lo stadio di tutti gli Ateniesi

Lo stadio Panathinaiko, stádion Panathēnaikón, “stadio di tutti gli Ateniesi”, fu costruito nel sesto secolo prima di Cristo, ampliato e ricoperto di marmo del monte Pentelico da Licurgo nel 329 a.c. e ampliato da Erode Attico nel 140 d.c. fino a raggiungere cinquantamila posti. Fu lo stadio degli antichissimi Giochi panatenaici e poi dello sport ateniese.
Come molte cose, venne poi abbandonato e dimenticato.

Venne riscoperto e scavato nel 1875 per le olimpiadi di Zappas, protolimpiadi moderne, e poi riammodernato di nuovo nel 1895 per le prime olimpiadi moderne.

Oggi può contenere ottantamila persone ed è stato utilizzato ovviamente per le olimpiadi del 2004, è il punto di arrivo della maratona di Atene e in occasione di ogni olimpiade è da lì che parte il tedoforo.

Beh, come minimo duemilaseicento anni di storia per lo stadio di tutti gli Ateniesi, trovo la cosa piuttosto emozionante. Ci farei volentieri un giro di pista, come a Olimpia.

“il suono dell’acqua che scorre tra gli argini del mulino, ecc., salici, vecchie tavole marce, pali fangosi, e fabbriche di mattoni, io amo queste cose”

Old Sarum e Salisbury, raccontavo qualche giorno fa. In un impeto deccurtura, citavo Constable il giorno dopo a proposito delle vedute delle colline inglesi e dei panorami del Somerset, come pittore esemplare dei paesaggi che riconosciamo come tipici del paese. Ora è tempo di dare un minimo seguito a quanto detto, anche per verificare se propalassi menzogna e, magari, io imparare qualcosa.
L’Old Sarum, l’emozionante sito a collina nei pressi di Salisbury, stimolò non solo la mia immaginazione ma, ovvio, anche quella di molti. John Constable, come dicevo, lo dipinse più volte, la versione tra quelle che ho trovato che preferisco è questa.

Da essa, in collaborazione con lo stampatore David Lucas, il pittore ne trasse svariate serie di stampe:

Non ho scattato una fotografia paragonabile, accludo quella qui sotto. Quel che colpisce è che l’ambiente circostante sia intatto, nessuna fabbrica, capannone o condominio, esprimo sincera ammirazione per gli inglesi capaci di preservare il proprio territorio.

Ne ho un’altra paragonabile per inquadratura ed è vero, c’è una porta da calcio. Paesaggio rovinato.

Ovvio che non valga per tutto il paese ma non è raro incappare nella campagna inglese intoccata, chiunque ne ha fatto esperienza se ne ha avuto occasione. Un’altra veduta dell’Old Sarum e la campagna circostante è un bell’acquerello di William Turner – attenzione, da non confondere con l’altro ben più famoso, infatti questo lo chiamano ‘William Turner of Oxford’.

Il dipinto più famoso di Constable è senz’altro ‘La cattedrale di Salisbury vista dai terreni del vescovo’ (Salisbury Cathedral from the Bishop’s Grounds) del 1825, di cui ne esistono due versioni: una con il cielo terso, conservata al Metropolitan Museum of Art di New York, seconda versione, e una con il cielo nuvoloso.

La seconda, che in realtà fu la prima perché fu rifiutata dal vescovo proprio per il cielo non azzurro, è conservata al Victoria and Albert Museum di Londra.

Anche in questo caso, proprio perché il vescovo non mi ha fatto entrare nella sua tenuta e, quindi, dal lato giusto, non ho una fotografia equivalente, ne ho una della chiesa sghimbescia, perché è oggettivamente difficile farla stare in un’inquadratura.

Ancora, l’ambiente circostante è preservato e quasi meraviglioso, non so se di là ci siano ancora le mucche e come il vescovo si vesta ma, insomma, di qua non è cambiato.
Pochi anni prima, aveva dipinto un’altra veduta della cattedrale, ‘La cattedrale di Salisbury e la Leadenhall visti dal fiume Avon’, anch’essa in diverse versioni, eccone due:

Notevoli anche le variazioni di stile, non solo di punto di osservazione. Di questa seconda forse una fotografia presa da un punto non distante ce l’ho, scartabellandole. Si vede la Leadenhall, la cattedrale è orientata nello stesso modo. Anche in questo caso – si tratta di una città non di aperta campagna, Salisbury ha quarantamila abitanti – resto ancora stupefatto dal paesaggio preservato.

