minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: tredici, conclusione

La zona è complicata, si è capito. E non da oggi. Ma lo è anche per un turista? Anticipazione: no, non direi. Esistono voli economici per la Georgia, Tbilisi e Kutaisi, la seconda ottima base di partenza per il Grande Caucaso, ma se si desideri vedere anche l’Azerbaijan allora, già lo dicevo, tocca entrare da Baku, più costoso. Da quanto si dice, le frontiere azerbaigiane riapriranno non appena la situazione in Ucraina sarà risolta, speriamo non manchi molto tempo. La linea ferroviaria principale è la Baku-Batumi, da un mare all’altro, mentre a Yerevan si arriva col pullman (o si parte, arrivando qui col volo). Le linee ferroviarie minori, funzionanti sotto l’URSS, ora sono in sostanza dismesse, alcune in recupero. In ogni centro, fino ai medio-piccoli, si trovano persone con un pullmino che organizzano giri nei dintorni per poco. Taxi ovunque, anche informali, usando le app il prezzo è già fissato e non c’è da discutere in lingue strane. Specie fuori dalle capitali, tocca un po’ arrangiarsi con i posti dove dormire e in alcuni casi fare più di una pieghina. Il mangiare è buono ovunque, frutta e verdura eccellenti, a voler trovare un difetto è un’alimentazione un poco ripetitiva. Ma io lo sono, quindi andato a nozze, a parte il coriandolo, noioso. A chiedere un po’ in giro, molte famiglie ospitano a pranzo e ho sempre mangiato molto e bene. Le carte funzionano nei grandi centri, al solito, fuori meno, banche e ATM ovunque. Le linee telefoniche sorprendenti, prendono ovunque anche nel nulla apparente, per cui una esim è una buona soluzione. Contesto? Tutto tranquillo, mai nessun pericolo reale o percepito, anche i locali confermano, l’unica indicazione in tal senso è stata a Baku, in cui mi hanno raccomandato di “non stare al buio”. Il che a Baku è pressoché impossibile, persino la terra brucia da sola. I prezzi come sempre in questi paesi dipendono da ciò che si compra: un espresso costa giustamente un botto, un cristo di legno a grandezza naturale pochissimo, nei paesi cristiani.

La Georgia è più facile, è la più varia dal punto di vista naturalistico, la più verde e rigogliosa, quella più vicina a noi per tensione, i georgiani si considerano europei e il paese ha chiesto tempo fa di entrare nell’UE. Sia per ovvie e comprensibili ragioni di sopravvivenza geopolitica che per vicinanza culturale. Non c’è da stare granché tranquilli con quei confini lì, i georgiani con cui ho parlato, comunque, hanno l’atteggiamento di chi nella storia i russi li ha già combattuti molte altre volte, lo rifaremo, dicono. E l’ultima è nel 2008, mica secoli fa, hanno ben di che dirlo. Eh, il culo di chi come noi è nato da un’altra parte e non ne ha idea. Nel libro sulla storia del Caucaso che sto leggendo ora c’è una considerazione che dice molto del temperamento dei georgiani, la riporto: “Se Stalin fosse stato piú georgiano – leale nei confronti degli amici e della famiglia; giusto e retto all’eccesso; memore dei debiti contratti; sollecito degli interessi del natio Caucaso -, il XX secolo sarebbe potuto essere un po’ meno tragico”. Si può fare anche solo quella ma si perde molto della visione complessiva della regione.

È stupefacente quanto le persone in Europa confondano Caucaso con Balcani e ne facciano tutt’uno. E quanto ne abbiano un’idea men che approssimativa. E sì che Cecenia, Georgia, Ossezia sono nelle cronache recenti, e sì che un venditore di tappeti armeno fino a qualche anno fa c’era in ogni città o quasi, e sì che magari una messa o un matrimonio a San Gregorio degli Armeni capita, idem un giro per presepi a Napoli nella nota via, eccetera. La stessa finale di campionato di pallacanestro di quest’anno è stata vinta da un giocatore georgiano quasi da solo. E sì che ‘La masseria delle allodole’ gode di successo continuato. Comunque, Kusturica c’entra poco o niente, se non per un periodo comune di dominazione ideologica.

È un viaggio che consiglio caldamente, a questo punto: se dal punto di vista naturalistico il Grande Caucaso mantiene ogni aspettativa, anche molto alta, anche il resto dei tre paesi ha varietà e bellezza, spaziando dal deserto del niente alle valli boscose e fiumose; anche per cultura è una zona complessivamente ricchissima che nulla ha di meno di luoghi ben più celebrati e non manca certo di complessità. Date le relative distanze, non eccessive, è un viaggio anche meno complicato di altri, logisticamente. Dal punto di vista enogastronomico anche, per chi scelga in base a quello, basti dire che pare che il vino sia nato là. Per chi come me si gode certamente la natura ma ha bisogno dell’elemento umano è un ottimo posto dove andare. Più dò una dimensione complessiva al mio viaggio e più esso risulta uno dei più importanti, densi e stimolanti che io abbia fatto, raramente ho appreso così tanto in così poco tempo e spazio.

