i concerti, quasi come una volta

Finalmente, primo concerto post lockdown: i Calibro 35 a Milano.

Tutti seduti, distanziamento obbligato perché ciascun non congiunto occupa di fatto cinque posti, uno fisicamente e quattro con amici invisibili, venti per cento quindi come i palazzetti – al chiuso, però – mascherina se ci si alza. I milanesi poi si baciano quando si incontrano ma tant’è, bisogna forse intervenire? Mostrare disappunto?
Bel concerto, come sempre, i Calibro 35 non offrono quasi mai prestazioni al di sotto della media perché hanno tanto tanto mestiere e ancor più tecnica, ricordano loro – e molti c’erano – come il loro ultimo concerto sia stato il 19 febbraio a Milano. Qualcuno dice ad alta voce: «Speriamo stavolta vada meglio». Speròmm.
E poi c’è il castello sforzesco illuminato, la fine estate, la brezzolina, la moltitudine, seppur diquintata, la musica, ah la musica.

Mancava, mancava tutto. Anche se, me la dico tutta, meno trepidazione di quanto mi sarei aspettato: alla fine, ci si abitua rapidamente tanto al lockdown quanto alla libertà. Il che è complessivamente, comunque, un bene.

Una bella panoramicona verso la quarta parete, con noi compresi:

Grazie signor L.

fine della suspance

Oggi ho scoperto una cosa. Che suspans.
Oggi ho scoperto, per caso, che la suspance, come l’ho sempre interpretata io, non esiste.
Esiste solo e soltanto la suspense. Che trauma. Una vita che mi accompagnavo felicemente alla suspance e ora scopro che non esiste e che era pure una parola iperzoppa.
Esiste la suspense, parola inglese derivata dall’espressione francese en suspens, in sospeso, e tale è in inglese, ovviamente, in francese e in italiano. Loro, inglesi e francesi, accentano suspènse e noi sùspense (sàspens, come rèport), per lo più.
Suspense, suspense, suspense. Ora devo impararlo, sconfiggendo l’abitudine di una vita. Ce la farò? Che suspense. Uff.

confluenze: 4

Qualche settimana fa, di passaggio da Coblenza, avevo tentato di fare mente locale sulle città costruite alla confluenza di due o più fiumi. Perché già le città su un fiume hanno qualcosa in più ma quelle a una confluenza sono ancora più in alto nella scala Mercalli delle città interessanti.
Non che la mia mente locale avesse dato chissà quali frutti ma considerando che sto cercando di farlo in modo tradizionale – cioè la mente della mente locale è proprio la mia, non è una locuzione astratta, non sto cercando in rete – ero giunto ai seguenti risultati: Lione, ovviamente, alla confluenza tra Saona e Rodano (c’è anche un museo); Coblenza dove si uniscono Reno e Mosella; Belgrado, tra Danubio e Sava.

Oggi, in un raro momento di scavo fruttuoso nella memoria, mi è sovvenuta Passau che è alla confluenza di non due ma ben tre, dico tre!, fiumi: Danubio, Inn e Ilz. È record. Per il momento, almeno. Ne esisteranno altre da tre? E da quattro?

Aggiornamento grazie ai preziosi contributi ricevuti:

Confluenze di tre fiumi:
– Passau: Danubio, Inn e Ilz

Confluenze di due fiumi che ne generano uno nuovo:
– Pittsburgh: Allegheny e Monongahela generano l’Ohio
– Ponte di Legno: Narcanello e Frigidolfo generano l’Oglio

Confluenze di due fiumi:
– Belgrado: Danubio e Sava
– Bressanone: Isarco e Rienza
– Coblenza: Reno e Mosella
– Lione: Saona e Rodano
– Treviso: Sile e Botteniga
– Washington: Potomac e Anacostia

che giorno è?

Durante il lockdown una delle cose difficili da ricordare, in effetti, era che giorno della settimana fosse. Lun? Mar? Erano un po’ tutti uguali. La Fox, per tutto il resto pessima, inaugurò una rubrica condotta da Todd Meany che aiutava parecchio in questo.

Una delle cose migliori del periodo. E questa del 10 aprile in particolare:

Per concludere, terzo giro di Todd Meany.

Ahah. Oggi è lunedì, comunque.

59 secondi di… stazione di Amburgo

Amburgo è nota per il porto, chiaro, ma anche la stazione è poderosa. Gran viavai.

Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più aschenazita del campetto, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente a me o a voi, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbiate voglia di immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.

Where do the children play in 2020?

