La zona è complicata, si è capito. E non da oggi. Ma lo è anche per un turista? Anticipazione: no, non direi. Esistono voli economici per la Georgia, Tbilisi e Kutaisi, la seconda ottima base di partenza per il Grande Caucaso, ma se si desideri vedere anche l’Azerbaijan allora, già lo dicevo, tocca entrare da Baku, più costoso. Da quanto si dice, le frontiere azerbaigiane riapriranno non appena la situazione in Ucraina sarà risolta, speriamo non manchi molto tempo. La linea ferroviaria principale è la Baku-Batumi, da un mare all’altro, mentre a Yerevan si arriva col pullman (o si parte, arrivando qui col volo). Le linee ferroviarie minori, funzionanti sotto l’URSS, ora sono in sostanza dismesse, alcune in recupero. In ogni centro, fino ai medio-piccoli, si trovano persone con un pullmino che organizzano giri nei dintorni per poco. Taxi ovunque, anche informali, usando le app il prezzo è già fissato e non c’è da discutere in lingue strane. Specie fuori dalle capitali, tocca un po’ arrangiarsi con i posti dove dormire e in alcuni casi fare più di una pieghina. Il mangiare è buono ovunque, frutta e verdura eccellenti, a voler trovare un difetto è un’alimentazione un poco ripetitiva. Ma io lo sono, quindi andato a nozze, a parte il coriandolo, noioso. A chiedere un po’ in giro, molte famiglie ospitano a pranzo e ho sempre mangiato molto e bene. Le carte funzionano nei grandi centri, al solito, fuori meno, banche e ATM ovunque. Le linee telefoniche sorprendenti, prendono ovunque anche nel nulla apparente, per cui una esim è una buona soluzione. Contesto? Tutto tranquillo, mai nessun pericolo reale o percepito, anche i locali confermano, l’unica indicazione in tal senso è stata a Baku, in cui mi hanno raccomandato di “non stare al buio”. Il che a Baku è pressoché impossibile, persino la terra brucia da sola. I prezzi come sempre in questi paesi dipendono da ciò che si compra: un espresso costa giustamente un botto, un cristo di legno a grandezza naturale pochissimo, nei paesi cristiani.

La Georgia è più facile, è la più varia dal punto di vista naturalistico, la più verde e rigogliosa, quella più vicina a noi per tensione, i georgiani si considerano europei e il paese ha chiesto tempo fa di entrare nell’UE. Sia per ovvie e comprensibili ragioni di sopravvivenza geopolitica che per vicinanza culturale. Non c’è da stare granché tranquilli con quei confini lì, i georgiani con cui ho parlato, comunque, hanno l’atteggiamento di chi nella storia i russi li ha già combattuti molte altre volte, lo rifaremo, dicono. E l’ultima è nel 2008, mica secoli fa, hanno ben di che dirlo. Eh, il culo di chi come noi è nato da un’altra parte e non ne ha idea. Nel libro sulla storia del Caucaso che sto leggendo ora c’è una considerazione che dice molto del temperamento dei georgiani, la riporto: “Se Stalin fosse stato piú georgiano – leale nei confronti degli amici e della famiglia; giusto e retto all’eccesso; memore dei debiti contratti; sollecito degli interessi del natio Caucaso -, il XX secolo sarebbe potuto essere un po’ meno tragico”. Si può fare anche solo quella ma si perde molto della visione complessiva della regione.

È stupefacente quanto le persone in Europa confondano Caucaso con Balcani e ne facciano tutt’uno. E quanto ne abbiano un’idea men che approssimativa. E sì che Cecenia, Georgia, Ossezia sono nelle cronache recenti, e sì che un venditore di tappeti armeno fino a qualche anno fa c’era in ogni città o quasi, e sì che magari una messa o un matrimonio a San Gregorio degli Armeni capita, idem un giro per presepi a Napoli nella nota via, eccetera. La stessa finale di campionato di pallacanestro di quest’anno è stata vinta da un giocatore georgiano quasi da solo. E sì che ‘La masseria delle allodole’ gode di successo continuato. Comunque, Kusturica c’entra poco o niente, se non per un periodo comune di dominazione ideologica.