Giusto per provare a trasmettere un po’ dell’emozione e della riconoscenza provata camminando per quelle zone e incassare il compenso promesso dall’ente turismo.

minidiario scritto un po’ così di una scampagnata inglese: sette, amministrazioni, libere repubbliche e vento che riporta a casa

Comprendere l’amministrazione inglese soprattutto a livello locale è pressoché impossibile per uno del continente. Per esempio, e per restare a Bristol, dal 2012 ha un sindaco eletto direttamente dai cittadini (Mayor of Bristol), che non va confuso col “Signor sindaco” (Lord Mayor), che è il vecchio ufficio sindacale – nel senso di ‘del sindaco’ – nominato annualmente dal consiglio comunale che lui poi presiede. Non mi è chiara la distinzione. Ancor meno il fatto che la città faccia parte di una contea cerimoniale, cioè che non ha funzioni di governo locale ma è presieduta da un Lord luogotenente, ma è anche l’unica città inglese, e qui la cosa diventa davvero oscura, a far contea a sé, cioè a non avere ulteriori suddivisioni. Ecco, queste cose bisogna saperle per superare l’esame per la cittadinanza e non ho accennato alle unità di misura, i tre ottavi di un’oncia gallese. Nella mia beata ignoranza, mi beo appunto del riutilizzo delle cabine telefoniche nei modi più vari, condivido la mia piccola collezione raccolta in questi giorni.

Vincono le piante. La chiesona nel centro di Bath, proprio a fianco delle terme, non è una cathedral ma un’abbey, eppure non ha convento o monaci, va’ a sapere. Un tempo, magari. Impossibile affrontare anche il campo delle distinzioni amministrative ecclesiastiche. Comunque, ha di notevole che tutto l’interno è tappezzato di lapidi sepolcrali, non solo il pavimento ma anche tutti i muri. Sono all’inglese, nel senso che l’iscrizione è dettata da chi resta, marito moglie figli genitori, in onore del defunto, non è un’epigrafe impersonale. Per cui, ce ne sono alcune commoventi, come la moglie che parla del marito non solo come marito ‘ma migliore amico, perso chissà dove’. Credo, soprattutto quelli sui muri, siano cenotafi, non sepolture. Ed è molto bello che siano in chiesa e leggibili da chiunque, è una specie di raccolta di lettere d’amore in morte, oserei avvicinarle alle lettere dei condannati a morte per il fatto di esprimere un ultimo saluto riconoscente.

Non mi stupisce, dunque, incontrare qui Natalie Merchant, impegnata come me a leggerne e trascriverne alcune, una sua canzone ha proprio a che fare con questo, My beloved wife. Ne parlerà poi al concerto. Del concerto, ne segnalo alcune modalità interessanti, secondo me da importare: apertura porte presto, poi apertura bar interno, uno o due a seconda della sala, chiacchierine fino al momento, poi avviso e tutti dentro. A un certo punto, intervallo, chi vuole bagno bar chiacchiere. Poi ripresa. Da noi si usa per i concerti di classica e lirica, non sempre, e basta. Invece è il teatro sia che sia prosa o musica pop o lirica, sempre stato così, per quello abbiamo i foyer. Ma noi ormai i concerti rock e pop li facciamo nei palasport, con la morte dell’acustica. Che va benissimo per i Green Day, meno per Merchant, almeno d’inverno.

