gli anagrammi nascosti nelle lettere di Moro

Medici appassionati di altro. Se il medico Jean-Philippe Postel nel suo Il mistero Arnolfini aveva di certo sollevato considerazioni interessanti sul “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di van Eyck, ne parlavo qui qualche anno fa, l’altrettanto medico Carlo Gaudio pubblica L’urlo di Moro (Rubbettino) nel quale sostiene di aver decifrato degli anagrammi all’interno delle lettere di Moro – il periodo è buono, fino al 9 maggio, per ogni tesi – che avrebbero indicato il luogo della detenzione. Nella lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo 1978 la frase: “Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato” anagrammata darebbe (non mi son preso la briga): “E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”; nella lettera alla moglie Eleonora del 5 aprile Moro scrive: “Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire” e il medico ci legge: “O forse che io dovevo essere chiuso prigione di via Montalcini”. Inoltre, secondo lui Moro avrebbe dato un segnale per indicare le frasi contenenti informazioni importanti, cominciandole con il pronome personale “Io”.

Ora. Una persona dotata di malanimo che non avesse letto il libro e che volesse per forza di cose cercare il pelo nell’uovo, potrebbe obiettare che circa il novantatre per cento delle frasi nelle lettere di Moro comincia o ha in iniziale il pronome personale “Io”, pover’uomo, vista la condizione in cui si trovava. Tale persona, se esistesse, potrebbe inoltre obiettare che si stia dando per scontato che Moro conoscesse l’indirizzo della propria prigione, assunzione tutta da dimostrare e, data la dinamica del rapimento, del tutto improbabile. Inoltre, sempre quella brutta persona spinta certamente dall’invidia potrebbe sostenere che qualsiasi frase sufficientemente lunga se anagrammata potrebbe contenere qualsiasi significato, specie se stirato alle proprie esigenze (“p.o uno”, “n.o otto”) e piegata la grammatica dove serve (“essere chiuso prigione”) mentre altrove fila perfettamente ricca di preposizioni. Ma sarebbero cattiverie, forse dettate dall’invidia.

Io, che nulla ho a che spartire con quella persona malanimosa, vorrei ricordare quell’episodio in cui uno scienziato, dico Carl Sagan ma non ne ricordo il nome, potrebbe, uscì con un metro e cominciò a prendere le misure dell’edicola sotto casa, riuscendo a trovare innumerevoli sezioni auree, relazioni proporzionali identiche a quelle delle stelle di Orione, ripetizioni misteriose e numeri infiniti, volendo dimostrare che i misteri delle piramidi di Giza si possono trovare, volendo, ovunque, se dotati di sufficiente pazienza. Sto insinuando che anche in qualunque frase abbastanza lunga si possa trovare il messaggio che si cerca? Io? Ma per nulla, non mi permetterei.

Mi limito a citare, dall’articolo di Repubblica, che un po’ sta sul dubitativo, “Il gioco di Carlo Gaudio”, “La teoria di Carlo Gaudio in un libro”, poi si spinge un po’ in là, “A risolvere il puzzle provvede adesso un libro”, e poi sbraca alla grandissima: “Eppure nessuno seppe – o volle – decrittare le sue lettere”. Eddai, ecco servito il retroscena col complotto, che alla fine è la storia del sequestro Moro da sempre. Che poi Moro fu rapito da Moretti su incarico di Cossiga e tenuto al ghetto, lo sanno tutti.

il Po di Segre

A un certo punto, alcuni mesi fa, mi son detto che era ora di andare a capire un po’ di più questa cosa del delta del Po, metterci dentro il naso, i piedi e se possibile la testa, anche. Di conseguenza, anche vedere di persona i luoghi dell’alluvione del Polesine, eran settant’anni a novembre, vedere per capire, dare un luogo e un contesto alle uovone di pasqua viste nei bar per anni che facevano sottoscrizione per gli alluvionati, appunto. Chissà dov’era, ’sto Polesine…
Per lo stesso motivo sono andato qualche sera fa a vedere Po di Andrea Segre.