Tea for the Tillerman forse non è il più bel disco di Cat Stevens ma, se non lo è, ci si avvicina parecchio. Ed è, comunque, un gran disco: voglio dire, Where Do the Children Play?, Wild World, Sad Lisa, Father and Son e avanti.
Stevens (ora Yusuf Islam) ha deciso di risuonare completamente il disco, in occasione del cinquantesimo. Comunque meglio della ripubblicazione con un milione di inediti del tutto inutili. E c’è anche un video in stop motion girato da Chris Hopewell & Black Dog Films, in attesa del 18 settembre per l’uscita del disco.

Anche la copertina è stata ridisegnata, attualizzando i concetti del disco, pur validi a oggi. Devo dire che il vecchio disco regge benissimo il tempo.

A me, complessivamente, piace di più Mona Bone Jakon ma son preferenze.

«io proposi la parola radioattività»

Già la storia è di per sé eccezionale, si tratta di trovare il modo giusto per raccontarla. Così ha fatto prima Lauren Redniss con il suo fumetto e, poi, Marjane Satrapi, che il linguaggio per immagini lo mastica, con il suo nuovo film, Radioactive.

La vicenda è quella di Maria Skłodowska, nota come Curie, chimica e fisica polacca celebre per aver individuato due nuovi elementi chimici, il radio e il polonio, e per i suoi studi sulle radiazioni che porteranno, poi, alle cure che facciamo attualmente, la radioterapia. Che, in francese, è ancor oggi chiamata Curieterapie. Il film è molto bello, superati i primissimi minuti incerti, e lo consiglio senza alcun dubbio, sia perché Satrapi – da ricordare per l’ottimo Persepolis, fumetto e film – rende i personaggi con buona profondità sia perché inserisce flashbacks e, soprattutto, flashforwards sul futuro delle radiazioni, con tipico linguaggio fumettistico, che danno al film una visione molto più ampia. È anche una vicenda d’amore, di storia, di emancipazione femminile in un contesto complesso, di fatica, generosità e morte. Rosamund Pike è, come al solito, notevole, anche Riley, decisamente uno dei film degli ultimi anni. Non perdetelo, davvero.

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno undici, pifferai sbagliati, animali coalizzati, servizi del Comune

Piove, grigio e tira vento. Sono a Brema e non è evidentemente, un caso: in alcuni dialetti della val padana la brema è il freddo e, in effetti, così è. Certo, in trevisano la brema è il documento, il che potrebbe far vacillare la mia solida congettura, ma non posso certo occuparmi di tutto io. Piuttosto, già che ci sono vorrei sgomberare il campo dai fraintendimenti in cui sono occorso pure io medesimo: «il pifferaio di Hameln» (italianizzato in Hamelin, «Der Rattenfänger von Hameln»), o «il pifferaio magico» non c’entra nulla con Brema. Stava, appunto, a Hameln, in Bassa Sassonia. Storia tragicona, tra l’altro, mica bazzeccole. A Brema, invece, c’erano i musicanti di Brema («Die Bremer Stadtmusikanten») e l’unica analogia tra le due storie è l’essere entrambe state raccolte dai Grimm. La storia dei quattro musicanti racconta la vicenda di un asino, un cane, un gatto e un gallo che, stufi di venire maltrattati nelle reciproche fattorie, scappano insieme verso Brema con l’intento di diventare musicisti e, mettendosi insieme e unendo le forze, riescono a occupare una casa, a sfamarsi e a sfuggire all’attacco dei briganti. Che confusione.

Prima di arrivare in un posto, una città, una regione, uno stato, mi piace provare a riassumere mentalmente tutto ciò che conosco di quel luogo, qualsiasi cosa. Di Brema ho richiamato: erroneamente il pifferaio, faccio ammenda; il «magico 4 per 4 del circo di Brema» di De Gregori (la canzone è «Ninetto e la colonia») che chissà che vuol dire ma ha magari a che fare coi musicanti (e comunque poi apparve un pellegrino vestito di chiffon); il Werder, vabbè. Non molto, in effetti, non mi viene in mente nemmeno qualcuno nato a Brema o che ci abbia fatto qualcosa. Ignorante perché ignoro.
Ignoravo anche l’esistenza del Rolando (Orlando) di Brema, ovvero una statua medievale alta cinque metri che occupa la piazza principale della città e simboleggia la libertà e l’autonomia della libera città di Brema (che è una città-stato, tra l’altro). Ovunque in Europa si trovano spade d’Orlando, conficcate o per toponomastica, ovunque riferimenti a lui o ad altre figure della Chanson, per esempio il perfido Gano di Maganza, e scopro or ora che in alcune città tedesche (Quedlinburg, per esempio) vi sono statue a lui dedicate. Credo che il nesso sia Carlo Magno. A Roma, per citare un esempio locale, esiste uno stretto vicolo a fianco del Pantheon nel quale, secondo la leggenda, la spada di Orlando, la Durlindana, si sarebbe conficcata dopo un lungo lungo volo. Il «vico della spada d’Orlando», per l’appunto, bella storia. La statua di Brema protegge i viandanti che si presentano al suo cospetto e garantisce un viaggio sicuro. Eccomi, anche se alla fine invece che all’inizio.