Siccome anche Bristol è a un lancio di sasso da Bath, vado. Anche perché ha l’interessante prerogativa di avere un aeroporto, cosa che potrebbe essermi utile a breve. Venti minuti di treno e vualà, Bristol. Che ha la caratteristica di essere una grande città portuale, molto vicina al canale che il sistema fluviale di Avon e Severn condivide con Cardiff. Fino a pochi anni fa c’era una linea stabile di transatlantici da Bristol a New York, mica è un caso che John Cabot, loro lo chiamano così, sia partito da qui nel 1497. Ma in contraddizione, forse, con la natura portuale e quindi rude è anche la città dei cartoncini di media rigidità ma di alta qualità, i cartoncini Bristol per l’appunto. E in ogni città frequentata d’Europa c’è o c’era un Hotel Bristol, ne ho visti di recente a Pesaro e Varsavia. E sempre in contraddizione, ma forse no se c’è relazione come suppongo tra porto e musica, è la città del trip hop, Massive Attack, Tricky, Portishead, questi ultimi quelli che preferisco. E di Banksy e della street art, i due ambiti sono strettamente connessi, da Del Naja in giù. Ne posto solo uno, molto noto, c’ero davanti poco fa prima di sedermi a scrivere in un pub al porto. L’orecchino è l’allarme.

Cose che a questo punto cominciano a mancarmi: bidè. Bidè. L’ho detto il bidè? Insalata, ma che sia solo quella: insalata, al massimo con altre verdure, senza alcuna salsa o condimento. Un po’ di frutta che non costi quindici barili di birra e faccia mediamente schifo. Mmm, che altro? Gli amici, un po’, certo, un po’, e un paio di parenti, direi. Ma tanto torno a brevissimo. Insalata. La mia motoscurreggia che l’avessi qui girerei come un matto, cercando di pigliare le rotonde dal lato giusto. Basta, mica tanto, in realtà. Insalata. Centonovantatre chilometri a piedi, ventotto salsicce, mezza birretta, alcuni musei, un paio di splendide camminate in collina, due concerti, le solite cose meteo, un solo bus a due piani, almeno due persone con cui qualche riga ce la scriveremo, una bella scorpacciata di stimoli, buoni fino alla prossima.

Me ne vado a spasso per la libera repubblica popolare di Stokes Croft, quartierino popolare bello e disastrato di Bristol, vittima sulla strada principale della solita gentrificazione ma che venti centimetri dentro resiste in qualche maniera. Certo, la creatività, spazi sociali, etichette discografiche, consultori, tutto subisce una frenata violenta in questi tempi violenti, tra Sunak, Truss e Johnson per restare al locale non va certo bene.

Un mural invita a boicottare Tesco in favore del local, certo, poi tutti vanno comunque lì perché costa meno, fosse ancbe per ubriacarsi mentre si cerca di dormire per strada. Lascio due caffè sospesi al Cafe Kino, in realtà due cose calde per chi le chieda, gesto piccolino con cui vorrei contribuire un poco e salutare i miei di nuovo amici inglesi. Certo son fatti un po’ così ma è il loro bello, ho ricevuto tanta gentilezza e sincera cordialità, anche qualche risata proprio ben fatta, qualche abbraccio e stretta di mano davvero calda. Meno su, Liverpool e Manchester, più giù, come è sempre. Poi, come sempre, l’unico sciacquone che non va in tutta l’isola è qui, perché cari compagni figuriamoci se siamo così borghesi da riparare un cesso. O da non romperlo, ancor di più.

Leggo or ora: ma proprio Cameron, maledizione? Non è possibile, ministro degli esteri dopo l’estromissione dell’altra. Non va certo bene no, da qualche parte è pieno di inglesi insopportabili, egoisti e deficienti, direi altrove rispetto a dove sono stato io, perché l’ipotesi che alcuni possano essere amabili e deficienti ed egoisti allo stesso tempo trascende decisamente la mia comprensione.