Non è mica stato facile, per essere chiaro. È il posto più complicato del mondo, non esagero, nemmeno l’Asia centrale è così, là almeno gli spazi sono diluiti e tutto è meno compresso. Sono stato travolto da storia, conflitti, convivenze, opportunità, opportunismi, visioni opposte, bugie e omissioni, per meglio spiegare riporto un pezzo dell’introduzione al libro da mille pagine che sto leggendo ora – impossibile leggerlo a secco, va letto una volta tornati -, Charles King, Il miraggio della libertà. Storia del Caucaso, Torino, Einaudi, 2008:

“Questo libro cerca di dare un senso a una parte di mondo apparsa negli ultimi vent’anni: la quintessenza dell’insensatezza. Un mondo nel quale governi non hanno avuto remore nel bombardare i propri cittadini; terroristi hanno sequestrato scuole e ospedali; atti di ospitalità disinteressata e crudeltà orribile sembrano essere le due facce della stessa medaglia culturale. Questa è una storia del Caucaso moderno come entità geografica dall’inizio del coinvolgimento russo sino ai nostri giorni. Ma è anche una storia del Caucaso quale coacervo di idee contrastanti: di libertà e di sregolatezza, di atti e fatti sbalorditivi e terrificanti”.

Ecco. Accanto al terrificante c’è lo sbalorditivo, è importante, è l’insieme che colpisce, l’alto e il basso, il giusto e l’ingiusto. Nel mio progetto di viaggio nelle zone più stratificate del mondo, in cui popolazioni e storia abbiano mescolato ripetutamente tutte le carte, il Caucaso guadagna subito il podio, per non dire di più. Uzbekistan e Tajikistan al confronto, retrospettivamente, paiono vicende lineari, spiegabili in prima.

Come si torna, come torno io da questi viaggi, da quelle che il mio amico E. chiama “le tue per nulla riposanti vacanze”? Sono onesto, ha ragione, ho bisogno di una vacanza, ora. Di dormire, molto. Di qualche stimolo tensivo in meno, religioso, politico, sociale. Torno più consapevole, certo, ma anche più rassegnato al fatto che alcune cose non hanno soluzione e che le vite umane non bastano, una cosa raddrizzata durerà un po’, poi cambierà. Che nulla persiste, il che è molto difficile da capire per noi europei fortunati: non durano le democrazie, non durano i confini, non dura nemmeno il clima. Putin lo sa, in Ucraina, un pezzo ora e uno tra trent’anni, lui da russo ha quella dimensione lì, noi no, per noi è già durata troppo. E vorremmo chiuderla definitivamente, illusi. È un po’ il contraltare del viaggio, della ricerca della comprensione dell’umano e della storia, la disillusione. Almeno collettivamente, non individualmente. Si finisce in una dimensione temporale talmente lunga che il contingente diventerebbe trascurabile, non ci fosse quell’impiccio della breve durata delle nostre vite. Vabbè, l’ho fatta come sempre lunga, torno alle cose quotidiane, l’aereo è arrivato e io ora comincio la mia vacanza, se riesco. Grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: dodici, monasteri, templi e cattedrali

In un periodo di rapporti tesi tra URSS e Turchia – a proposito, non avevo mai compreso quanto la vicinanza tra i due imperi avesse creato situazioni di conflitto, si contano almeno dodici guerre russo-turche tra 1568 e 1922, alcune durate quattordici anni -, negli anni Sessanta da Mosca arrivò il via libera alla costruzione di un mausoleo per ricordare il genocidio degli armeni del 1915 per mano appunto turca ed eccomi qui: un bel mappozzone con rampa di lancio missilistica e piramide doppia incastonata, con fiamma eterna e muro dei giusti. E a me piacciono pure questi cosi.

Tra i giusti, Werfel per i suoi giorni del Mussa Dagh, serve però dire che come sempre le cose non stanno tutte da una parte sola: in Azerbaijan ricordano il genocidio degli azeri per mano armena, di sicuro a Baku pochi anni prima di sangue ne scorse molto, di sicuro gli armeni nel mondo – in Italia in particolare – godono di buona stampa, Arslan per esempio. Non voglio togliere nulla, per carità, segnalo solo come vista da qui sia enormemente più complicata, non si può esser mai certi di quel che si sente o si legge, senza conoscere gli interessi dell’interlocutore. E di sicuro ci furono di mezzo anche i greci e gli assiri cristiani, decimati anche loro. Gli stessi ottomani persero quattrocentomila uomini nella manovra di accerchiamento anglo-russa tra il 1915 e il 1917, allo scopo di eliminare la loro presenza nel Grande Oriente. Per dire che qua è un vero casino, detta alla storica. Dietro il mausoleo, una distilleria di quel càgnac di cui vanno molto fieri e che devono chiamare brandy per ragioni di marchi depositati.