È un documentario, come si intuisce fin dalla locandina, sull’alluvione del Polesine del ’51. Tra filmati Luce e filmati, se ho ben capito, della famiglia stessa del regista, si succedono i racconti di alcuni testimoni diretti della tragedia, oggi tutti attorno agli ottant’anni e allora ragazzini. I racconti sono per forza di cose per buona parte poco articolati, nel senso che sono ricordi di piccolini, immagini, racconti saputi dopo, vicende chiare ma frammentarie, il regista è bravissimo a farli scorrere con naturalezza, senza intervenire o interrompere o tagliare. Per dare un’idea della miseria scannata al tempo, uno di loro, estroso e leggero nonostante gli argomenti, racconta di quando il padrone delle terre attorno, un veterinario, uccise un vitello ammalato di difterite, orrenda malattia trasmissibile all’uomo, gli tagliò la testa e la fece gettare nel letamaio. La madre di chi racconta, poiché mancavano pochi giorni a pasqua, andò a riprendere la testa, la pulì, la gettò in un pentolone ed ecco il pranzo della festa. Ciascuno faccia i propri conti.
Ecco, a voler dire proprio qualcosa, l’intento è archivistico, raccoglie giustamente delle voci che spariranno, e il regista si eclissa dietro alla sequenza di racconti, senza imprimere una direzione al documentario o voler portare il ragionamento da qualche parte specifica. Il che è certamente un bene dal punto di vista della memoria, dall’altro Segre ha ormai le spalle larghe e potrebbe, forse, aggiungere del proprio con vantaggio di tutti. Belle le immagini e la fotografia, per noi innamorati del Po – siamo molti e sparsi, quando ci incontriamo ci riconosciamo – è un documentario da vedere.

Un racconto di un superstite che mi ha commosso, lo riporto a memoria. Dice: nel mio giardino, ora, ho una vasca; qualche tempo fa ci è cascato dentro un uccellino, affogando. Da allora, continua, lascio sempre un pezzettino di legno galleggiare, così che ci si possa aggrappare. Perché se i miei avessero avuto un pezzo di legno cui aggrapparsi, allora, sarebbero scampati.

finalmente, di nuovo la festa più bella

Dopo due anni, finalmente di nuovo in corteo. Non eravamo andati via ma non ci siamo visti, non si poteva. Oggi sì, la Liberazione, e io non vedevo l’ora. Buon 25 aprile a tutti, a chi sarà in piazza e chi a casa, anche a chi pensa che sia un giorno di vacanza e basta. Alla fine, son stati liberati pure quelli.

[Aggiornamento post: manifestazione un po’ spentina, nonostante i due anni di pausa. Il pensiero della guerra aleggia ovunque ed è occasione, in diversi punti del corteo, di discussioni anche aspre. Intervento sì, con armi, no, pacifismo. A un certo punto una contestazione tra brigata ebraica, gruppo con bandiere NATO, gruppo con bandiere americane, qualcuno di Rinfondazione, prende una pieghetta urlazzata, gli animi son tesi. Poi arriva il PD e mette tutti d’accordo, come sempre: insulti a Letta].

la musica delle stagioni, inverno 2021

Stavolta sono andato lungo, le cavallette la tintoria, le solite balle, rimedio subito. È finito l’inverno da un mese e io non ho ancora postato la mia pleilista della stagione, nonostante le pressantissime richieste, non dico la pressione cui sono sottoposto. No, non la dico. Comunque, nel trimestre sono uscite cose buone, sia di artisti noti che di esordienti, ne dò conto qua e là nei generi che mi piacciono, chiaro. Poi, come sempre, scappa dentro qualche classicone che è proprio un peccato lasciar fuori. The rover dei Led Zeppelin basterebbe a dirlo, ed è seconda. Col ritardo accumulato, son già a diciotto con quella della primavera, qui le stagioni volano.

