minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro. Tre su quattro. Dottori, architetti, pittori, cortigiani ma soprattutto Fe.

Parto dal fondo. È la prima notte, sono seduto sotto la loggia di fronte al palazzo ducale di Urbino, il palazzo di Federico da Montefeltro. Il cielo è nero e punteggiato di pallini luminosi che io, che vivo in Padania, non so che siano. Su ogni stipite di porta, portone, basamento di finestra, cornicione, formella, c’è scritto Fe.Dux, cosa che piaceva moltissimo al mio papà, che col duca condivideva sia il nome sia la passione per le dimore spaziose. Anche dentro è lo stesso, ogni camino, porta, sia lo stipite che l’intarsio stesso, cornice, riporta la stessa dicitura, il duca voleva che non se lo dimenticassero mai.

Tanto il salone è enorme quanto lo studiolo, il celeberrimo e magnifico studiolo, è minuscolo e raccolto. Vita pubblica e vita privata, politica e raccoglimento, studio. Non ho controllato, ci ho pensato solo ora, ma potrei scommettere qualcosina che lì Fe.Dux non ci sia. Non ce n’era bisogno. Ma son vagheggiamenti.

Sono qui fuori, dicevo, e davanti al palazzo rotolano e svolazzano bicchieri di plastica, sacchetti, nastri colorati, il vento li spinge nell’angolo. Sono il resto delle innumerevoli lauree, brevi, brevissime e spero anche lunghe il normale, che oggi ho visto per la città. Corona d’alloro immancabile, vestiti da matrimonio sulla Tiburtina, sneakers intonse per i maschi e tacchi insensati per le donne, bottiglie di rosé di marca, fotografie a migliaia tutte da telefono, amici e amiche dedite al rituale organizzato come fosse un addio al celibato o nubilato. Non mancano vestiti da fenicottero rosa per il laureato/a, di quelli che si trovano su amazon, giochini con i passanti per il reciproco imbarazzo e ancora meno manca l’immancabile coro: dottore/ssa delbucodelcùl. Non c’è niente di male, intendiamoci, bene questo piuttosto che il silenzio. Il male, secondo me, è che sono tutte, tutte, tutte uguali. Identiche. Certo, è un rito, e per se stesso non deve mutare, l’atto performativo ha avuto luogo e tutto va come deve andare, d’accordo. Però è un entusiasmo un po’ stanco, una felicità spentina, o così almeno a me pare. Si fa perché si deve, così non ci si deve pensare. È meno faticoso.

Comunque, hai voglia a scrivere Fe.Dux per ricordarlo ai tuoi sudditi ma, soprattutto, per farlo sapere al futuro e poi questo futuro è pieno di dottori del buco del culo. Come quando al Cairo un paio d’anni fa hanno trovato una colossale testa di Ramsete secondo scavando le fondamenta di un palazzo e uno degli operai si faceva le foto facendo il segno di vittoria seduto sulla faccia, oh: sulla faccia, del faraone. Ci si può anche provare ma il tempo è implacabile, arriva sempre un piccione a cagare sulla tua enorme magnifica poderosa autorevolissima statua.