Uscendo da Yerevan, strepitoso il monastero di Geghard o Gaghard, va’ a sapere, al termine di un canyon e le cui tre chiese sono scavate nella roccia, l’effetto Indiana Jones è assicurato. Butto qui ma non è che renda granché.

A seguire, a Garni, il motivo per cui sono venuto in Caucaso, volevo vederlo: il tempio greco più a oriente in assoluto. Qui lo chiamano ‘tempio pagano’, mai greco, e la cosa mi fa sorridere.

Mi son proprio detto: ma io questo devo vederlo! Tra l’altro, è in una posizione clamorosa, al culmine di tre canyons profondi e incurvati, geologicamente stupefacenti per le loro colonne di pietra esagonale come ne ho viste solo nel nord dell’Irlanda. Però poi è talmente pieno di persone, gruppi, droni, baracchini e aste per i selfie che bon, visto, vado, e nella classifica finale del viaggio non sarà senz’altro nei dieci. Scappando, J. insiste nel portarmi a vedere il luogo più sacro del cristianesimo armeno, la cattedrale e il complesso di Etchmiadzin, la santa Sede armena. La cattedrale, la più antica del paese, del 301, cinque minuti prima del concilio di Nicea, è notevole, per carità, ma il complesso attorno dove vive il catholicos armeno, il papa patriarca, è terribile, modernismo religioso su cemento sovietico, mi ricorda da vicino l’aula Paolo VI in Vaticano per bruttezza.

Nonostante ne rimanga pochissimo, è invece emozionante e suggestivo ciò che resta della cattedrale di Zvartnots – pare il nome di un nemico di Superman -, un maestoso edificio trentaduogonale a tre piani del settimo secolo che doveva essere una di quelle meraviglie del mondo antico che venivano tramandate di viaggiatore in viaggiatore. Secondo la storia, crollò per l’ennesimo terremoto, stavolta nel decimo secolo, secondo gli armeni che mi raccontano la vicenda fu sì il terremoto ma furono prima i perfidi arabi che ne minarono la struttura erodendone i pilastri principali.

Ora, per carità, tutto può essere e chi sono io per dubitare di una frase qualsiasi di chiunque? Però una certa sindrome da accerchiamento un po’ la colgo, tutto attorno qua lavorano e hanno lavorato contro il popolo armeno, russi, ottomani, persiani, arabi generici e così via. Non che non ne abbiano ben donde, eh. Però questo brulicare di cattivi intenti dopo un po’ suona un po’ grottesco. Comunque, Zvartnots doveva essere spettacolare, ancora oggi la fotografia dell’Ararat innevato tra le colonne della cattedrale è una delle più gettonate.

Ed è qui che il mio viaggio ha termine, due settimane nel Caucaso, da Baku a Yerevan passando per la Georgia e un sacco di posti minori e maggiori, dalle altezze rigogliose del Grande Caucaso alle bassezze, in senso altimetrico, del deserto azerbaigiano che brucia da solo o sputa fango, da un mare, Caspio, all’altro, Nero, da un confine, russo, a due confini, turco e iraniano, da musulmani a cristiani ortodossi. E non ho mai parlato della Grande e Piccola Kabardia, dei Kisti, degli Ingusci, dei Karabulak, dei Ceceni, fossero essi pacifici o di montagna, dei tre tipi di Cumucchi, dei nomadi Nogaj che erano dappertutto, degli intellettuali musulmani detti Tatari e ciao, non è più finita. Magari una conclusione potrebbe essere utile, chissà, forse no, vediamo che succede in aereo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: undici, la terza capitale

Come tutti i paesi piccoli, stretti tra imperi, occupati e deprivati di territori, che hanno però una grande storia, gli armeni tendono a rivendicare a sé la creazione di molte cose, specie nei confronti dei vicini. Per esempio, l’alfabeto georgiano sarebbe in realtà una derivazione del ben più completo alfabeto armeno e così la tradizione manoscritta, la cultura diffusa in ogni ambito del sapere, su su fino ai tappeti. J. che mi spiega queste cose non si diverte tanto quando la prendo in giro dicendo che tutto, a questo punto, dal succo d’arancia alla suola in gomma delle scarpe, sia stato inventato dagli armeni.