Vien su un ventone e per me è tempo di tornare, non prima però di aver visitato il Bristol Museum & Art Gallery, noto fin dal 2009 per quell’esposizione colossale di Banksy che, nemmeno pubblicizzata, portò a code di sette ore e più per giorni. Ma qui son maestri di coda, in effetti. Come molti altri musei inglesi l’edificio stesso merita la visita, i due cortili interni chiusi dominati da balconate offrono spazi sociali rilevanti, le poltrone e il bar invitano a stare, che cosa difficile per noi. Sto, come tanti, oltre a tutto è domenica e l’entrata è a offerta libera, civile. Anche le collezioni sono all’anglosassone, mescolate, con alcuni datati e buffi diorami su flora e fauna locale, modellini dell’Avon gorge, polverose riproduzioni plastificate di fauna africana ed esotica, che meraviglia.
Ci sarebbe ancora molto da raccontare o dire, chiudo qui. È stato un primo esperimento di reale lavoro itinerante ed è andato bene: qualche videochiamata dall’albergo, qualche giornata di lavoro in biblioteche o bar tranquilli, qualche sera in albergo, qua e là. Forse lavorando male di mio solito non s’è percepita differenza, meglio. Un preludio a qualcosa di più costante e strutturato, vedrò come va, al momento bene. Di sicuro la mia riconciliazione con quello sciocco, arguto, amabile, divertente popolo che sta là su è avvenuta, ci rivedremo presto perché ho ancora ampi spazi di esplorazione. Speriamo votino meglio le prossime volte.


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minidiario scritto un po’ così di una scampagnata inglese: sei, scampagnata per davvero oggi, credo di essermi di nuovo innamorato degli inglesi, luoghi vicini alla perfezione

Da Salisbury a Bath è un tiro di schioppo inglese verso nord, per cui vien da sé, vado. O come dicono loro, a un lancio di sasso, a stone’s throw away. Se c’è un posto che fin dal nome si capisce che fa, beh questo è Bath: è l’unica sorgente termale di Inghilterra, l’acqua sgorga a novantacinque gradi, fahrenheit direi visto che non mi sono scorticato a toccarla, anzi, ed è circondata da colline dalle quali scende invece una cospicua quantità di acqua fredda da ogni dove. In mezzo, l’Avon, fiumone importante e mille rivoli da ogni parte. Se solo così fosse, la città si chiamerebbe Waterqualcosa, con l’aggettivo a seguire, invece si chiama Bath perché certi chiamati romanes, appassionatissimi di acqua calda come si sa, vi costruirono delle terme. Che esistono ancora oggi, si possono visitare e l’acqua fuma ancora come allora. Un edificio vittoriano, rispettoso devo dire, ne ricostruisce le forme originali sopra quel che rimane ed è ben riuscito, ne accoglie le vasche e le piscine con le differenti funzioni, palestre, calidarium, frigidarium e così via. Il tetto della vasca principale non esiste più da millenni, ragion per cui le acque, che sgorgano trasparenti, diventano verdi al sole a causa di un’alga che, evidentemente, sta benone nell’acqua a trentacinque gradi. Chi non lo starebbe? A questo punto che faccio? Non cadauno almeno una foto? Sarebbe cattiveria, eccola.

Western Daily Mail, previsioni: “Tempo previsto: caldo secco, con temperature in diminuzione, umido e possibili piovaschi”, ovvero il possibile clima di ogni giorno dell’anno, notte e giorno, natale e festivi. Ahah. E infatti così è: piove quattordici volte al giorno, poi esce il sole e il tempo di prendere la macchina fotografica piove di nuovo. Metto via, sole. Esco la mattina presto perché ho una camminatona da fare per le colline che coronano Bath, senza però saltare il rito di una Full English prima, cioè quella colazione con bacon e fagioli e salsiccia che garantisce l’apporto minimo giornaliero di proteine e son già bravo che non ci bevo il gin insieme. Salgo per le colline che sono ancora avvolte di bruma, vedo il mio fiato. Mi aspetto da un momento all’altro di veder spuntare gli occhi di brace del mastino di Baskerville, in fin dei conti i Doyle stavano poco piu a sud di qui, nella New Forest (che New non è affatto). Il qui è il Somerset ed è una delle contee che più risponde all’idea che abbiamo della campagna inglese. E non è idea, è realtà.

Il solito momento Marconi che scopro le cose: chiunque celebra le Cotswold, figuriamoci, arrivo io. D’altronde l’architettura paesaggistica l’hanno inventata qui, dico solo Lancelot Brown, detto Capability per via della sua abitudine di dire al cliente che il terreno aveva great capabilities. Sono i paesaggi di Constable, incappo in un ponte palladiano alla Inigo Jones, una torre in rovina, pare di essere in un documentario, scoiattoli a bizzeffe, ruscelletti e persone che salutano sorridendo. O piaccio a tutti, e tenderei a escluderlo ma se così fosse mi fermo qui istantaneamente, oppure son quasi tutti gentili e cordiali. Oh, dio, non so se ce la faccio, non sono mica abituato, troppo tutto insieme. Non so, almeno a casa vi picchiate? Un po’?

