il giorno della memoria: Georg Elser

Un carpentiere, qualche esperienza di lavoro in una fabbrica di orologi, suonava la cetra ed il contrabbasso per il coro locale, amante delle lunghe passeggiate, protestante moderato, basso di statura e con i capelli neri pettinati all’indietro, il suo tedesco semplice, con forte accento della Svevia, rivelava la sua scarsa istruzione e la sua provenienza dal meridione della Germania. Il suo nome era Georg Elser.

«Non ha la faccia tipica del criminale», scrisse il 22 novembre 1939 il giornale nazista «Völkischer Beobachter». «I suoi occhi sono profondi […] e pensa a lungo e con attenzione prima di rispondere. […] Quando lo si guarda, ci si può per un istante dimenticare di quale mostro satanico egli sia, di quale colpa, di quale terribile peso la sua coscienza si faccia carico con una così intollerabile semplicità». Il mostro satanico altro non fece che cercare di uccidere Hitler.

La sua storia è raccontata da Danny Orbach nel suo libro «Uccidere Hitler. La storia dei complotti tedeschi contro il Führer», da cui cito: «Aveva escogitato, completamente da solo, un piano molto sofisticato per uccidere Adolf Hitler. Nella storia del Terzo Reich nessun altro tentativo di assassinio – neppure il famoso complotto dinamitardo di Stauffenberg del 20 luglio 1944 – venne pianificato in maniera così meticolosa e arrivò così vicino al successo. In ogni caso, al contrario di Stauffenberg, di Oster e degli altri attentatori provenienti dal movimento della resistenza, Elser non aveva una rete di appoggio: non aveva complici, né contatti nell’esercito o amici politici. Nessuno gli fornì coperture o gli diede bombe o case di copertura o istruzioni. Non fece mai trapelare il peso psicologico che sopportava, né rivelò mai agli amici la sua terribile missione».

Elser decise di colpire Hitler nella birreria di Monaco in cui, annualmente, celebrava con i suoi fedeli il fallito putsch. Si fece assumere in una cava e piano piano sottrasse l’esplosivo necessario; poi, con ancor più meticolosità, si fece chiudere dentro la birreria per molte notti scavando una nicchia nella colonna dove sarebbe stato il palco di Hitler, inserendo poi la bomba.
Come racconta ancora Orbach: «La missione di Elser sembrava irrealizzabile da vari punti di vista. Doveva procurarsi da solo gli esplosivi, costruirsi una bomba, arrivare a Hitler (cosa non facile per un ufficiale, figuriamoci per un semplice operaio) e superare il suo apparato di sicurezza. Doveva riuscire ad avere informazioni precise, impresa praticamente impossibile da compiere da solo, senza agenti e uomini di fiducia. Eppure Elser riuscì a ottenere tutto questo grazie alla sua formazione, alle sue capacità non comuni e a una serie di circostanze fortuite».

L’8 novembre del 1939 tutto era pronto: Hitler cominciò il suo discorso alla birreria, la bomba era regolata per esplodere alle 21:20 e, vista l’abitudine del Führer di proseguire i propri discorsi per ore, pareva tutto a posto. Purtroppo, il tempo si guastò e rese impossibile volare con l’aereo quella notte: così Hitler decise di rientrare a Berlino in automobile e fu questo il motivo per cui interruppe il proprio discorso alle 21:05, lasciando la birreria. «Il piano di Elser era stato salvato più di una volta dal caso. Ma questa volta il caso lo tradì».

Elser fu arrestato alla frontiera, torturato, deportato infine a Dachau e ucciso poco prima della liberazione. Grande fu la sua lungimiranza, poiché intuì fin dall’inizio a cosa il nazismo avrebbe portato, e concepì il suo piano – oltre che tutto da solo – almeno fin dal 1938: quanto sarebbe cambiato se fosse riuscito a uccidere Hitler nel 1939! Sarebbe bastato un quarto d’ora in più.
Georg Elser è stato uno degli uomini più coraggiosi e lungimiranti che siano mai vissuti, oggi è il giorno giusto per ricordarlo. L’uomo che da solo quasi riuscì a cambiare la storia.

Riferimenti:
– Danny Orbach, «Uccidere Hitler. La storia dei complotti tedeschi contro il Führer», Bollati Boringhieri, 2016;
– Hermut Ortner, «L’attentatore solitario. Georg Elser, l’uomo che voleva uccidere Hitler», Zambon Editore, 2003;
– «L’orologiaio» (in inglese «Seven Minutes» e in tedesco «Georg Elser»), film del 1991 con Klaus Maria Brandauer;
– «13 minuti», film del 2015 di Oliver Hirschbiegel.

la morte, il funerale e la sepoltura di Fidel Castro in nove foto

La settimana dal 27 novembre, due giorni dopo la morte, al 4 dicembre, il giorno della sepoltura al cimitero di Santa Ifigenia.