Ai tempi di Federico, però, i dottori qui non c’erano, né del bucodelculo né di altro. Fu quel minchione di suo figlio Guidobaldo, bravo a far la guerra ma che lasciò estinguersi la dinastia, a fondare l’università. Però Federico ce l’ha fatta lo stesso a guadagnarsi un posto nella memoria dei posteri, noi. E non per quel Dux scritto dappertutto ma perché, oltre a una faccia, anzi a un profilo con quel naso che non è una salita, è un precipizio, oltre a questo costruì una città che è un’idea, tanto bella da stupire ancora oggi, e la riempì di pittori, pitture, scrittori e letterati, libri e poesia, commediografi. Anche fortuna, certo, visto che tra i pittori uno dei più grandi gli nacque pure in casa, ma era evidentemente figlio anche di un clima e di un contesto. E per lo stesso motivo, uno dei più grandi architetti del Rinascimento a pochi chilometri da qui. Tutta la faccenda, comunque, durò poco: a Guidobaldo successero i della Rovere, che avevano dalla loro il papa fresco di conclave, quel papa terribile ritratto da Raffaello vecchietto e spento, ci fu la parentesi dell’altro figlio di papa, Cesare Borgia, brevissima, poi tornò Guidobaldo per poco e poi tutto fu incamerato dal papato. Però furono anni belli, sontuosi e ricchi di conoscenza e cortesia, come racconta Castiglione alla corte di Eleonora Gonzaga, moglie di della Rovere. Guardo il palazzo e faccio mente locale su ciò che mi ricordo, cerco di ordinare le nozioni, alcune intoccate da decenni. Il processo è però sempre più infruttuoso man mano che il bianchello del Metauro si fa strada e la fame sopravviene. Le occasioni di lavoro sono sempre una magnifica possibilità e aver scambiato i giorni festivi con un paio di quelli feriali ogni settimana sta dando grandi risultati: nel palazzo ducale faccio in sostanza una visita privata – ci sono due signori, accidenti – e in trattoria siamo in tre. La stessa Urbino, di solito percorsa da fiumane, è deserta di turisti e le presenze sono quelle abituali, abitanti e studenti.

Ancor più bello che guardare da dentro questo tipo di città è inerpicarsi per qualche colle vicino e guardarle tutte insieme, goethianamente. Raggiungo la fortezza Albornoz, trovo il posto tra le pratoline e poi è tutto facile.

Talmente che pure m’addormo. Poi circumnavigo i colli attorno e vado dall’altra parte, dove c’è una chiesuola da niente (si vede in alto a sinistra nella foto qui sopra) che, però, contiene le tombe di Federico, di Guidobaldo e dello zio Oddantonio. Dall’interno si vede tutta la città ed è bello che abbiano voluto essere sepolti in modo da poter guardare per sempre la loro placida città, che tanto amarono e per la quale tanto fecero.


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uno | due | tre | quattro

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro. Due su quattro. Duemila anni di sviluppo altoadriatico spiegati da me che ho fatto l’università della strada.

Passando Rimini è come voltare un angolo e cambiare strada: il centro di gravità permanente non è più Bologna ma Roma. Sarà che siamo sulla via Flaminia, sarà che tutte le strade portano lì, sarà che le valli appenniniche, ortogonali alla costa, vanno in quella direzione, sarà che i cartelli stradali indicano quella destinazione. Alla fine, è la stessa strada che percorse il disgraziato papa Mastai Ferretti che da Senigallia finì a porta Pia a far da ultimo papa re. L’accento si sposta decisamente verso il romano, pur con le inflessioni locali da mevòiscipparculo?, appaiono i friarelli broccoletti, la cicoria passata, molti che vogliono lavorare devono scavalcare l’Appennino. Perché sono duemila anni che per la valle tiberina i collegamenti con Roma sono semplici, per molti secoli andare dall’Urbe a Fano fu il solo modo per venire al nord, agganciandosi alla via Emilia e tirando dritto fino a Milano, crocevia delle vie del nord. Persino quel retrogrado del papa fece subito la propria ferrovia, la Pio Centrale, da Roma ad Ancona, tanto era naturale.