Ed ecco il comodo riepilogo delle diciassette stagioni, tutte quante, altro che Sentieri:

Eccole, tutte: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore) | autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore) | primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) |

In totale più di novantasei ore, la durata esatta che servirebbe per andare da piazza San Pietro a Capo Nord e ritorno in auto, traffico norvegese permettendo. Non è comodo? E le belle copertine? Eccole.

Solite regole e princìpi, un nome solo a pleilista, un brano solo cadacranio, niente laiv. Ma i princìpi stan lì proprio per esser trasgrediti, o no? Oh, se qualcuno – il signore lo voglia! – si diverte, me lo dica. Non mi offendo.

e qui si dice loro: bravi

O del saper gestire gli errori, senza mettere il proprio orgoglio davanti a tutto.
Ecco il fatto. Ediciclo pubblica Dell’andare in montagna e altre amabili ascensioni, una Antologia per escursionisti e sognatori, curata da Francesca Cosi e Alessandra Repossi e illustrata da Giulia Neri. L’idea non è nuova ma ciò non significa nulla, le due curatrici hanno raccolto e tradotto testi di Dumas, Hugo, Kipling, Salgari, London, Twain e così via pertinenti con l’argomento, tutto bene. Poi, a stampa avvenuta, ci si è accorti che c’è un testo di troppo, di una precedente antologia, rimasto nel volume. Vuoi perché serviva a occupare lo spazio, vuoi perché chissà, è accaduto. E posso dire per esperienza diretta che non è nemmeno così difficile che accada, questo e altre mirabolanti sviste.
La domanda ulteriore è: possibile che nessuno se ne sia accorto? Risposta: possibile. Panico, lo immagino. Peraltro un conto è una casa editrice robustosa, che regge l’urto delle temperie, ma una più piccola come questa che deve costruirsi e difendere una reputazione, oltre a contenere i costi, deve fare una scelta complicata. E Ediciclo opta per non buttare una tonnellata di carta e di esplicitare la cappellata: un bel bollone sulla copertina, eccolo. Ops!

Inutile cincischiare sui dettagli, bravi. Così si fa. Costo del bollone: risibile, sia in termini economici che di orgoglio; risultato: di grande impatto, sia per l’operazione buon-senso e simpatia, sia per la pubblicità indiretta cui sono lieto di contribuire, nel mio minimo. E lo compro, pure, mi servirà alla prossima svista. Mia.

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, tre: Pio, Pico, gli zoccoli, due amici che se la ridono, un campo che dovrebbe essere memoria

Scavallo ancora una volta la linea concreta di confine tra Reggio e Modena e vado a Carpi. Voglio vederla per svariati motivi, uno è la magnifica piazza quattrocentesca: lunga e stretta, da un lato è chiusa da portici affrescati, cinquantadue arcate, su un lato corto dalla chiesa di San Niccolò e sull’altro lato lungo dal castello, poi palazzo della signoria. Sebbene meno coerente e perfetta, il richiamo è alla piazza ducale di Vigevano, portici-chiesa-castello, stesso schema. Il palazzo, con ancora qualche torrione qua e là, ampiamente ingentilito nel cinquecento alla moda ferrarese, ospitò la signoria dei Pio. Possediamo tre lettere tra Guicciardini, governatore di Modena, e Machiavelli, incaricato di un’ambasciata a Carpi: quest’ultimo riteneva l’incarico non alla sua altezza e ne fece un viaggio di svago, approfittando dell’occasione per irridere con l’amico i Pio e il loro governo. “Repubblica de’ zoccoli”, la chiama, e Olmi non è mica tanto lontano. Niente di tutto ciò.