La montagna più alta del mondo, per prominenza perché si eleva di quattro chilometri dalla pianura e siamo già a milledue, domina da ogni parte Yerevan. Sì, è l’Ararat, no, non si vede l’arca. Nonostante sia in Turchia, pare qui. Formulo meglio: la montagna è talmente grande e la Turchia talmente vicina che pare di poterci salire facilmente. Sono abbastanza emozionato, l’Ararat lo desideravo fin da piccoletto. Nonostante sia in Turchia, l’Ararat è invenzione armena. E là dove ora c’è la Madre Armenia, esattamente come a Tbilisi c’è la Madre Georgia, con spadone da undici metri, una volta c’era Stalin, in solenne tunicona a metà tra il profeta e il sacerdote, si dice che la statua fosse così ben riuscita che lo stesso dittatore fosse venuto a Yerevan in incognito pur di vederla.

Chiaro che quella armena fosse la più bella. In un cubo di cemento che ricorda il deposito di Paperone visito il museo dei manoscritti ed è a dir poco straordinario: le raccolte di testi copiati e tramandati nei monasteri armeni – parlo della Grande Armenia, estesa in Turchia e Persia – furono imponenti e in contatto con le culture dal medio oriente al Mediterraneo, tutto lo scibile umano dal sesto secolo, sì, hanno manoscritti dell’epoca, al sedicesimo-diciassettesimo è in parte qui. E i miniaturisti non da meno, si va da testi eleganti e raffinati a rappresentazioni umanissime come questo san Giorgio.

Anche il museo nazionale è notevole e ricco, il patrimonio archeologico spazia dalle origini della vita a pochi secoli fa con le testimonianze delle varie culture che attraversarono questi luoghi, persiani, greci, romani, mongoli, ottomani, russi e così via. Per mio interesse, le sezioni della pittura armena e russa di area armena tra diciottesimo e ventesimo secolo sono di grande rilevanza, capita cosi di scoprire da chi Klimt abbia copiato, basta guardare la ‘Salomè’ di Vardges Sureniants, 1907:

E Salomè era principessa armena, per davvero. Mi aspettavo di trovare una grande città povera e grigia e desertica, ne ho trovata una vivace e colorata e internazionale, sono appena passato davanti a un ristorante svedese. Svedese? Ma quando mai? Non dubito che fino a pochi anni fa Yerevan fosse come me l’aspettavo, me lo conferma chi l’ha vista, ora brulica di persone, giovani, a qualsiasi ora, la piazza della Repubblica è piena ogni sera, le luci brillano e il museo mette musica a tutto volume, ora i Carmina Burana. Ha ragione Montalto, seguire le energie, che si spostano.

E quindi, qual è il segreto? Hanno vinto alla lotteria delle città? Un po’ sì. Alle sanzioni dell’Unione Europea alla Russia su oreficeria e gioielleria e materiali pregiati, il mercato si è spostato qui, la Russia stessa usa il paese come intermediario, la crescita del settore armeno è stata del millecinquecento per cento negli ultimi tre anni, per anno, e di soldi ne sono rimasti qui parecchi. La città vecchia viene spazzata via e i grattacieli crescono come fungoni, gli investimenti arrivano e restano, le catene si vedono tutte. Poi basta uscire due metri dal perimetro del centro e, come in Azerbaijan, sparisce tutto. Beh, son tre milioni e uno sta qui, buona parte ne gode.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: dieci, un incontro

Le tensioni tra Azerbaijan e Armenia sono ormai secolari e l’ultimo episodio, due anni fa, decisamente favorevole agli azerbaigiani, è la Seconda guerra del Nagorno Karabakh che segue ovviamente la prima e una ripresa degli scontri fin dalle indipendenze del 1991. Il senso di accerchiamento degli armeni è accresciuto dalle consolidate relazioni tra Azerbaijan e Turchia, anche di natura religiosa, e con Israele, contento acquirente degli idrocarburi azerbaigiani (trenta per cento, il resto all’Europa) che paga con armi, anche in questo caso falsando gli equilibri nella regione. Accennavo alla firma di qualche giorno fa dell’accordo tra i due paesi per il corridoio, da parte armena paiono considerarla un’altra sconfitta, a prima vista. Inutile dire dei buoni rapporti tra Russia e Azerbaijan, quando hai petrolio e gas è facile essere amico di tutti. La cristiana Armenia intrattiene però, vedi le combinazioni?, rapporti cordiali con la Repubblica islamica dell’Iran, altro soggetto non secondario della regione.

In serata a Gyumri, seconda città dell’Armenia, pesantemente colpita dal terremoto del 1988, ne ho una vaga memoria, allora pensavo che l’Armenia fosse la regione della Turchia orientale, cosa che in effetti sarebbe anche, se esistesse ancora la Grande Armenia, non fosse avvenuto il genocidio e la Turchia non avesse avuto il progetto di riunire tutti i paesi di ceppo turco. Domani ho un incontro importante, ci tengo e per un colpo di fortuna sono riuscito a ottenerlo, un paio di birre Ararat al Rasputin e via, a domani.