Oggi i miei obbiettivi sono due, cioè sono due le cose che imparerò: cosa diavolo è il Metauro e la sua piana, quella dei trentamila morti romani contro Asdrubale, e la partita era davvero capitale, e che Senigallia non è in Puglia. Quella è Gallipoli, sono confuso dalla fonetica, e qui D’Alema non viene. Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, tutta una dorsale strategica romana di grande importanza e storia: dal porto di Ancona, progettato da Apollodoro di Damasco, alla basilica di Vitruvio a Fano al ponte di Tiberio a Rimini e poi tutto un fiorire di teatri, anfiteatri, mura, castra e domus a punteggiare, ma con regolarità, la costa. Ed ecco come funziona, più o meno. A un quadrato o rettangolo cittadino romano, costruito a una certa distanza di sicurezza dal mare, si sovrappose poi la città medievale, mantenendo e innalzando le mura cittadine e le porte, conservando ponti e decumani. Di solito, in un angolo delle mura veniva costruita una rocca, probabilmente su precedenti strutture militari, un palazzo comunale in centro, poi ducale e poi ancora comunale. Idem durante Rinascimento e secoli successivi, più o meno è rimasto tutto così, magari una villa qua e là, a seconda dei tempi, se turbolenti o meno. Che poi ci fossero i Malatesta di Rimini, i Malatesta di Fano, i della Rovere, il duca Valentino, i Montefeltro o gli Sforza o il papa, poco cambiava da questo punto di vista. Nel 1863, poi, il regno d’Italia, fresco fresco, iniziò la costruzione della ferrovia adriatica e gli ingegneri la fecero passare nel posto più comodo, ovvero a ridosso delle mura, tra le città e il mare. Con il treno, nei primi anni del Novecento fu un fiorire di villeggiature marittime in splendide ville liberty, tutte costruite a ridosso della ferrovia, mantenendo la pineta tra le case e il mare. Poi arrivò lo sviluppo turistico, quello della sabbia di velluto di Senigallia, ben prima di quei parvenu di Rimini e Riccione, via la pineta, alcune ville liberty e giù di condominii praticamente fin sulla sabbia. Ed così che dal centro città per andare al mare, e parlo di quasi tutte le città tra Pesaro e Ancona, si deve: arrivare alle mura, sottopassare la ferrovia, che è un taglio sociale mica da poco, attraversare una breve fascia di belle ville, se ancora ci sono, poi una fascia più lunga di baretti, locali, alberghi a condominio, tutto anni Sessanta, per poi trovare un varco tra i bagni privati per arrivare, finalmente, al mare.

Rimini, lo so che non lo si sospetterebbe, è bellissima. Basti dire il tempio malatestiano, le pescherie e il palazzo ducale, ma ce n’è. Di Pesaro ho detto ieri. Fano, complice la Fortuna che la accompagna da sempre, è graziosa e ha certo avuto momenti sontuosi nella storia, sia romana come dicevo, sia successiva. Le tombe dei Malatesta, deposte nella scoperchiata chiesa di San Francesco, stanno lì a mostrarlo, e la firma è di Leon Battista Alberti, LBA, mica paglia. E se Vitruvio non c’è più, la memoria resta e restano pure molti resti, perché della pentapoli Fano era la capitale. E oggi, tra l’altro, c’è il carnevale, che qui ovviamente considerano superiore a quello di Rio. E di Viareggio e Venezia, figuriamoci. Proseguo il concatenamento verso Senigallia, che non è in Puglia, e lì la struttura è simile, fu la prima colonia romana sull’Adriatico, poi malatestiana, roveresca, con la differenza che ha un fiume, il che ne condizionò favorevolmente la vocazione commerciale. Anche se oggi è profondo forse quindici centimetri. E del turismo ho detto, con Cortina ebbe la prima azienda turistica del paese. E un papa, duraturo e disgraziato, fu quello dei bersaglieri e del non expedit e anche, sciagurato, quello della Repubblica romana. Che la si poteva chiudere felicemente vent’anni prima.

Il mare d’inverno, l’Adriatico in particolare, suscita in me un fascino particolare. Sia per tutta la vita che pare andata via per un momento, promettendo di tornare presto, sia per una certa malinconia ben raccontata da de Andrè. Che poi la malinconia qui è letteratura, è solo perché è chiuso quel che riguarda il mare ma per il resto c’è vita, le calamite da frigo ci sono ancora. Si mangia bene, son cordiali e abituati al foresto, basta rientrare di pochi chilometri che il paesaggio diventa completamente un’altra cosa, basta puntare il dito su una cartina, seee, che posti belli ne saltan fuori a bizzeffe. Non s’è visto, finora?


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro. Uno su quattro. Le emme: mobili, motori, musica.