Nipote di Pico della Mirandola, stesse zone, Alberto III Pio, il più importante esponente della famiglia, crebbe a Mantova sotto l’influsso di Vittorino da Feltre ed ebbe come istitutore, fermi tutti, Aldo Manuzio. Il che a me, devoto Hypnerotomachista, basta eccome. Nella cappella del palazzo c’è un affresco che ritrae Alberto, capelli lunghi biondi e profilo da signore, e Aldo subito dietro, il maestro. Finito il suo compito, Manuzio nel 1490 si spostò a Venezia, iniziando la sua avventura nell’editoria, sostenuta economicamente da Alberto Pio. Non andò male, si sa, quindici edizioni filosofiche del grande stampatore sono dedicate al suo allievo. Nel frattempo, Carpi divenne una vera e propria corte, seppur stretta tra i più grossi Gonzaga ed Este, intrattenendo rapporti con Roma, importando architetti e pittori valenti. Lo stesso Alberto ne era ambasciatore, matrimonio bene con una Orsini, intrattenne poi una vivace polemica con Erasmo da Rotterdam, pretestuosetta invero, l’altro era fuori portata, ma che la dice lunga sul posto che si era conquistato sulla scena europea. Nel 1525 scelse il cavallo sbagliato, Francesco I, e dopo la battaglia di Pavia perse la signoria, in favore degli Este. Era meglio Carlo V, ma certe cose si sanno solo poi. Esule, se ne andò a Parigi ove morì, il suo sarcofago è al Louvre. Agli Este, poi, Carpi interessò poco e bon, abbastanza chiusa lì.

Era opportuno raccontare qualcosa, chi sa nulla di Carpi e, tanto meno, dei Pio? Chiaro. Ehm, forse c’è sempre qualche ragione buona per non saperlo, non per me quando girovago. In vista della pasquetta rituale, vado a comprare un salame, sono nel posto giusto. Mantovano o modenese, mi chiede? Modenese, azzardo per prossimità, ma non sono sicuro. Bravo, dice, io chiedo perché non si sa mai chi viene ma insomma. Eh, c’è in giro certa gente che non sai, dico io con l’aria di uno che sa quel che dice. Due, dico, ne prendo due. Mi fa poi una serie di domande cui rispondo a caso, dalla cotica spessa al luogo di stagionatura, e una breve lezione sul taglio e l’assunzione. Riporto un trucco ricevuto: se troppo stagionato, scottex attorno e sotto il lavandino, si aspettano cinque minuti e vualà. D’altronde son professionisti, qui. Quando servono la carne di manzo al ristorante, la bavetta per dire, ci aggiungono della pancetta saltata, perché il manzo credo lo ritengano verdura. Li vuoi due ciccioli per far merenda?, mi chiede alla fine. Certo che li voglio, per chi mi hai preso?

Avrei anche la fine appropriata per questo minidiario, usando un’espressione che qui ho visto spesso e che evidentemente considerano un’esortazione sensata: Carpi diem. Sì. Orazio ha avuto in fremito, lo so. Potevo chiudere, dicevo, ma ne ho ancora un pezzetto, più serio. Non prima però di aver ricordato il ruolo di Carpi, anzi di due carpigiani, nel Risorgimento: l’eroe sempiterno Ciro Menotti, di più, condannato alla morte infame sulla forca per i moti del 1830-31, e l’ancor più eroe Garibaldi chiamò il suo primogenito Menotti, voglio dire; il generale Manfredo Fanti, meno, fu però uno dei mille e per questo vale la pena ricordarlo.
Il motivo vero vero per cui sono venuto a Carpi, oltre alla piazza, è Fossoli. Fossoli è una località appena fuori Carpi, pochi minuti, in cui i tedeschi nel 1941 stabilirono un campo di prigionia per prigionieri anglosassoni. In breve tempo divenne però un campo di concentramento per i prigionieri, ebrei, politici, razziali, omosessuali, deviati, da deportare in Germania o Polonia. Chiamarlo ‘campo di smistamento’ è pigrizia di pensiero e falsità dei fatti, quando non in malafede, esso fu fino alla fine della guerra un vero e proprio campo di concentramento, peraltro anche di dimensioni ragguardevoli. Primo Levi passò di qui prima di essere deportato ad Auschwitz e ne parlò più volte, molti altri ebbero la stessa sorte. Molti furono uccisi nel campo o in prossimità, ancor prima di partire. Non fu un campo di sterminio, no, ma son distinzioni da lasciare agli storici e guardare il punto. La ragione del campo era la possibilità di andare dritti dritti al Brennero ed è un punto intermedio tra pianura padana e Italia centrale. Anche gli ebrei del ghetto di Roma e molti milanesi, Mino Steiner, Olivelli, Fiano, per dirne tre, furono condotti qui. Data l’importanza del luogo ho delle aspettative ma so già cosa mi aspetta: il campo non solo è chiuso ma è anche, in sostanza, in rovina. Poche baracche sono rimaste in piedi, di altre si vede solo la collocazione, molte sono coperte da edera e piante, molti muri sono crollati, nessun apparato didattico. Certo, il campo ha subito molte trasformazioni, subito dopo la guerra è stato campo di prigionia per i fascisti, poi vi fu l’esperimento sociale di Nomadelfia, poi vi furono portati i profughi giuliano-dalmati fino al 1970, poi il terremoto del 2012 e, insomma, siamo arrivati a questo punto.