Una delle certezze della Germania – una bella certezza per un viaggiatore – è che, inviariabilmente, sotto qualsiasi municipio di una qualsiasi città tedesca si può trovare a colpo sicuro una ratskeller, di solito di origine medievale, ovvero una cantina in cui mangiare carnazza con patate e crauti, bere vino e condividere tavoli. Ma proprio proprio sotto il municipio, ne è sempre parte integrante. Il che colpisce chi vien da fuori ma, riflettendoci un secondo, tutto sommato è un ottimo riflesso, diretto, delle politiche sociali comunali. Usanza da importare, fossimo meno rigidi su queste cose.
Bel centro, Brema, quel che è rimasto da un bombardamento insistito come pochi, era pur sempre un porto strategico tedesco nel mirino degli Alleati, diciamo che una mezza giornata la merita senz’altro. Ed è quello che faccio io, poi piglio su baracca, burattini, zaini, animali e flauti e mi metto in viaggio verso casa. Porto con me parecchio anche da questo viaggio, ho messo a posto nella mia testa alcune zone d’Europa che non mi erano chiare, ho visto gente e fatto cose, ho imparato qualcosetta e mi sono parecchio svagato. Mi sono divertito a scrivere questo minidiario come mi sono divertito a leggere e a rispondere – quasi sempre – ai commenti di chi ha voluto partecipare, grazie a loro; spero di aver suscitato qualche sorriso qua e là, non sempre un lavoro quotidiano riesce ad avere la medesima intensità, anzi. Ci sono, ora è tempo di far fagotto e ci vediamo, magari, in giro.


L’indice di stavolta

giorno zero | giorno uno | giorno due | giorno tre | giorno quattro | giorno cinque | giorno sei | giorno sette | giorno otto | giorno nove | giorno dieci | giorno undici |

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno dieci, piove, non piove, piove, costituzionalismo da spiaggia

Vagolo al cospetto del mar Baltico, l’aria è fresca e leggera, pulita direi, in quattro ore piove sei volte, tre vien fuori un caldo equatoriale, una un vento da portar via le fette di torta dal piatto. I tedeschi premuniti, di solito di una certa età, si cambiano ogni dieci minuti, aggiungono o tolgono strati alla cipolla, avvisati. Quelli meno no, non tolgono e non aggiungono niente, si godono il fresco, il caldo e la pioggia, come faccio io. Il posto è di vacanza, uno di quei posti che piacciono ai tedeschi in cui puoi mangiare, stando seduto a guardare il mare o il passeggio, un cappuccione da un litro, un piatto di torta al formaggio e gelatina di frutta e uno spiedino di gamberi, tutto insieme. Una cosa che non ho mai capito della Tedeschia è questa: ovunque si vedono ultrasettantenni – uomini e donne, sia chiaro, alla pari – intenti a bere mezzilitri di birra e mangiare maiali stracotti con grande soddisfazione, condendo il tutto con grande serenità. Ma, mi domando io, i loro medici curanti che dicono? Ovvero: sono i medici di base tedeschi diversi dai nostri medici di base? Seguono discipline diverse? Sono più avanti, più indietro? Fosse che qua muoiono a cinquant’anni, capirei, ma non mi pare sia così. Anzi. Dev’essere quella gran balla del colesterolo.

Il piano, ora, è di proseguire verso ovest restando sufficientemente in quota, passare dal primo porto tedesco, Amburgo, per approdare al secondo, Brema. Amburgo è una città molto interessante, spesso trascurata a favore di nomi più noti, ne avevo fatto una guida tre anni fa, elencando almeno tre buoni motivi per andarci. Lo confermo, nel frattempo io salto e proseguo perché, appunto, ci sono già stato due volte. E poi i giorni sono agli sgoccioli: agosto sta finendo e un anno se ne va, sto diventando grand… no, no pardon. Agosto sta effettivamente finendo e certe cose è bene che ricomincino, contagi permettendo, e la mia presenza è richiesta. Pianifico, dunque, le tappe del rientro, visto che i milletrecento chilometri che mi separano da casa vanno in qualche modo percorsi.