Un’occasione di lavoro e via. Dico ‘occasione’ perché lo sono proprio, una trattativa veloce, dovremmo vederci, videoconferenza? non scherziamo: vengo da voi. Ovunque c’è possibilità di attaccarci qualcosa, luoghi, giri, panorami, io vado sempre anche se poi il lavoro non lo prendo. Un castelletto, una chiesuola, un palazzetto, un mare o montagna salta fuori sempre. Stavolta è Pesaro, mi ci butto al volo. A seconda delle generazioni, l’associazione immediata è a Rossini o, come capita a me, alla Scavolini. La cucina degli italiani, intendo, come diceva la soubrette sovranista. Belli gli anni della Scavolini Pesaro e qui intendo il basket, hanno un palazzetto da far invidia, oggi sovradimensionato. Dicono qui che il covid sia arrivato a Pesaro con la coppa Italia di basket del 2020, a febbraio. Partite, cene e via, molti ci hanno lasciato le penne, raccontano. La coppa Italia c’è anche ora, talmente il posto è strutturato, ma manca la squadra di casa, lontana dai fasti del tempo delle cucine, oggi è di un industriale del prosciutto. Andrò stasera, son qui, ci mancherebbe. Il covid c’è ancora ma almeno adesso lo sappiamo.

I tempi belli, qui, almeno tra quelli recenti, sono quelli dei mobili: Berloni, Febal, Scavolini, erano centinaia, moltissimi operai, fabbriche, vendite in tutto il mondo e fatturati colossali. Oggi ne son rimaste poche e, mi spiegano, lavorano per Ikea e Mondo convenienza secondo il modello globale: i grandi marchi ti ricoprono progressivamente di lavoro, così tu industriale molli le altre commesse, converti tutto per produrre per loro e solo allora i colossi dettano le condizioni, spesso capestro. Ma a quel punto c’è poco da fare, non sei più sul mercato. E la Benelli? Eccome, la Benelli, motori e corse, tradizione ormai secolare, passando per Morbidelli, padre e figlio, e Rossi, a pochi chilometri da qui. La fabbrica, la Benelli intendo, l’han tirata giù, stava tra la città e il mare, c’era pure l’anello di collaudo, mi dicono bellissimo. Han fatto il museo ma nella fabbrica avrebbero potuto fare grandi cose, un polo fieristico per riprendersi il predominio locale, ora saldamente in mano a Rimini. Ecco un punto. Sembra Romagna, l’accento è diverso ma non troppo, fanno la piadina, il mare ha quel colore, corrono uguale ma è un altro mondo, se uno guarda bene fino in fondo, e si scocciano se vengono confusi, giustamente: sono Marche, altra cosa, Malatesta, Montefeltro, il baricentro è altrove. Quanti parlano di Valentino Rossi pilota romagnolo, buonanotte.

Le colline arrivano al mare, e sono i primi rilievi da Trieste in qua, i villini liberty, quelli rimasti, rimandano a un’epoca in cui la villeggiatura contemplava pochi bagni e molti ombrellini, l’hotel Bristol anche, quando gli inglesi portarono da noi l’idea stessa della villeggiatura, perché qui al massimo si coltivava sopra e si pescava sotto, il diletto era una cosa sentita dire. È vero che la stagione musicale rossiniana ora dura sì e no una settimana concentrata, mentre una volta cinquanta giorni, e porta poco a sentire qualche oste, però ai tavolini del bar ci sono persone che discorrono di opera, molti hanno custodie di strumenti musicali, ogni cittadina ha un teatro molto più grande del Comune, i manifesti degli spettacoli sono ovunque, Eros Pagni con l’Enrico IV in questi giorni, si percepisce che sono cose che si respirano fin da piccoli. Sarà niente ai tempi nostri ma a me, poco abituato, pare ancora molto.

È proprio la città della musica

In un posto che si chiama proprio piadinificio mi portano una piadina, ovvio, con fare rituale e atteggiamento mistico, come mi stessero portando qualcosa di consacrato. Naturalmente non dico che a me piacciono i primi due morsi, poi godo meno, piglio e mangio zitto zitto. La casa di Rossini è poco più avanti, molti negozi hanno la ragione sociale presa da arie del maestro, pure le lavanderie richiamano il Barbiere. Figaro. D’altronde pure la Tebaldi era di qui, anche se quasi tutti la pensano di più su, di Forlani non parla nessuno, maledetta schiumetta agli angoli della bocca. Però i giardinetti pubblici intitolati a Bettino Craxi ci sono, devono avere avuto dei trascorsi politici movimentati, negli ultimi anni. I figli non han più la passione, mi dice il geometra dalla bella casa, e forse ha ragione, almeno riguardo a ciò cui sta pensando lui. O, almeno, non hanno le stesse passioni, meno tradizionali. Io ne ho ma mi riconosco, come figlio di cui parla, non le seguo in modo verticale. Lo lascio dubbioso e, probabilmente dandogli ragione, me ne vado al palazzetto, spensierato a metà.