Fa bella mostra di sé un cartello di quelli dei lavori appaltati che parla di «valorizzazione», tanto cara a Franceschini e tanto odiata da Montanari e, in rispettosa posizione arretrata, me. La data di inizio lavori è 2021, la conclusione 2023, con evidenza non è stato fatto nulla. Non ci sono nemmeno i materiali. Il cartello, beffardamente, a fianco ha un’immagine sgranatissima dell’Apollo e Dafne di Bernini a villa Borghese, nemmeno il senso del ridicolo al Ministero o un po’ di pudore nell’assimilare un campo di concentramento alla valorizzazione, maledetti, delle opere e dei luoghi d’arte. Non c’è nessuno, un camper oltre a me ma non sono qui per il campo, secondo me manco lo sanno, compilano il fantacalcio.

Eppure possibilità ce ne sarebbero. A Carpi, nel palazzo dei Pio, ha sede il museo del deportato. Ideato e disegnato da BBPR, in particolare da Barbiano di Belgiojoso, che fu deportato a Mauthausen, con materiali donati in parte da Albe Steiner, è un piccolo museo ma ben pensato, un’ampia sala è riempita dal pavimento alle volte dei nomi dei deportati, dà un’idea per quanto vaga delle proporzioni, i muri sono dipinti con frasi dei condannati a morte della Resistenza europea, un libro che bisognerebbe leggere spesso. Il senso, didattico ed educativo, e parlo anche e soprattutto di adulti, sarebbe unire il museo al campo, creare un filo logico comprensibile per chi visita Carpi. Così non è, c’è solo il museo, siamo dentro in tre, ne manca un pezzo.

Giro per le sale, non c’è molto da vedere, è ovvio, ci sono parole da leggere. «Come avrei voluto vivere», dice nella sua ultima lettera un ragazzo di ventidue anni, e mi commuovo, un altro chiede con delicatezza «Alla mia tomba portate, quando potete, fiori rossi. Null’altro», ma subito dopo, e qui davvero mi vengono i lacrimoni e un senso di ingiustizia incolmabile, dice: «E battete con ogni mezzo la barbarie», e io, pensando all’Ucraina, mi sento chiamato in causa e mi dico che bisogna fare di più.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, due: piastrelle, tiles, ariano che dorme, quanta gente nel piccolo posto, un ricordo personale

Per passare di palazzo ducale in palazzo ducale, scavallo da Reggio a Modena e vado a Sassuolo. L’aumento vertiginoso di rotonde e di camion mi dice che sono finito in un distretto industriale esteso, che va da quelle che i tromboni chiamano le eccellenze italiane nel mondo per vendere agli sceicchi, Maranello, la Ferrari, la pista di Fiorano, al distretto della piastrella, che da qui si irradia nelle cucine e nei bagni di tutta la galassia. Anche a casa mia, e vostra, vengono da qui, sicuro. Ma piastrella di ceramica, prodotto fino, mica quelle piastrellacce che fanno altrove. Fin dalla metà del Settecento qui ci si lavora, fino a sviluppare l’impasto migliore che si sia mai visto, duraturo, compatto, puro. Marca Corona esiste ancora, dal 1741 e i duchi avevano una collezioncina di porcellane niente male. E oggi ho imparato che ceramica e porcellana si distinguono per impasto e cottura, per poi fare cose diverse. Ma son parenti strette. Per strada scrivono I love tiles, col cuoricino.