Ieri sera quando sono arrivato all’albergo, una bella casotta inglese con le stanze tutte storte e il bagno in corridoio, mi ha accolto Rycroft, che è anche il gestore del pub al piano terra. Siccome per uscire si deve passare da lì, ovvio che poi una birretta uno se la fa. Ma poi non vuoi far due chiacchiere e berne una seconda? E poi io mi dimentico quel che volevo fare. Comunque, Rycroft, che è chiaramente il quarto fratello Holmes, quello ancora più intelligente del più intelligente, mi ha invitato a mangiare qualcosa, visto che fanno anche cucina fino alle otto. D’accordo, resta solo un tavolo da quattro e gli esprimo il mio rammarico per fargli perdere tre coperti. Da noi funziona così, a Firenze se sei da solo non ti danno nemmeno un tavolo da due. Rycroft mi guarda senza capire bene cosa stia dicendo e mi fa: “Meglio, così magari qualcuno si siederà con te, non è una bella occasione?”. Madonna, ma no, non è possibile. Eddai, non potete vivere mica così meglio di noi, non è possibile, e no. No. Così non va bene.

La mia vicina di camera è la contrabbassista o violoncellista, non ho capito e non stava bene chiedere di nuovo, di Nora Jones, ieri sera hanno suonato al Forum, che è dove andrò io tra poco per sentire Merchant, ancora. Eh, lo so, a maggio quando ha annunciato il tour ero così in visibilio che uno non bastava. La mia cameretta è a cinque minuti a piedi dal posto, Rycroft qui sotto mi aspetta col pub aperto al mio ritorno, beh, che chiedere di più nel mio piccolo?


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minidiario scritto un po’ così di una scampagnata inglese: cinque, luoghi dell’umanità, cattedrali uno e due, cartoline dalla città

Mentre lascio Oxford per andare a Basingstoke, il mio telefono passa al 5g. Ecco, è arrivato quel momento, l’avevano detto: mi hanno attivato. Attivato quei pezzi di chip che Loro, loro!, avevano inserito nel mio corpo con le vaccinazioni anti-covid, ora chissà cosa succederà. Cioè, io mi sento come prima o, forse, è quello che vogliono. Loro. Da adesso tutto quel che farò e scriverò sarà di mia volontà? Come saperlo? Scendo e cambio treno e, senza saperlo, passo da Crosscountry a South Western Railway, altri biglietti, altre modalità, altro account. Vadavialcul, Thatcher. Ed ecco un altro momento in cui arriva Marconi e scopre le cose: la campagna inglese è meravigliosa. Eh, infatti. Lo è in generale, qui nel Wiltshire particolarmente. Fiume, boschetto, ponticello, chiesina, pratone, pecore, pecore, pecore, pratone, guglia gotica. E non ci sono centrali nucleari come invece più su.

Arrivo e chiedo all’esperta del luogo, la gestrice del caffè della stazione, notizie del tempo. Mi assicura tre ore senza pioggia, ce la faccio. Un’ora di cammino, un’ora là e poi ritorno. Ce la faccio. Certi luoghi bisogna un po’ guadagnarseli, questo è uno. Imbocco un sentiero fangoso a fianco del fiume Avon e mi dirigo a nord, perché voglio vedere un posto speciale: Old Sarum. È una collinona abitata da sempre, preistoria, celti, certi chiamati romanes, sassoni, normanni, sbancata fin dai millenni prina di Cristo in funzione difensiva. Ne cadauno una foto che ho fatto volando, che è più semplice:

È la foto del pannello all’entrata, in realtà non volo. Con il tempo, nella zona centrale fu edificato un castello, poi palazzo reale di re Enrico I di inizio XII secolo, e più sotto una grossa cattedrale di cui si vedono le fondamenta, anche qui sopra. Beh, sono emozionato. Come in tutti i luoghi in cui la presenza umana esiste da che esistiamo e le tracce si sovrappongono incessanti, mi percorre un brivido. Non lontano da qui c’è Stonehenge ma noi viaggiatori la consideriamo una baracconata da turisti, riattata senza criterio a fine Ottocento. Come che sia, le zone sono ospitali da parecchio.