Al mattino presto esco dalla mia stanza dell’hotel Viktoria che sembra un ufficio del Politburo, tra il letto e la scrivania ci sono come minimo sei metri, e vado a incontrare Antonio Montalto, posso citarlo, proconsole onorario in Armenia, medico che venne a Gyumri subito dopo il terremoto del 1988 per portare aiuti – qui si ebbero più di ventimila morti – e non se n’è più andato. Ora gestisce e organizza progetti di inserimento lavorativo per oltre cinquanta armeni e l’indotto delle famiglie, le chiama ‘tribù’ per esemplificare i legami, puntando sulla ceramica, un’eccellenza armena che costituisce un legame con la Turchia, e la ricezione, avendo recuperato una bellissima casa padronale in centro città e adibita ad albergo e accoglienza.

Ecco, a saperlo venivo qui. Montalto è persona che unisce straordinario garbo a puntuale sostanza, qualunque gradazione di ego è cancellata dai suoi discorsi, starei a sentirlo per ore. Punto a questo. Ne traggo indicazioni utili sul metodo e sull’approccio, parliamo persino fugacemente di Sinner, ridendo perché a nessuno dei due importa. È un incontro molto interessante per me, mi apre vie di miglioramento personale e di azione di cui faccio tesoro, mi colpisce tra l’altro quando dice di non vedere più energie significative in Europa ma di vederle, ora, nonostante i regimi, in Iran e Turchia. Concordo in pieno. Non parla poi di politica o, peggio, di geopolitica, perché “è inutile”, dice, ma si capisce benissimo che ha incontri di alto livello e che molti papaveri vengono qui per avere consiglio e informazioni, ciò che intende è che per fare le cose serve partire dalla pulizia materiale del marciapiede fuori casa per arrivare ai progetti grandi, non il contrario. Un incontro che è una fortuna per me e i miei progetti, grazie F. che l’hai organizzato.

Sono solo le nove e io ho già avuto una giornata piena. Visito alcune chiese, qui la chiesa – ancora non l’ho detto – è la Chiesa apostolica armena, una delle chiese cristiane più antiche, e rientra tra gli ortodossi. Guidata da un catholicos, l’Armenia fu il primo paese al mondo ad adottare ufficialmente il cristianesimo, fin dal primo secolo. Qui in città gli edifici ecclesiastici hanno la particolarità di essere costruiti con pietra basaltica, quindi nera, e di essere contornati di terracotta arancione, creando un bell’effetto. Su un muro nella piazza centrale una raccolta di barzellette e motti di spirito armeni che, direi, hanno in comune con quelli georgiani di creare gelo negli uditori e quasi nulla più. Loro li trovano a esilaranti, come già M. a Tbilisi. Ne racconto uno per capirci: lo scolaro, maestro, qualcuno è mai stato punito per non aver fatto qualcosa? Certamente no, risponde. Beh, ribatte lo scolaro, allora non ho fatto i compiti. Ecco, una cosa così. Gelo.

Fuori dalla città una faglia impressionante lunga novanta chilometri che va fino alla capitale, la seguirò. Sul fondo un fiumicello, la vista è emozionante. Sui cigli, ogni tanto, un monastero del sesto o del settimo secolo, che già per posizione è stimolerebbe non poco il senso spirituale ma anche l’interno fa il proprio.

Solitamente la chiesa vera e propria è preceduta da un vestibolo con grosse colonne e cupola, dedicato in principio ai non convertiti o pagani, di modo che potessero sentire la funzione non potendovi partecipare. Oggi è giorno di matrimoni, ne incrocio due in due monasteri diversi, non male. In quanto ad abiti sbrillocchi e tacchi e trucchi e abbondanze, Roma e Napoli scansatevi. Ma sono simpaticissimi, un gigante mi chiede curioso come mai in Armenia, sono fieri del proprio paese, loro tutti comunque sono stati a Venezia, come minimo. Ora che intravedo la grande montagna, so di essere quasi alla capitale.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: nove, la Siberia georgiana

Non so bene come, finisco a Borjomi, rinomata località per le acque termali ma, soprattutto, per la sua acqua curativa. Chi sono io per non berne il giusto quantitativo? Nel parco termale nella cittadina di montagna, il primo luogo di villeggiatura della Russia zarista, gran sanatori sovietici e ville per la nomenklatura, due giovani donne dentro una sorgente incavata offrono bicchieri di acqua calda, trentacinque gradi, solforosa, da bicchierini e brocche che vengono fatti girare. Se non mi piglio una dissenteria fulminante stavolta, come minimo piglierò il colera, lo sento. Ma le viscere saranno senz’altro in gran forma, rosee.

Più giù, nel castello di Akhaltsikhe, la statua di Charles Aznavour, figlio di un locale, è decisamente la celebrità del luogo. Questa regione, il Samtskhe–Javakheti, è decisamente una delle zone più belle io abbia visto finora da queste parti, rigogliosa, abitata fin dalla preistoria, idilliaca.