Siccome poi bisogna pur attaccarle, ’ste piastrelle, è anche il distretto della colla e del cemento specifico, ossia Mapei e Kerakoll, colossi del settore. La Kerakoll, che si deve essere sottoposta a un green washing mica da poco, è uno smambrone tutto bianco con enormi piantine disegnate e scritte bio alte sei piani. Davanti, ha una specie di teiera tecnologica enorme che viene spacciata come il laboratorio eco-bio che sforna ogni giorno prodotti sempre più compatibili. Va da sé che di soldi ne girano, tanti, Sassuolo è ricca e la squadra in serie A lo dimostra, oltre a essere una potenza nel ciclismo. Al momento, l’interruzione dei rifornimenti di argilla dall’Ucraina crea dei problemi, mi dicono che è tutto un po’ più fermo. Le navi di argilla, cioè che la portano non che son fatte di, non partono più dal porto di Mariupol. E adesso man mano salta fuori che le connessioni industriali con l’Ucraina sono molteplici, numerose e insospettate. Forse sarebbe valsa la pena provare a proteggere un po’ di più le nostre fonti di approvvigionamento, prima. O no? Intanto l’argilla viene dalla Turchia, mi dice uno attento a queste cose, buoni quelli…

Le colline attorno sono formidabili, verdi e dolci, si intravede un po’ di neve in fondo, a sud, dove salgono. Le acque termali sono note da sempre, la piana in cui sta Sassuolo chiama l’insediamento, il Secchia la attraversa placido. Tassoni, sì, ma era un’altra secchia. A scegliersi l’angolo giusto, oscurando i capannoni, la vista è strepitosa. Se si guarda tutto per bene, invece, pare Minsk, per stare nel settore, o certi distretti del mobile o dell’acciaio lombardo-veneto, i furgoni bianchi corrono liberi anche qui con afflato del tutto lombardo. Posso ben capire, comunque, andando indietro sei secoli, come gli Este, accaldati dall’estate modenese e bisognosi di un parco di caccia come si deve, abbiano riattato un castellotto a palazzo ducale estivo, con tanto di peschiera colossale per spettacoli acquatici. Le connessioni dei duchi d’Este con le arti furono sempre molteplici, a onor loro, per cui ci sono alcuni zampini indiretti di artisti valorosi, Bernini e Velazquez per volare alti. Poi il tutto passò ai Pio di Carpi, poi di nuovo agli Este per esser poi spazzati via dall’onda napoleonica, non sarò mai grato abbastanza. Già ci son rimasti quattro Savoia sul gobbo e son più che abbastanza.

Vado a Formigine, c’è un castellotto difensivo, grosso, rara zona priva di capannoni per piastrelle per vecchie ragioni fiscali. Davanti al castello contemplo con un coadiuvante, ho di fianco uno che sembra mezzo Gino Paoli, nel senso che è bassetto e un po’ più giovane. Sì chiama Ariano. Sì, Ariano. Ma mica c’entra con quella questione idiota della razza presunta, macché, qui è la variante di Ario, più veneto, per il discorso sull’onomastica di ieri. Che se poi anche fosse, stamo messi malino ad ariani, guardandolo. Poi si addormenta, reclina la testa di quasi cento gradi, russa e bon, proprio niente razza. Buona Pasqua, Ariano, se la lingua non ti si incastra nel naso da dentro.