Oggi è il decimo giorno che sono via e mi sembra di essere vagabondolo da parecchio tempo. Questo per dire che, per viaggi di questo genere, non serve avere a disposizione molti giorni, anzi. A volte ne bastano cinque o sei, se ben gestiti, non serve avere davvero molto tempo libero per pianificarne uno. Certo, se son di più è meglio. Anche perché di solito funziona così, almeno per me: verso il settimo, ottavo giorno, c’è un momento di stanchezza fisica e mentale, perché i venti chilometri percorsi a piedi, mediamente, ogni giorno e i treni, gli spostamenti e i panini si fanno sentire. Ma è una modesta flessione, basta concedersi una pausa, un diversivo anche breve, e il momento passa rapidamente. Poi, è tutta discesa, nel senso che da quel momento potrei stare in giro per sempre.

Casa si fa sotto anche per vie traverse, un paio di telefonate con amici. Referendum? Che referendum? Ah, sì, qualcosa mi sovviene, eravamo in lockdown chiusi dentro casa ed era stato rimandato, giusto, ma di che si trattava? Ah, certo, la riduzione del numero dei parlamentari. Che ne penso, che ne pensiamo? Mah, difficile a dirsi, è già difficile normalmente, lo è ancor di più a guardare nuvole che corrono sulla linea dell’orizzonte del mare, le riflessioni sull’architettura costituzionale vengono meglio al tavolo, nello studio. Sì? No? Ne discutiamo, condividiamo incertezze, di fatto saremmo tutti per il no ma i dubbi si insinuano. Perché è un referendum fatto per mille altre ragioni che quella di far funzionare meglio il Parlamento. Di che si parla, dunque? E io come faccio a pensare ai parlamentari italiani con davanti una fontana con le foche?

Questo è un lavoro per il me stesso del futuro, ci penserà lui tra qualche giorno. Non io, non ora. Ora, nuvole.

Oggi è proprio una giornata da Van Loon di Francesco Guccini che, oltre a essere una canzone davvero eccezionale è, per me, anche fonte di memorie personali cui ripenso con parecchia nostalgia. Oplà.


L’indice di stavolta

giorno zero | giorno uno | giorno due | giorno tre | giorno quattro | giorno cinque | giorno sei | giorno sette | giorno otto | giorno nove | giorno dieci | giorno undici |

minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei focolai: giorno nove, concatenamento da irresponsabili, la vacanza tedesca al mare, l’onestà nel fare le cose

Primo giorno vero di Germania e piove. Ci sta, bello, per carità, il Baltico in effetti è bene che sia così, mi piace. Ma la Polacchia, se guardo qualche foto indietro, ha espresso tanti e tali cieli tersi e giornate luminose che oggi paiono saturate in modo irreale. Ieri sera a Stralsund decido di cenare in una taverna intitolata a Wallenstein, che cinse d’assedio la città nel 1628, durante la guerra dei Trent’anni, in virtù del suo titolo di comando di «Ammiraglio del Mare del Nord e del Mar Baltico» contro i perfidi svedesi. Vabbè, ognuno le cose se le sceglie per i propri motivi. Comunque, mi siedo nella taverna, ci saranno una quindicina di avventori, e percepisco un’aria un po’ strana da ritrovo di nerd il sabato pomeriggio per giocare con i pippolini fantasy e ai giochi di ruolo. Sarà perché più di un cameriere è vestito da boh, idea contemporanea di un tizio medievale? Comunque, arriva uno di loro e mi spiega, serissimo, che la regola della taverna è che le donne non devono parlare, almeno all’inizio, e che per prima cosa devono lavare con una catinella d’acqua le mani al proprio compagno. Mapporc… Giuro, gli scoppio a ridere in faccia. Ma che siete, ritardati? Non ci posso credere, lui ci rimane pure male, e ci mancherebbe!, mi alzo e me ne vado trascinandomi le balle che nel frattempo mi son cascate di sotto. In rete, recensioni entusiastiche, ma che divertente machedivertente. Sarò un peso io, immagino. Trovo un posto da barcaioli proprio sul molo e faccio il mio solito pieno di aringhe e di quei due pesci in croce che pescano qui, al nord. Poi sogno di soffocare per un boccone nella taverna di Wallenstein e che un nerd mi deve salvare facendomi la manovra di Himmler, rendendomi poi loro schiavo morale.