È un viaggio che consiglio caldamente, a questo punto: se dal punto di vista naturalistico il Grande Caucaso mantiene ogni aspettativa, anche molto alta, anche il resto dei tre paesi ha varietà e bellezza, spaziando dal deserto del niente alle valli boscose e fiumose; anche per cultura è una zona complessivamente ricchissima che nulla ha di meno di luoghi ben più celebrati e non manca certo di complessità. Date le relative distanze, non eccessive, è un viaggio anche meno complicato di altri, logisticamente. Dal punto di vista enogastronomico anche, per chi scelga in base a quello, basti dire che pare che il vino sia nato là. Per chi come me si gode certamente la natura ma ha bisogno dell’elemento umano è un ottimo posto dove andare. Più dò una dimensione complessiva al mio viaggio e più esso risulta uno dei più importanti, densi e stimolanti che io abbia fatto, raramente ho appreso così tanto in così poco tempo e spazio.
Non è mica stato facile, per essere chiaro. È il posto più complicato del mondo, non esagero, nemmeno l’Asia centrale è così, là almeno gli spazi sono diluiti e tutto è meno compresso. Sono stato travolto da storia, conflitti, convivenze, opportunità, opportunismi, visioni opposte, bugie e omissioni, per meglio spiegare riporto un pezzo dell’introduzione al libro da mille pagine che sto leggendo ora – impossibile leggerlo a secco, va letto una volta tornati -, Charles King, Il miraggio della libertà. Storia del Caucaso, Torino, Einaudi, 2008:
“Questo libro cerca di dare un senso a una parte di mondo apparsa negli ultimi vent’anni: la quintessenza dell’insensatezza. Un mondo nel quale governi non hanno avuto remore nel bombardare i propri cittadini; terroristi hanno sequestrato scuole e ospedali; atti di ospitalità disinteressata e crudeltà orribile sembrano essere le due facce della stessa medaglia culturale. Questa è una storia del Caucaso moderno come entità geografica dall’inizio del coinvolgimento russo sino ai nostri giorni. Ma è anche una storia del Caucaso quale coacervo di idee contrastanti: di libertà e di sregolatezza, di atti e fatti sbalorditivi e terrificanti”.
Ecco. Accanto al terrificante c’è lo sbalorditivo, è importante, è l’insieme che colpisce, l’alto e il basso, il giusto e l’ingiusto. Nel mio progetto di viaggio nelle zone più stratificate del mondo, in cui popolazioni e storia abbiano mescolato ripetutamente tutte le carte, il Caucaso guadagna subito il podio, per non dire di più. Uzbekistan e Tajikistan al confronto, retrospettivamente, paiono vicende lineari, spiegabili in prima.

Come si torna, come torno io da questi viaggi, da quelle che il mio amico E. chiama “le tue per nulla riposanti vacanze”? Sono onesto, ha ragione, ho bisogno di una vacanza, ora. Di dormire, molto. Di qualche stimolo tensivo in meno, religioso, politico, sociale. Torno più consapevole, certo, ma anche più rassegnato al fatto che alcune cose non hanno soluzione e che le vite umane non bastano, una cosa raddrizzata durerà un po’, poi cambierà. Che nulla persiste, il che è molto difficile da capire per noi europei fortunati: non durano le democrazie, non durano i confini, non dura nemmeno il clima. Putin lo sa, in Ucraina, un pezzo ora e uno tra trent’anni, lui da russo ha quella dimensione lì, noi no, per noi è già durata troppo. E vorremmo chiuderla definitivamente, illusi. È un po’ il contraltare del viaggio, della ricerca della comprensione dell’umano e della storia, la disillusione. Almeno collettivamente, non individualmente. Si finisce in una dimensione temporale talmente lunga che il contingente diventerebbe trascurabile, non ci fosse quell’impiccio della breve durata delle nostre vite. Vabbè, l’ho fatta come sempre lunga, torno alle cose quotidiane, l’aereo è arrivato e io ora comincio la mia vacanza, se riesco. Grazie a chi ha seguito.
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