Devio per Correggio, la vorrei rivedere. Negli anni Novanta la festa dell’Unità che lì si faceva – e il paese con rispetto parlando, è uno sputazzo – era un vero punto di riferimento musicale di tutto il nord Italia. Dico: Dylan, sì proprio quello, Neil Young, Lou Reed, Patti Smith, un sacco di altri. Noi ci venimmo per Sinéad O’Connor, allora al suo massimo, bellissima e selvaggia, 5 luglio 1997. Arrivammo ore prima e Correggio si vede in venti minuti, passammo di panchina in bar in panchina all’infinito e in una calda serata estiva padana vedemmo un concerto meraviglioso. Finito, lei uscì con la chitarra, evidentemente aveva ancora voglia e noi pure, si sedette sul bordo del palco e ne fece un altro, di concerto. Per una trentina di fortunati che restarono lì, compresi noi. Facemmo anche due chiacchiere, dopo la seconda fine. Memorabile. Correggio è un posto strano, ha una concentrazione di artisti inspiegabile, viste le dimensioni. Posti analoghi non ne hanno per nulla, sarà l’acqua, l’aria, la combinazione di queste con il maiale e il lambrusco. Cito Pier Vittorio Tondelli, l’Allegri detto il Correggio pittore valentissimo, Luciano Ligabue, Niccolò da Correggio, condottiero e letterato, Dorando Pietri e quell’arrivo disgraziato alla maratona. Per dire. Certo, anche la Cianciulli, la saponificatrice. I bei portici, il palazzo dei principi da Correggio, una certa quiete, un cimitero ebraico fiorito, insomma il posto è gradevole e di riflesso anche le persone mi pare lo siano più che altrove. Il cartolaio mi dice benvenuto appena entrato e sorride, mai successo dalle mie parti, sono ancora scosso.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, uno: linee tirate dritte, dài Reagan, inni nazionali, ariosti per l’arrosto, induriti dalla fabbrica

Mi chiamano per una formazione. D’accordo, anzi urrà. A Reggio, non quella, questa, come dicono fiscali: Reggio nell’Emilia. In. Ancor prima di arrivare so per certo alcune cose, pur non essendoci mai stato: la via Emilia a far da bisettrice alla città, tirata dritta col filo come piaceva ai certi chiamati Romanes, e non ripeterò certi paragoni, sensati peraltro, con le vione americane coi numeri (e fuori c’era il uèst); i portici e il palazzo ducale, di quel ducatino di Modena e Reggio degli Este, ripiego modesto da Ferrara, ormai perduta al papato; il cibo, la buona vita e certe calatravate imbarazzanti tra stazione di interscambio, treni mediopadani, e ponte autostradale, auto.

Vien sempre seconda, Reggio, stritolata tra i grossi calibri. Il ducato di Modena e Reggio, quella cosa che ancor si irritano del parmigiano reggiano, e che a sentir loro dovrebbe essere il reggiano e basta, tutt’al più, va’, il reggiano parmavaacagare. Se, poi, si vuol mangiare da porcelli i porcelli si va a Parma e Modena, con in più l’aceto, per la musica ancora Parma, Bologna non ne parliamo nemmeno, fuori scala, pure Piacenza per turisti è più frequentata, qui si fan fatica a trovare le calamite, pure. A volte un po’ di notorietà riflessa, basta una targona per ricordare il compositore polacco che nelle sale vicino al comune compose l’inno nazionale polacco, proprio qui. Se poi si dice che l’inno nazionale italiano, nelle strofe che nessuno sa, è l’unico inno al mondo a citare la Polonia, allora il cerchio si chiude. I rapporti coi vicini cordiali, come sempre, ancora ci si ricorda dello striscione allo stadio: “Reagan bombardaci Parma”, con il complemento maramaldo.