La biblioteca nazionale cubana – L’Avana, Cuba, 27 novembre 2016 (AP Photo/Desmond Boylan)

L’Avana, Cuba, 27 novembre 2016 (PEDRO PARDO/AFP/Getty Images)

L’Avana, Cuba, 28 novembre 2016 (AP Photo/Dario Lopez-Mills)

Alexis Tsipras a Plaza de la Revolución – L’Avana, Cuba, 29 novembre 2016 (PEDRO PARDO/AFP/Getty Images)

Cuba, 30 novembre 2016

Santa Ifigenia, Santiago, 4 dicembre 2016 (Marcelino Vazquez Hernandez/Pool Photo via AP)

Santa Ifigenia, Santiago de Cuba, 4 dicembre 2016 (Chip Somodevilla/Getty Images)

Santa Ifigenia, Santiago de Cuba, 4 dicembre 2016 (YAMIL LAGE/AFP/Getty Images)

Santa Ifigenia, Santiago de Cuba, 4 dicembre 2016 (Chip Somodevilla/Getty Images)

dritto e storto

Il 5 dicembre 1791 morì Mozart.

Fu il più grande, non solo per meriti musicali: per genio, estro e una notevolissima consapevolezza illuminista e progressista di sé e dell’uomo.

“Chi crede sarà beato e chi non crede andrà in cielo, ma diritto difilato e non come scrivo io. Vede dunque che so scrivere come voglio, bello e chiaro e ingarbugliato, dritto e storto”.

a Washington nell’estate del ’63

Il 28 agosto 1963 si tenne la marcia su Washington per i diritti civili. O, per dirla in modo ufficiale, la “Marcia su Washington per il lavoro e la libertà”. La segregazione razziale, ovvero la separazione fisica tra neri e bianchi, sancita dalle cosiddette leggi “Jim Crow”, era ancora realtà effettiva e la marcia organizzata da Martin Luther King e dal movimento per i diritti civili era sicuramente la manifestazione più ambiziosa di quel periodo.

Quello fu il giorno del discorso “I have a dream“, quello fu il giorno in cui i bianchi si spaventarono fin dal mattino e si chiusero in casa e chiusero gli uffici, così che Washington apparve irrealmente vuota. Il luogo del raduno era stato fissato intorno al Washington Monument (l’obeliscone, per capirci), la marcia – con Bob Dylan, Joan Baez e Mahalia Jackson in testa a suonare e cantare, Marlon Brando e Charlton Heston nel gruppo – percorse metà del National Mall fino al Lincoln Memorial, dove i leader del movimento tennero il comizio. Ecco cosa si vedeva quel giorno dal palco.

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Un anno e mezzo fa ci sono stato anch’io, emozionato, ecco com’è oggi.

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La marcia fu un successo e le rivendicazioni di quel giorno (la fine della segregazione razziale nelle scuole, la protezione dagli abusi della polizia per gli attivisti, uno stipendio minimo di 2 dollari all’ora per tutti i lavoratori e una efficace legiferazione sul tema dei diritti civili) portarono effettivamente alla fine della segregazione e all’approvazione delle leggi sull’uguaglianza, quali per esempio il Voting Rights Act e il Civil Rights Act. Fu un giorno straordinario, del quale non tutti compresero la portata.


Uno dei punti a tutt’oggi irrisolti, e del quale viene fatta una severa critica all’amministrazione Obama, è la disparità economica tra neri e bianchi: se già il giorno della manifestazione dal palco furono dette queste parole

«La lotta ha avuto inizio con il problema degli autobus, in una parola, con il problema della dignità. Ma dal momento che le radici della discriminazione sono economiche, a lungo andare, gli afroamericani, come tutti gli altri, non potranno raggiungere la dignità senza un lavoro. Le questioni economiche sono destinate ad emergere, con implicazioni di vasta portata»

a oggi la situazione non è molto differente: nel 1963, un afroamericano guadagnava 55 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai bianchi, nel 2011 il guadagno è salito a soli 66 centesimi per ogni dollaro. Pochino e ingiusto.

«me lo state uccidendo!»

Un diario, un racconto giorno per giorno dal primo agosto 2013 («Rigetta nel resto il ricorso del Berlusconi, nei cui confronti dichiara, ai sensi dell’articolo 624, comma 2, codice…»), il giorno della condanna, ai primi di ottobre, due mesi dopo, l’affidamento ai servizi sociali.

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Come sempre accade, rileggere di fila tutti gli avvenimenti di un periodo fa molto più effetto: erano giorni schizofrenici, deliranti, faticosissimi, stupidi; plotoni di subumani a pretendere l’«agibilità politica» un giorno e la santificazione quello dopo, minacciando dimissioni di massa e la caduta del governo Letta a piè sospinto. Che poi cadrà, sì, ma da sinistra, peggio. E i subumani a defilarsi appena possibile, qualcuno al governo, qualcuno sotto le pietre in attesa di un nuovo padrone.
C’erano i deputati PDL che, per dirne una, si riunirono a Montecitorio per i saluti prima delle ferie estive (perché sì, è stato condannato: ma vogliamo saltare le ferie?) e un simpaticissimo deputato, Simone Baldelli, pensò bene di presentarsi vestito da donna per fare una ridicolissima imitazione della presidente Boldrini: si può vedere. Il clima e il periodo era quello, da piangere. E Baldelli, bravo lui, oggi è ben impegnato: vicepresidente della Camera.