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Una copertina di fine ottobre di Time pone l’accento sulla possibilità, che incoraggio, di uscire da FB e di cancellare il proprio account.

Il che per carità andrebbe anche bene. Meno bene va la rappresentazione della notifica mobile con il cursore del mouse ma occorre non perdere il punto. E comunque, pare che android, quindi il telefono, tolleri piuttosto bene un mouse. Provare.

una certa qual distanza tra ciò che si è e ciò che si pensa di essere

Da un paio di capodanni a questa parte, suscitando un certo fastidio nel paese, alcuni russi ci pigliano strepitosamente per il culo per quello scollamento evidente a tutti tranne che a noi per cui ci percepiamo come i nipoti di Michelangelo – come se fosse ereditario – e ci comportiamo e vestiamo, invece, come i cugini incestuosi del Bagaglino. Ecco i russi.

Ed ecco alcune immagini di un programma che è andato in onda questa settimana, raccogliendo il 54, cinquantaquattro, c-inn-qqua-nnt-aquu-at-tttr-o per cento dello share.

A ben guardare, i russi sono stati fin pacati nella parodia. Il nostro orizzonte estetico attuale è, secondo me, molto vicino a certi bar polacchi a Cracovia, tutti oro e pastello, con gelato dopato all’anidride. Face the reality.

la sora Ceciarelli

Ciao, Monica Vitti. Mi ci ero affezionato, quel lato comico irresistibile che dalla ragazza con la pistola in poi fu buona parte di lei:

Vedi tu Nello me piaci perché sei moderno, personale, fresco, non romano e, come tale, hai un ideale nella vita, eh! Tu Oreste c’hai l’attrazione dell’omo fatto, sei generoso, morto riccio, forte. ‘Nsomma me piaci. Ma tutte e due c’avete diversi rovesci d’a medaglia.

E poi il tantino poco igienico, sublime sulla cima di monte Testaccio:

Tu sei geloso, materiale, arzi subito le mani come tu’ moje d’altronde, vizio de famija… e sei pure un tantino poco igienico. Quella vorta a Frascati, te ricordi? Facesti pure un rumore.

Ma era tante cose, ottima attrice drammatica, ottima doppiatrice, quante parti ha salvato, persona simpatica e gentile, donna bellissima e affascinante. Mancava già da tempo, ora di più.

Adelaide: Oddio! Me moro…
Nello: Adelaide…
Adelaide [rivolta a Nello]: Te perdono…
Nello: Non sono stato io. È stato lui!
Adelaide [rivolta a Oreste]: Te? Te pozzino ammazzatte!
Oreste: Ma come a lui “te perdono” e a me “te pozzino… ammazzatte”…
Adelaide [ultime parole]: A te te amo de più! [muore]

oggi santo domani ostacolo

Trenta milioni di italiani di più di cinquant’anni e uno solo che, diciamo, non lo voleva fare. Com’è andata a finire?
Ovvio, Mattarella, ancora. Non che fosse difficile, l’avevo scritto due mesi fa sulla porta della cucina, non era complicato da prevedere. Ma perché era prevedibile la sconfitta della politica, di questa classe dirigente, uno stato perdurante di cose: rieleggere per la seconda volta consecutiva il presidente della repubblica è sintomo di grande debolezza e incapacità, fare poi leva sull’umana disponibilità di una persona che ti levi le castagne dal fuoco è ancora peggio. Peraltro eleggendolo ora come salvatore della patria per farlo diventare, tra due anni, un ingombro da levare, trasformando così la carica più alta in un mandato a scadenza contro una durata legale. Certo, se poi il ruolo di regista lo si lascia a Salvini, arrivederci. Ma non è che altrove abbiano brillato, l’immagine di Casellati che, ormai perduta l’occasione, gioca col telefono durante lo scrutinio che sta presiedendo dice moltissimo su di lei e la compagnia bella. Poteva andare molto molto meglio.