Seguo il fiume Kura tra anse e colline fino al monastero rupestre di Vardzia, a una ventina di chilometri dal confine turco, al centro di un’intera città scavata nella roccia, in alto così da non temere assalto. Dell’epoca del grande re Tamar – era una donna ma fu talmente grande che qui la chiamano ‘re’, per distinguerla dalla consorte -, rispecchia un periodo di grande espansione e ricchezza per la Georgia, il dodicesimo secolo. Gli affreschi della chiesa, una delle quindici, sono magnifici, il re è rappresentata ed è l’unico caso, se ben capisco.

Inebriato dai colori e dall’ambiente, riprendo la strada tornando indietro, non posso e non voglio, stavolta, andare in Turchia, mi sono assicurato un passaggio in corriera fino al confine, l’altro, tra Zhdanovi e Bavra. Mi ritrovo, non previsto, su un lungo altopiano a oltre duemila metri di grande bellezza, è chiamato la Siberia georgiana, a me piace e ricorda un po’ la Mongolia. Qualche casa di legno qua e là, qualche mucca brada, elettrificazione socialista, cieli azzurri. Altro paesaggio magnifico.

La corriera fa una sosta a Gorelovka in mezzo a un gruppo di case di campagna russe del periodo zarista, è una comunità – mi spiegano – di russi cattolici finiti qui per mantenere la comunità, poi non è che capisca proprio tutto, loro non parlano inglese, io non parlo georgiano o russo, però che gran sorrisi. Un gruppo di ragazzini in bicicletta accorre per vedere lo straniero, sembrano quelli di stranger things all’inizio, hanno maglie da calcio, mi dicono i loro nomi e poi gigiodonnarumma, spassosi, me la rido anche con loro, non posso non riportarli qui.

Dopo poco, il confine, l’ennesimo da passare a piedi. E passarlo è un atto di volontà, una scelta propria, perché a parte i due edifici con le guardie attorno corrono prati per decine di chilometri senza alcuna recinzione o limite. La soldatessa alla guardiola mi fa la faccia scura e mi chiede se io sia stato in Azerbaijan, sì, e subito mi chiede secca: perché? Eheh, già, si odiano. Turismo, perché diavolo vuoi che uno con uno zaino come me vada in giro? Cincischia e poi mi fa entrare, sono in Armenia.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: otto, fare la regista

‘Dede’, dedè, è il titolo di un film georgiano del 2017 ambientato nel Grande Caucaso e, più precisamente, l’unico girato in lingua svaneti. La regista, Mariam Khatchvani, è nata proprio nel villaggio di Ushguli, di cui raccontavo ieri, e con il suo film ha vinto molti premi in giro per il mondo, tra cui se non ricordo male una menzione a Cannes. Un critico, con un’espressione che è poi stata ripresa anche per la promozione del film, l’ha definito “un melodramma georgiano in cui il femminismo incontra il fatalismo”, anvedi. Nel centro di Mestia, mentre me ne vado a zonzo, finisco al cinema Dede che proietta cinque volte al giorno sempre e solo il film da cui trae la propria ragion d’essere, accompagnandolo con qualcosa da bere, eventualmente.

È il Sacher del villaggio e immagino che l’idea e i mezzi siano della regista Mariam Khatchvani. Me la immagino nel suo villaggio di venti case torri e inaccessibile per sei mesi all’anno per neve, alle pendici del Grande Caucaso, scoprire alla fine degli anni Ottanta innanzitutto l’esistenza del cinema, come arte e attività, poi non so come vedere qualche film e, infine, comunicare ai genitori di voler diventare una regista e di voler scendere dalla valle. La cosa, tutta insieme, ha a dir poco dell’eroico, vista da qui.

Scendo costeggiando il fiume Enguri, passando sotto le due cime a picco dell’Ushba, il Cervino del Caucaso, oltre quattromilaesette, e vado verso la Mingrelia, la regione storica della Georgia sul mar Nero, sotto l’Abkhazia, ovvero per gran parte la storica Colchide, quella di Medea. Poco dopo Poti, guado il fiume Rioni e sono un poco emozionato: era noto come fiume Fasis, Phasis, nell’antica Grecia, quando veniva considerato come il confine geografico tra Europa e Asia e uno dei limiti del mondo abitato insieme alle colonne d’Ercole. Ovvio, per loro la parte commerciabile finiva lì. Il fiume è quello degli argonauti, lo seguirono fino all’estuario, alla colonia greca omonima, dove presero il vello.

Il mar Nero che ricordo è quello rumeno, grigione e indistinto, bordato dalla Rimini costruita dagli italiani a Costanza, povero Ovidio. Qui non è molto differente, leggermente più blu, le petroliere uguali e il termine della ferrovia da Baku che porta il petrolio a Batumi, la Dubai georgiana per le gioie del mare, del gioco d’azzardo e dei massaggi thailandesi.