Il posto è magnifico e non c’è nulla, né bar né abitazioni né zone di logistica. Un paio di campi da rugby sghembi, con un lato più alto dell’altro. Nel mezzo di quella che era la cattedrale, mi siedo comodo forse sul basamento di un altare e faccio una delle cose che preferisco in assoluto: mangiare un panino all’aperto. Nessun ristorante è all’altezza, per quanto mi riguarda. Nessuno, diciamo, ha del cibo così buono per rinunciare alla vista e al vento.

Poi, come molti, sono attratto dalle rovine e dai luoghi maestosi abbandonati, quello qui sotto era il chiostro della cattedrale.

Non è che sia tutto svanito, il luogo fu volutamente abbandonato per una ragione precisa: c’era acqua, come ce n’è ovunque qui, ma non comoda. E non era più necessario accoccolarsi in cima a un cucuzzolo per aver salva la vita, bisognava anzi aprirsi ai commerci. E così la comunità si trasferì quattro chilometri a sud, alla confluenza di cinque fiumi, in piano, l’odierna Salisbury. E costruirono una cattedrale anche più grande e maestosa, riutilizzando tutte le pietre possibili della vecchia Sarum, visto che erano già comodamente tagliate. Derogo alla mia abitudine di non postare foto da cartolina perché questa sotto rende bene le dimensioni della nuova cattedrale e il colpo d’occhio per chi veniva dalla pianura. E poi per una volta che me ne viene una, la uso.

Scendo anch’io a sud, rifacendo il cammino dei vecchi sarumanici, seguendo la valletta del fiume Avon e anziché migliorare il mio makeup mi riempio invero di fango. Passo a fianco di un campo in cui, coventrizzata Coventry, cominciarono a costruire gli Spitfire per la guerra, tutto in gran segreto grazie alla popolazione. Talmente segreto che a parte un cartello non si vede niente e che la cosa risaltò alle cronache locali solo tre anni fa. La particolarità della cattedrale, invece, la sua bellezza intrinseca, è che essendo stata costruita in soli trentotto anni dal 1220 è un esempio raro di gotico puro, coerente, mentre, che so?, Colonia o Milano per citarne un paio sono influenzate da otto secoli di stili architettonici fino al bizzarro neogotico con cui sono state concluse. È davvero imponente e quando arrivo è buio e rimango sorpreso constatando che non è illuminata. Giusto, ben fatto. Non avendo edifici addossati devo stare fermo un po’ e pian piano la vedo emergere dal buio grazie alle mie retine. Alcuni finestroni illuminati da dentro insieme alle stelle completano la magia.

Strepitosa, del 1994 quando la vidi la prima volta ne ricordo l’emozione, non i dettagli. Salisbury ha quarantamila abitanti, non è piccola, grossomodo come Mantova, Lecco, Lodi, per stare a noi. Ha una parte della città lasciata a campi in cui l’acqua scorre liberamente, ricordo una cosa simile al Marais di Bourges, chi volesse. A differenza però delle città padane, qui fuori dall’ultimo metro della città non c’è nulla se non colline e pecore e boschi, mentre va tu a trovare l’ultimo metro di una città padana. E anche dentro la città il culto e l’attenzione per gli spazi verdi sono davvero encomiabili e mi lasciano di stucco tanto sono incantevoli. Per cui: ora farò una breve carrellata di immagini di spazi cittadini di Salisbury, tutte foto mie, proprio quelle da romanzo inglese di Trollope o Dickens o Austen, e le dedico a R. che so che legge sia i romanzi che più modestamente me e che di recente è un po’ disillusa dagli inglesi; se qualcuno si innervosisse a sapere che qua fuori esistono posti più vivibili della padania, fisica e morale, e so che ce ne sono anche di insospettabili, allora si fermi qui e ci vediamo alla prossima.

