ora il gioco: indovina il partito della vicesindaca e vincerai niente, perché è troppo facile.

Con tipico atteggiamento italiano, ovvero perennemente oscillante tra indifferenza ed esagerazione senza tappe intermedie, siamo diventati il secondo paese al mondo per il numero di tamponi eseguiti. Nulla per un sacco di tempo e poi da niente a mille in dieci secondi. Il che è curioso perché se prima era sciocco non farli, ora ci saranno di certo persone che hanno fatto decine di tamponi e chi, come me, no e non sa nemmeno che aspetto abbiano. Il presidente del consiglio assicura che ci sarà un prezzo calmierato sulle mascherine, cinquanta centesimi a pezzo, e se ne trovano ancora poche, e allo stesso tempo emerge che Irene Pivetti – vorrei ricordare: ex presidente della Camera. Indovina di che partito? – faceva parte di un traffico per importare milioni di mascherine cinesi non a norma per la protezione civile, con un patto riservato che le permetteva di trattenerne una parte e rivenderle da sé. Molto bene. Ora non resta che aspettare Conte, stasera, e vedere cosa si potrà fare e cosa no. Non vorrei fare il gufo ma prevedo delusioni diffuse e piovaschi.

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minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus: giorno 49

Oggi è il giorno più bello dell’anno. È la festa più bella, la più importante. I vari Salvini, Meloni, Berlusconi, Mussolini, Santanché, La Russa e così via dovrebbero essere tra i più fieri sostenitori della Liberazione, visto che è grazie allo sforzo di centinaia di migliaia di partigiani se loro possono dire le vaccate che hanno brama di dire in tutta libertà. Ma non qui, non ora, ora voglio parlare della festa. Solitamente, il 25 aprile è per me dedicato a una giornata a Milano, da molti anni: ritrovo la mattina con gli amici affezionati, puntata al cimitero Monumentale a deporre delle rose o delle gerbere, a seconda del fioraio di fronte, sulle tombe di Giovanni Pesce e Norina Brambilla, come simbolo di tutti i partigiani, un panino o un kebab ai giardini di corso Venezia e poi in manifestazione, fino a sera. Il fatto di trovarsi in una vera fiumana di gente lì per manifestare, in senso letterale, la propria adesione al ricordo e ai valori della Resistenza, è per me, noi, sempre un’iniezione robustissima di fiducia, ottimismo e speranza: vedere decine di migliaia di persone come me, tutte insieme, tutte contente o incazzate, a seconda degli anni, è una vera gioia. E poi ci sono gli amici, tutti quelli che si vedono solo una volta l’anno, proprio in manifestazione, e quelli invece che si è sempre d’accordo senza bisogno di dirlo, il 25 si sta a Milano.
Non è tutto: il 25 aprile è una festa vera perché, fin dal mattino, ci si telefona e ci si scambia messaggi per augurarsi «buona Liberazione», se ne fate parte lo sapete. Come il natale o la pasqua per altri, tuttavia se oggi è possibile per tutti votare o esprimersi liberamente non è grazie al Signore. È un modo per condividere la gioia del giorno, un modo per sentirsi, salutarsi, condividere la vicinanza, esprimere la riconoscenza per chi ha combattuto, magari ci ha lasciato le penne, per noi. È anche un modo per stabilire un punto fermo, che il fascismo non può e non deve passare, che i valori della Resistenza sono i valori fondanti del nostro Stato, che certe cose non si possono dire né fare. La cosa davvero stupefacente, ogni anno, è constatare come la festa della Liberazione, invece di essere largamente condivisa e partecipata, sia ignorata dalla maggior parte della popolazione italiana. Quella che si riconosce anche nei valori democratici della Costituzione ma non riconosce la festa, non la festeggia, non sente la ricorrenza, vuoi per mancanza d’abitudine, vuoi per ignoranza, vuoi – e la cosa mi stupisce ogni anno – perché la considera una festa di una sola parte politica. Si tratta chiaramente di una scemenza sotto ogni punto di vista, sia perché i valori stabiliti dalla lotta di Liberazione sono ampiamente condivisi e condivisibili, sia perché i partigiani furono di ogni collocazione politica, tranne ovviamente una.
È il destino della festa, lo so. Siamo al settantacinquesimo, man mano che passa il tempo la ricorrenza diventerà come altre ricorrenze precedenti, il 4 novembre per la prima guerra mondiale, la breccia di porta Pia, fino a più indietro, il Risorgimento. Date. Qualche esponente degli enti pubblici coinvolti, qualche corona al ciglio della strada e via. Ciò fa parte del corso naturale delle cose, chi di fatto non avrà mai incontrato un partigiano di persona o ne avrà sentito i racconti, farà fatica a sentirsi parte della Resistenza. Ciò, e di questo sono sicuro, non accadrà però finché ci siamo noi, intendo la mia generazione, perché siamo parte di quella storia. Anche quelli un po’ più più giovani, a tener fede alle persone che vedo in manifestazione, dovremmo quindi essere tranquilli ancora per qualche decennio, da questo punto di vista.

Oggi però non è andata come al solito. Ovvio, perché siamo chiusi in casa e, di certo, non è possibile manifestare. Un bel paradosso, a pensarci, non poter festeggiare la Liberazione. Già. Molta gente ha però cantato dai balconi, «E le genti che passeranno / ti diranno “Che bel fior!”», molti altri hanno fatto dirette, hanno commentato e scritto, tanti hanno partecipato. E poi le telefonate e i messaggi, quelli sì, ci sono stati anche più del solito. È stata una festa, comunque, con la promessa di rivedersi l’anno prossimo, sottinteso: in piazza. Liberi. Io no, non ho cantato: io sono scappato. Lo ammetto, mi spiace davvero per chi non lo può fare, sono uscito e me ne sono andato a camminare per i campi. Senza incontrare nessuno, senza contagiare nessuno, senza parlare con nessuno, ho portato un fiorellino alla lapide di un partigiano non distante da casa, e poi ho camminato. Perché va bene non andare in piazza ma stare pure chiuso in casa anche il 25 aprile non ce l’ho fatta. Ho camminato, ho pensato, ho canticchiato, mi sono commosso, ho ricordato, ho celebrato, ho parlato e salutato chi non c’è più, ho ringraziato. Come sono certo hanno fatto molti come me.

Alla fine della giornata, però, abbiamo festeggiato insieme: un brindisi collettivo in cortile, alle giuste distanze e ognuno nel proprio cantone, per non lasciar passare la festa. La terza bottiglia, forse, è stata di troppo, ci siamo salutati che era buio pesto e cominciava a far freddo, per fortuna un nuovo amico semibelga ha avuto il furore da frittura e ci ha sfamato a piatti e piatti di patatine fritte sul momento, abbiamo fatto una cosa che, tutto sommato, non era poi così distante dalla spaghettata sull’aia di casa Cervi. È stata comunque una festa e si è stati insieme, per quanto distanti e magari solo per via del telefono, questo conta. L’anno prossimo sarà meglio.

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