Vengono in mente altre cose, almeno a me, le Officine meccaniche reggiane, immense e oggi spazio degradato senza scopo, i morti di Reggio Emilia, quelli fucilati nelle officine per mano fascista e quelli del 1960 per ordine di Tambroni. Fascista, ancora. C’è la canzone di Amodei, per me la più bella delle canzoni di protesta, Compagni sia ben chiaro / che questo sangue amaro / versato a Reggio Emilia / è sangue di noi tutti e oggi in quella che era piazza Cavour c’è un memoriale per i cinque operai nel luogo in cui furono ammazzati dalla polizia. Furono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto, santoddio, e 39 di pistola sulla manifestazione antifascista, forse a guardare attentamente qualche traccia si scorge ancora. Ci mancava Bixio coi cannoni. Sto seduto un po’ a guardare la piazza e provo a immaginare. Perché Reggio era la città degli operai, della consapevolezza politica più radicata, prima della guerra si producevano armi, tante, aerei e carri, poi locomotive, gru enormi da porto, quelle da migliaia di tonnellate. Operai di fabbriche pesanti. A Reggio le lotte più dure, la medaglia d’oro della Resistenza, la più lunga occupazione di fabbrica mai vista, gli scontri e i morti, le brigate rosse di Franceschini nacquero a Reggio, non a caso, i CCCP pure, il senso dell’eredità partigiana tradita, niente o poche mollezze. Sempre non a caso, a Cavriago, pochi chilometri, grande centro della Resistenza, c’è la piazza col busto di Lenin, donato dall’URSS a ringraziamento. Ci andammo apposta con i compagni di merende a zonzo all’università. Finché c’è, il busto, poi lo sostituiranno con quello di Orietta Berti, quando sarà. E i fratelli Cervi poco più su, a Campegine, fucilati al poligono di tiro a Reggio. Quindi no, prima nella lotta.

Aggiungo alla camminata cittadina un pezzo di percorso e vado a vedere la casa di Ariosto, il Mauriziano. «Già mi fur dolci inviti a empir le carte li luoghi ameni di che il nostro Reggio, il natio nido mio, n’ha la sua parte», e tanto ameno è ancora, almeno per un paio di metri attorno alla casa, bellissima e chiusa senza speranza, i cartelloni che preannunciano sontuoso restauro stanno invecchiando essi stessi. Meno ameno, forse, il centro commerciale Ariosto, che mi preannuncia l’arrivo. Però c’è il brico, di cavalieri e d’arme nessuna traccia. Già, perché Ariosto è nato qui, e Boiardo a un tiro di schioppo, c’è la rocca a Scandiano e presumibilmente un palazzotto qui in città, va a finire che delle tre corone estensi nessuna era di Ferrara, nemmeno per caso. Allungo ancora e vado attorno al poligono di tiro, non so con quale obbiettivo, visto che non mi faranno certo entrare. Non importa, è un omaggio, una specie, un piccolo pellegrinaggio dedicato alla memoria dei fratelli Cervi, al loro coraggio, alla loro spaghettata antifascista. Fa caldo anche se è quasi il tramonto, riconosco l’entrata, è rimasta uguale ad allora, quelle poche foto rimaste. Fortuna che son partito presto e che la formazione l’ho fatta durare poco.

Un’ultima cosa, prima di andare: un tributo dovuto all’onomastica locale. I nomi nel reggiano hanno tutta una vita propria, così concentrata che nessun altra provincia emiliana ne condivide la consistenza, e così variegata da costituire un universo staccato e divergente. Gli Offlaga disco pax, gran gruppo sempre tra i miei, ne fecero persino una canzone, facendo elenco musicale di nomi presi dalla guida del telefono, recitati alla maniera di Collini. Eccoli, dunque: Aderito, Athos, Babel, Boiler, Demos, Etno, Eles, Enver, Engels, Engel, Enos, Ero, Eves, Eides, Firmato, Frea, Glennis, Ibanez, Iaures, Idea, Idillio, Idolo, Iller, Illo, Iuna, Iames, Iones, Katiuscia, Lena, Liuska, Lidoska, Lista, Mauder, Malfa, Miroslav, Neda, Nemma, Nullo, Nuova, Nives, Olmes, Oriente, Orio, Seno, River, Tita, Tundra, Uber, Urano, Wilmo, Wolner, Wilmer, Wagner, Wainer, Yunissei, Yenissei. In bell’ordine, su tutti Idillio e Tundra. Perché un nome è tutto quel che davi.


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