Esco più presto del presto in cui parte il treno perché voglio camminare un po’ sui canali. Sul Liverpool Canal, un’oretta, dove arrivo. Giusto per arrivare un po’ voncino all’incontro, come si confà a me. E subito incappo nel capitalismo ottocentesco dal volto umano: la ciminiera della fabbrica è copia mattonata della torre dei Lamberti a Verona e la torre per lo smaltimento della polvere di ferro, Giotto ne sarà estasiato, del campanile della cattedrale di Santa Maria del Fiore.

Beh, io che non riesco ad avere in mente altro che l’immagine dickensiana dei bambini ricoperti di fuliggine che tirano carretti per strade fangose sorrido e sono incerto: sarà stata una buffonata del padrone per coprire le sconcezze o un cenno primordiale di responsabilità sociale del padrone verso l’ambiente di lavoro degli operai, in stile-Crespi? Difficile dirlo per me che cammino cercando di non cascare nel canale. Si sta benissimo, l’aria è frizzante, un po’ di gente che corre, perlopiù donne sole, buon segno che significa sicurezza. Al ciglio del canale numeros house boats che mi suggeriscono fantasie di vita canalesca, contenuta in dieci metri quadri, ordinata e libera. Dura poco, due su tre sono al limite del monnezzaio, serve parecchia disciplina. E io sono poco poco sicuro di me, in questo.

Le centoventisette miglia del canale sono duecento chilometri che si potrebbero percorrere in una decina di giorni. Bisogna studiare se sia tutto camminabile, non ci scommetterei fuori dalle città. A Bath sui canali avevo fatto una camminata memorabile, di quelle cui ripensandoci ho ancora un tuffo al cuore che mi suggerisce il ricordo di un momento di beatitudine. Anche ora è bello, non è felicità, è più un grado apprezzabile di spensieratezza, secondo quanto riesca a tenere a bada la testa. Il tempo speso camminando è in assoluto il più denso e pieno che io abbia sperimentato, scorre forse non più lento dell’altro tempo ma è sicuramente più vissuto, intenso, ogni momento è lì, concentrato, senza distrazioni.
E non sono nemmeno le otto. Devo prendere un treno, alle dieci devo essere a Nottingham. Io non ci volevo venire a Nottingham, volevo andare da altre parti più interessanti di Nottingham. E poi mi dà fastidio tutta la sbrodolata su Robin Hood a Nottingham, buona appunto per Disney e i contadini della Lucania vessati dai latifondisti. Ed è nostro dovere mettere all’angolo racconti così reazionari. Anzi, se non fossi così impegnato in altro, scriverei un polemico e vivace pamphlet dal titolo: “Robin Hood: una prospettiva socialista sull’essere funzionali al potere e in definitiva legittimarlo” e allora sì che scriverei pagine e pagine di denuncia su come l’eroe brigante che ruba al potente non solo non incrini la struttura sociale ma anzi rafforzi e convalidi il sistema, elemosinando qualche briciola al popolo e tenendolo buono e asservito. Il vero eroe popolare è quello che conduce il popolo alla rivolta e lo accompagna alla conquista di diritti e lavoro. Garibaldi, altro che l’orso, il serpente e lo sceriffo cattivo, il brigante Giuliano lavora solo per sé e la propria leggenda, anzi è connivente con il potere mafioso e ne è parte. Ah, se avessi tempo.

A Nottingham come previsto non è che ci sia poi molto. A parte quello sciocco castello dello sceriffo, che poi altro non è che un palazzone inglese del Settecento costruito sulle fondamenta del castello, di cui ha conservato le mura e i bastioni. Quel che a Nottingham è veramente rilevante è questo signore qui sopra, che alla fine degli anni Settanta con una squadra di parvenu vinse non una ma due coppe dei campioni consecutive. In pratica fece al cubo, alla quarta quel che Ranieri fece a Leicester, un tiro di pietra da qui, qualche anno fa. Che poi, giova ricordarlo, Ranieri lo esonerarono dopo poche partite la stagione successiva per scarsi risultati, mentre l’attimo prima era il mago e l’imperatore. Sic transit. Come Churchill alle prime elezioni dopo la guerra, trombato sonoramente. Sic. Clough, dicevo, portò il Nottingham forest a vincere due coppe consecutive, cose da squadroni e così oggi ha la sua bella statua in centro centro. Cinque secondi che la guardo e mi avvicina un reduce, con indosso un giubbotto della RAF. Secondo me, da quel che capisco, è un reduce di quelle stagioni sugli spalti più che di volo, non è che si capisca proprio molto. Anche se, comunque, il livello onorevole non è minore dell’aver vinto una guerra. Sulle calamite da frigo della città c’è Robin Hood, ovvio, e Clough. Sue di più.
Anche Nottingham ha la propria rete di canali e di magazzini connessi, fino a pochi anni fa gestiti dalla British Waterways e ora da un ente che non ricordo. Il trasporto delle merci su barche per tutto il centro-nord della Gran Bretagna entrò poi in crisi per lo sviluppo della ferrovia, più veloce e agevole da costruire e far arrivare dove serve. I magazzini recuperati a uffici, appartamenti e locali sono piacevoli e le camminate lungo le vie d’acqua altrettanto, non me la perdo anche qui, zonzolando.

Ma che si fa stasera in città? Come dite? Badly drawn boy al Rock city? Accorro, perdio. Pranzocena alle cinque – dovrò parlare poi di questa innovazione nutrizionale che porterà giovamento alla salute del mondo e mi renderà famoso come nutrizionista in ogni dove – per apertura porte alle sei e mezza. Vado dritto, voi che c’eravate al Bronson di Ravenna duemila anni fa per vedere BDB sapete di che parlo. E poi qui, nelle sue zone, magnifico. Si dice che di tutti i telefoni rubati nello Yorkshire il dieci per cento venga sottratto al Rock city di Nottingham. Se ciò è vero lo sapremo a breve, se domani non pubblicassi nulla vorrà dire che non è una leggenda.