Oggi è la giornata dell’impresa: il concatenamento di non una, non due ma ben tre città anseatiche sul mar Baltico in una sola giornata: Stralsund-Rostock-Wismar. Fattori di difficoltà: sto tentando l’impresa in solitaria ed è una prima assoluta; il dislivello complessivo, se l’altimetro non mente, è di circa un metro, un metro e mezzo; le condizioni meteo sono del tutto avverse, tira vento e pioviggina qua e là; la sto affrontando in estiva, è vero, ma anche l’irraggiungibile Hermann Buhl sostenne che questa impresa in invernale sarebbe «da pazzi bavaresi»; lo sviluppo complessivo è di circa centosedici chilometri e ne coprirò buona parte con due treni regionali; due città su tre sono patrimonio Unesco riconosciuto, quindi richiedono tempo. Sono pronto, sono pronto, sono mesi che mi alleno per questo. Vado, dunque. Lascio Stralsund che, devo dire, è proprio una bella cittadina baltica, con il buffo municipio a pinnacoli che è un po’ la caratteristica di questo tipo di città – l’ho già visto a Lubecca e su su fino a Tallin – le mura e le torri, ampie piazze per i mercati, data l’assoluta natura commerciale di questi posti, e vado a Rostock. Che è la meno Unesco delle tre ma è quella con il porto più grosso ed è un tripudio di rimorchiatori e gru marittime sopra carri ponte. Una delizia.

Tutte queste città non offrono la fronte al Baltico aperto, sarebbe da pazzi, sono piuttosto annidate a poca distanza in qualche piccolo estuario o canale interno, in qualche svoltolo che offra un minimo di riparo. Ciò nonostante il fronte marittimo di Rostock è un enorme pontile in cemento lungo alcuni chilometri costellato di gru e di ormeggi per navi da rimorchio e da trasporto, il tutto battuto da un vento costante e, oggi, da pioggerellina orizzontale. E su questo pontile, un luna park con tanto di montagne russe e di autoscontro e una fila lunga qualche chilometro di camper allineati col muso verso l’acqua. I tedeschi sono venuti al mare. Stupendi, sono seduti con i loro tavolini in questo immenso parcheggio portuale, bevono birra alle dieci del mattino, qualcuno è già andato al luna park e manca solo uno stereo che trasmetta pezzi dei Rammstein o, magari, degli Scorpions. Ma io a questi voglio bene, altro che ai nerd ritardati, perché sono onesti, diretti, quel che vedi è quel che è, fanno ciò che gli piace senza la sovrastruttura culturale della vacanza entusiasmante da raccontare con cinquemila diapositive, o Instagram, peggio, si godono alcune cose qui come a casa. E non è che i nostri nell’area attrezzata camper di Igea Marina siano diversi, dico né meglio né peggio, o quelli che vedi mangiare nelle rotonde spartitraffico appena fuori Ravenna.

Il mare qui è talmente entusiasmante per brezzolina marina che serve la sedia apposita, quella di Thomas-Mann-al-mare, lubecchiano vero, quella del gentiluomo tedesco che passa una bella vacanza al mare contemplandolo e riflettendo sull’idea stessa di andare al mare. Se ne può parlare, senz’altro, ma bisogna tener conto che una larga fetta di mondo considera mare una cosa molto diversa da quella broda caldiccia, con tutti i pregi del caso, per carità, cui siamo abituati noi. Il nostro fascino del mare d’inverno è, in parte, il fascino del mare d’estate per altri.

E poi concludo felicemente il concatenamento: il cielo si apre e Wismar si mostra in tutta la sua bellezza. Non è Siena, per carità, dove basta entrare nel duomo per avere una crisi mistica permanente ma se il termine di riferimento è una città medievale e rinascimentale del mar Baltico con tutte le proprie cose a posto e, in questo senso, di grande bellezza, allora Wismar è magnifica. Con le rondini che sviano allegre sul mare, la città è davvero bella e i turisti l’hanno colto, giustamente.

Fatico a trovare un posto dove dormire ma, alla fine, lo trovo non troppo distante e a un prezzo a metà tra il ragionevole e l’irragionevole. Certi gabbiani marroni da combattimento volano sopra le teste e io, che conosco i miei pollastri crucchi appassiti il sabato sera, vado a mangiare a cinque e mezza e bon, buon dopocena a tutti.

Oggi, vedi il caso?, sto ascoltando a ripetizione Go your own way dei Fleetwood Mac che è sì una canzone molto nota ma è anche una canzone splendidamente scritta e arrangiata, in crescendo fin dalle prime battute e che ha, paradossalmente, nel ritornello (la parte più conosciuta, ovvio) il pezzo meno interessante.


L’indice di stavolta

giorno zero | giorno uno | giorno due | giorno tre | giorno quattro | giorno cinque | giorno sei | giorno sette | giorno otto | giorno nove | giorno dieci | giorno undici |