Rileggendo e, quindi, ripensandoci, mi viene un pensiero, più che altro: mille, mille, mille e mille (e ancora mille) volte meglio questo governo, questo clima, questo dibattito politico, quest’aria. Che potrà non piacere Renzi, per carità, si potrà essere contro il referendum, e ci mancherebbe, ma quelli erano tempi davvero schifosi, con il paese sull’orlo dell’isteria continua, un piagnisteo e una sceneggiata continua. Grazie a dio oggi è passata. E chi dice il contrario non ricorda o non lo sa.

Primo Levi: «Arbeit Macht Frei»

virgolette-aperteCome è noto, erano queste le parole che si leggevano sul cancello di ingresso nel Lager di Auschwitz. Il loro significato letterale è «il lavoro rende liberi»; il loro significato ultimo è assai meno chiaro, non può che lasciare perplessi, e si presta ad alcune considerazioni.
Il Lager di Auschwitz era stato creato piuttosto tardi; era stato concepito fin dall’inizio come campo di sterminio, non come campo di lavoro. Divenne campo di lavoro solo verso il 1943, e soltanto in misura parziale ed in modo accessorio; e quindi credo da escludersi che quella frase, nell’intento di chi la dettò, dovesse venire intesa nel suo senso piano e nel suo ovvio valore proverbiale-morale.
È piú probabile che avesse significato ironico: che scaturisse da quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo, di cui i tedeschi hanno il segreto, e che solo in tedesco ha un nome. Tradotta in linguaggio esplicito, essa, a quanto pare, avrebbe dovuto suonare press’a poco cosí:
«Il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, Herrenvolk, popolo di signori e di eroi, ma a voi, nemici del terzo Reich. La libertà che vi aspetta è la morte».
In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. Questa volontà appare già chiara nell’aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all’assurdo, nell’universo concentrazionario.
Allo stesso scopo tende l’esaltazione della violenza, essa pure essenziale al fascismo: il manganello, che presto assurge a valore simbolico, è lo strumento con cui si stimolano al lavoro gli animali da soma e da traino.
Il carattere sperimentale dei Lager è oggi evidente, e suscita un intenso orrore retrospettivo. Oggi sappiamo che i Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, non erano, per cosí dire, un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi); non erano una triste necessità transitoria, bensí i primi, precoci germogli dell’Ordine Nuovo. Nell’Ordine Nuovo, alcune razze umane (ebrei, zingari) sarebbero state spente; altre ad esempio gli slavi in genere ed i russi in specie sarebbero state asservite e sottoposte ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.
I Lager furono dunque, in sostanza, «impianti piloti», anticipazioni del futuro assegnato all’Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valida solo per quest’ultimo.
Se il fascismo avesse prevalso, l’Europa intera si sarebbe trasformata in un complesso sistema di campi di lavoro forzato e di sterminio, e quelle parole, cinicamente edificanti, si sarebbero lette sulla porta di ingresso di tutte le officine e di tutti i cantieri.virgolette-chiuse

In «Triangolo Rosso», Aned, novembre 1959.

Questo e molti altri articoli di Primo Levi si trovano in L’asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987, Einaudi, o in Opere, stesso editore, 1997.

la porta Pia era tutta sfracellata

Ripassino di storia patria, proprio dall’inizio: il 20 settembre 1870 le truppe del Re cominciarono l’assedio di Roma. L’attacco fu portato su diversi punti e il cannoneggiamento delle mura aureliane iniziò alle 5 di mattina. Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco sulla città: non che la cosa fosse un deterrente ma per non saper né leggere né scrivere l’ordine lo diede il capitano d’artiglieria Giacomo Segre, che era ebreo.
Alle nove si aprì una prima breccia sulle mura vicino a Porta Pia, per cui si decise di insistere in quel posto: alle 9:35 riprese il cannoneggiamento e dopo dieci minuti la breccia fu larga abbastanza per far entrare le truppe.

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Entrarono subito due battaglioni, uno di fanteria e uno di bersaglieri, con qualche carabiniere. Alle dieci, dal Vaticano si alzò bandiera bianca. Racconta De Amicis, che c’era: «La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti». Alle 17:30 il capo di Stato maggiore vaticano firmava la capitolazione.

Nel 1905, con l’avvento della settima arte, fu girato il cortometraggio La presa di Roma, anche conosciuto come Bandiera bianca e La Breccia di Porta Pia, di Filoteo Alberini. Per dire l’importanza e la considerazione della ricorrenza al tempo, fu la prima pellicola proiettata pubblicamente in Italia.