Perché sono qui? Per nessuno dei tre motivi qui sopra, evidentemente. Se proseguissi lungo la costa per alcuni chilometri, pochi, sarei in Turchia e proseguendo ancora arriverei a Trebisonda dove, ovviamente, la dovrei perdere. Sono ingolosito, l’idea mi piacerebbe ma romperebbe il senso della mia transcaucasica, pur avendo senso da molti punti di vista, storico per primo. Alla fine, Batumi non è nemmeno così male, la città vecchia ancora esiste e i boschi attorno fanno bella cornice. Nonostante sia agosto sembra Rimini a novembre, incontro un francese alsaziano in trekking in Georgia, ci offriamo qualche birra vicendevole e mi mostra come il suo ministero degli esteri gli sconsigli con rosso acceso l’Azerbaijan, pericolo di rapine e sequestri. Addirittura. Gli dico che io pericoli non ne ho visti e a me Tajani non ha detto nulla, poi mi sento mentre parlo e mi viene da ridere. Tajani, che strano suono così lontano…

Adesso mi muovo verso est, verso Akhaltsikhe, per poi scendere a sud, verso la terza tappa del mio viaggio. Ma ci sono ancora posti da vedere in mezzo.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: sette, un sacco

Un uomo senza forze, un sacco vuoto. Cinque uomini attorno a lui, amici, fratelli, lo tirano e lo girano, lo sollevano e lo depongono, poi gli schiacciano il torace con colpi violenti e mal dati, una mano in bocca, il più robusto lo stringe a sé schiacciandogli lo stomaco con forza. Un pupazzo di pezza, una marionetta dalle gambe storte. A fianco a me un uomo grosso piange emettendo grida straziate, le donne guardano con le mani sulla bocca da dietro gli angoli delle case. L’uomo, il sacco, ha il volto, la pancia e le caviglie bianche, senza alcuna possibilità che dentro ci scorra qualcosa. I cinque non si rassegnano, lo rivoltano e lo tirano con fretta, sempre più fretta perché il tempo passa, uno soffia aria dentro la bocca dell’uomo. Molti attorno, anche io, scuotono la testa. I cinque non si fermano, sudano e bofonchiano, non si fermano perché è il loro compito, oggi, e non bisogna dare l’impressione di essersi fermati prima di quanto è dovuto, l’uomo grosso piange silenzioso, ora, la sua manifestazione pubblica è compiuta e una donna nera corre via piangendo, segnando la fine.

Oggi nel villaggio di Ushguli è morto un uomo. Poteva essere vecchio o no, impossibile dirlo, qui a oltre duemila metri si invecchia in fretta, chissà se gli altri erano moglie, figlia, fratelli o figli, chissà. Un colpo secco, tutto era vuoto, tutto era senza vita né sostanza. Attorno, alcuni del villaggio, parenti, amici, vicini, turisti come me, due cani randagi e un maiale nero. Tutti in silenzio, poche parole della donna nera che spiega ad altri, attorno, ma bastano due parole, un gesto della testa, nessuno si muove, se non lentamente, non ricordo suoni, dopo.

Il villaggio di Ushguli è in posizione eccezionale, è il luogo abitato in permanenza più alto in Europa, ben sopra i duemilaedue, ai piedi del massiccio dello Shkhara, più di cinquemila metri in fondo a una valle verdissima. Le case sono qualche decina, molte anche qui hanno le torri, non poche possono ospitare, sia i turisti che i camminatori che gli alpinisti. Al centro, una chiesetta del dodicesimo secolo, commovente, segna un punto tra il sotto e il sopra.

Alcune delle cime più alte del Grande Caucaso sono qui, tutte ben sopra i cinquemila, accompagnate da numerose sopra i quattromilaecinque, che è un po’ la soglia psicologica di noi italiani, per cui oltre il monte Bianco non c’è nulla di più alto nei paraggi. Invece più in là, oltre questo confine, c’è l’Elbrus, enorme nei suoi cinquemilaesei e rotti. Ogni anno uno o due ci restano secchi su queste cime, forse pensando che rispetto a un ottomila la cosa sia molto più facile.

Qui molto vicino c’è l’Ossezia del sud, oggetto della guerra con la Russia del 2008. L’altra parte dell’Ossezia è di là, in Russia, i georgiani ritengono l’Ossezia una e la rivendicano come proprio territorio, gli osseti invece sono separatisti e vorrebbero l’annessione alla Russia. Pochi paesi riconoscono l’Ossezia formalmente. Di fatto, se capita di passarci poi non è più possibile andare da nessuna parte, se non in Russia, si viene respinti alle frontiere. Se si desidera molto molto visitarla, allora si devono corrompere i doganieri in modo che non timbrino il passaporto. Se non ricordo male, e vado a memoria, Erika Fatland nel suo La frontiera racconta di come talvolta, durante la notte, il confine russo avanzi nell’Ossezia del sud di diverse centinaia di metri, creando non poche complicazioni. Noto è il caso dell’agricoltore finito con la casa e i campi di fatto in Russia e i cui figli sono dotati di permesso speciale per fargli visita una volta ogni tot, varcando il confine.