Ma come si dice in inglese, face the reality.


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minidiario scritto un po’ così di una scampagnata inglese: quattro, incontri al vertice, opere umane d’ingegno, l’esperienza completa

La colazione nel bow window della casa georgiana che mi fa da albergo è memorabile. Non per il cibo, mi sono accontentato di due onesti toast col loro maledetto burro salato, non posso evidentemente sopravvivere a una full english al giorno, quanto per il contesto: fuori piove e volano le foglie gialle d’autunno, davanti a me scorre il Tamigi che sebbene qui sia largo sì e no cinque metri è bello impetuoso, il padrone di casa ha chiesto per favore ad Alexa di mettere della musica e lei ha messo Otis Redding, beh, dentro fa caldino e tutto va bene, non ho tanta voglia di raccattare le mie cose e ripartire.

Se però mi fermassi, tra mezz’ora mi romperei le balle, mi conosco, è la mia condanna e la mia fortuna, mi tocca rimettermi sempre in moto. E poi fuori a sguazzar alle intemperie sto meglio. Centonovantaduesimo giorno consecutivo di pioggia, ieri non appena sono arrivato a Oxford ho incontrato senz’altro la figura più ragguardevole in città, un tipo vestito da cazzo. Non vestito male, intendo vestito proprio da pene. Riconoscendo evidentemente la statura paragonabile del proprio interlocutore, mi ha chiesto un autografo. Ecco, questo per iniziare in bellezza, posso cadaunare foto a chi mi scrive. D’altronde Oxford è pur sempre un grosso campus in cui i collegi sono edifici in pietra gialla del quattordicesimo secolo abitati però da studenti. A parte un certo odore di marijuana persistente e, appunto, qualche bislacco vestito, non vedo intemperanze significative, sono tanto carini. Io sono qui per vedere la città e soprattutto la biblioteca bodleiana, paragonabile senz’altro per vetustà e dotazione alle nostre malatestiana e laurenziana. Al re, dico Giacomo I a memoria e ci starebbe, che ai primi del Seicento chiedeva dei testi in prestito, la biblioteca rispose in modo estremamente british che avrebbe potuto tranquillamente venire a consultarli in sala esattamente come tutti gli altri. E quello venne. Certo, poi gli fecero uno stallo chiuso tutto per lui che ancora si vede ma ciò non toglie una virgola al succo della storia.

A proposito di re, ieri c’è stato il discorso di re Carlo, terzo stavolta, che ha suscitato interesse in molti paesi del mondo per il fatto che il re, come di consueto, legge un discorso scritto dal primo ministro con le intenzioni di governo. E se fino a Elisabetta la cosa ha destato poco scalpore perché lei avrebbe potuto leggere il bugiardino del Voltaren senza fare una piega, non è nemmeno chiaro se abbia mai avuto un’opinione propria, ora Carlo ha dovuto sostenere iniziative chiaramente in contrasto con le sue convinzioni. La cosa non ha suscitato il minimo interesse qui, ci sono abituati e niente di nuovo, è un meccanismo interessante della monarchia parlamentare, piuttosto si sganasciano sull’aspetto dimesso della coppia, persino un po’ gobbetta.

Dell’altra storia che coinvolge le relazioni italo-inglesi poca roba. Riassumo: una sfortunata bambina inglese di otto mesi soffre di una rara malattia che le impedisce di sviluppare qualsiasi muscolo, malattia incurabile va detto, e l’Alta Corte inglese ha stabilito per lei, secondo legge, l’interruzione del supporto vitale. Si è inserito il governo italiano che in fretta e furia con un consiglio dei ministri d’urgenza ha dato alla bambina la cittadinanza italiana e richiede il trasferimento in ospedale romano, mentre Meloni fa la sua recita difendendo la vita a prescindere e alimentando le irragionevoli speranze dei genitori. Chiaro che queste cose è insensato farle decidere ai genitori, la legge serve appunto a questo, a stabilire un limite oltre il quale è bene non andare. Crudeltà, dico io, accanimento, i giornali inglesi si limitano a sottolineare le differenze culturali con gli italiani, in questo caso dovute alla matrice cattolica. Da parte mia, se devo scegliere, preferisco un governo che si assuma delle responsabilità decidendo che in certi casi o per età certi interventi non si fanno piuttosto che uno che mi condanni, me o altri, intendiamoci, a una vita al di sotto della qualità minima dignitosa in nome di convinzioni di stampo culturale e religioso. Amici che lavorano in ospedale mi raccontano di continuo di interventi a ultraottantenni che nel resto del mondo non ai sognano nemmeno di fare. Qui men che meno, tendono a essere molto pragmatici.

Una vera incontaminata coda inglese

A un corso di marxismo in venti minuti; a una gita a Sutton Courtenay, amabile paesino qui vicino in cui è sepolto George Orwell, non però così vicino da andarci a piedi nonostante l’immensa ammirazione che ho per lo scrittore; a una visita a Blenheim palace, luogo di nascita di Churchill e mastodontico palazzo nella campagna inglese che appare in ogni film o serie tv quando si rappresenta un palazzo reale, che richiederebbe però una giornata; alla villa romana di North Leigh, anch’essa piuttosto distante senza auto; a queste succulente opzioni dicevo preferisco un’esperienza completa al pub, fatta come si deve. Quando fa buio e visto che piove, cioè verso le cinque e mezza, scelgo il The Grape in George St. e mi ci installo per le prossime ore. Le pareti sono tappezzate di vedute dipinte da rigattiere, potrebbero essere i venticinquemila quadri di Berlusconi, ma l’effetto è caldo e accogliente. In tv ci sono i mondiali, credo, di cricket, sport davvero appassionante, i posti sono occupati per metà e con alcuni degli occupanti ci siamo fatti un cenno di saluto e di intesa, scelgo il mio primo tipo di birra e mi metto comodo col libro.

Dalla seconda birra il barista, pubber?, mi chiama buddy, amico, perdio se ci sanno fare, loro fanno così e noi ci troviamo in un luogo confortevole e sosteniamo con vigore l’economia legata alla produzione alcolica. Dopo un centinaio di pagine e adeguato accompagnamento, l’atmosfera cambia, il cricket è finito, il barista mette sul giradischi, vero, i Kinks, il signore ti benedica, I think I’m sophisticated ‘cause I’m living my life / Like a good homo sapiens, il volume delle conversazioni si alza, il locale si riempie. Anche di donne, questa cosa è abbastanza recente. Bene in generale, meno quando le si trovano a gambe all’aria nel cassonetto qui fuori per eccesso di tasso. Oddio, questo vale per qualsiasi genere. Comunque, il locale si riempie ed è bello perché, cosa illegale in Italia, ci si può sedere anche allo stesso tavolo senza conoscersi e, anzi, chiacchierare. Così, so che sembra incredibile. Mi ricorda alcune scene da Cheers e, visto che io sono qui da prima, sono chiaramente Norm. Be glad there’s one place in the world / Where everybody knows your name / And they’re always glad you came. Poi si cambia di nuovo, sono circa a due ore e mezza di permanenza, alcuni corrono quarantacinque chilometri nello stesso tempo: si riaccende la tv, c’è una partita di calcio, alcuni vanno a casa – ma sono sicuro che per buona parte tornino – e qui si comincia a mangiare. Anzi, a ordinare, cibo e giusto accompagnamento. Io prendo delle salsicce del Cumberland con il purè e delle patatine che siccome non sono sbucciate si chiamano giustamente skin on fries. Tanto il mio nutrizionista è morto tre giorni fa. Poi quelli che hanno cenato a casa tornano, con alcuni nuovi, termina il fòbal e si rimette la musica e la serata prende il volo. Non per me, non per molto, che ormai ho l’aspetto dell’arredo e comunque sono in giro da quindici ore, piglio su le mie carabattole che domani mi muovo presto. E che meraviglia, in tre mi salutano, sono commosso. And they’re always glad you came. Se decidessi di vivere qui dovrei senz’altro dotarmi di storie da raccontare al pub, perfezionarle ed esercitarmi, si vede che sono un dilettante. Ciao a tutti, ci vediamo tra cinque anni, oppure in giro. State bene.


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