Scendo ripensando alla morte dell’uomo. C’è una parte di me scossa da quei movimenti del corpo, strattonato, alzato e lasciato; d’altra parte rifletto su come abbia visto un quadro popolare di grande potenza, come avessi assistito al processo del mugnaio di Ginzburg, una scena eterna di vita e morte, in cui i vivi, individui e gruppi, affrontano il tempo e i passaggi. In definitiva, ho visto una comunità stringersi attorno a un proprio membro, tirandolo per i capelli lontano dalla voragine inevitabile, affrontando con lui il trapasso e con i suoi i momenti successivi – e quante volte nei secoli si sarà ripetuto -, ho visto un villaggio pulsare all’unisono in modo così umanamente profondo da farmi pensare che, tutto sommato, ho assistito a una scena forte, tragica e positiva. E se dovessi pensare a me, preferirei questo al nostro modo, tra macchinari, estranei e così poca compassione.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: sei, salita

A Kutaisi stasera si celebra l’anniversario della guerra del 2008 con la Russia, proiettando un film in piazza che racconta quei giorni da parte georgiana.

Come è normale nel genere, che sia film o romanzo o canzone, muoiono tutti. La scena del carro col cadavere, seppur in georgiano senza sottotitoli e piuttosto lenta, è straziante. La città è, tra quelle che ho visto, la migliore per integrazione tra architettura zarista e sovietica, l’aspetto è quasi mitteleuropeo, meriterebbe un giorno in più. Ma io devo andare a nord, più in alto, e qualcuno lo sa e manda gran pioggia. Bello. Più scomodo ma bello, salgo tra le gole boscose per visitare alcuni monasteri isolati su cucuzzoli a strapiombo su fiumi impetuosi.

È proprio a Kutaisi che lo scellerato presidente Saak’ashvili fece costruire un nuovo parlamento per decentrare il potere da Tbilisi, con un esborso economico e politico del tutto insensato. Sfigato, pure, perché all’inizio dei lavori, quando fecero platealmente saltare con l’esplosivo un monumento sovietico ai caduti della seconda guerra mondiale, un grosso pezzo di cemento colpì una giovane donna con la figlia. Più sfortunate ancora. Dopo complesse vicende, Mikheil Saak’ashvili è ora in carcere, privato della cittadinanza e dei diritti civili, mentre il governo del paese è in mano a un delirio chiamato “Sogno georgiano”, un partito dall’impronta simile ai cinquestelle in mano a un ricchissimo imprenditore che, come Grillo o Casaleggio, governa dalle seconde file.

Finisco per mangiare a casa di una famiglia che in un posto incantevole vicino al fiume ha messo alcuni tavoli sotto le frasche e il cibo, come sempre finora, è molto buono: certe focacce al formaggio e alla carne tipiche georgiane, involtini di melanzane, polpette di patate, fagioli, misto di verdure cotte. Se non è il mio pasto ideale poco ci manca. Anche qui, innumerevoli brindisi, tutti ispirati, se si avverasse anche solo un quinto delle invocazioni, vivrei in eterno, felice e rispettato. Non esagero, almeno quindici brindisi, piuttosto gridati, alzando vino rosso georgiano che mi farà desiderare un letto a breve. Ma no, devo sfiorare l’Ossezia del sud e devo salire lungo il corso del fiume Enguri, fino alla valle di Mestia, sotto certe cime da cinquemila metri che fanno da confine con la Russia.

La strada sovietica è tutta una curva e dipende dal lato in cui si è seduti in corriera per vedere il fiume schiumante in fondo allo strapiombo o la parete rocciosa venire un po’ troppo incontro. Non ci sono rottami cadaveri di mezzi in fondovalle come in Uzbekistan o in Tajikistan ma non dubito che ogni tanto qualcuno vada giù. Dopo alcune ore e pause in luoghi improbabili, arriviamo nel centro dello Svaneti o, meglio, dello Zemo Svaneti, l’alto Svaneti, la regione più a nord del Grande Caucaso, confinante con l’Abkhazia, altra repubblica separatista. Mestia e i villaggi della valle, con le tipiche case a torre, sono – ancora – incantevoli, l’aria è fresca, finalmente dopo giorni torridi, e le nuvole corrono.

Non vedo l’ora di fare qualche camminata.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: cinque, quello d’acciaio

La notizia è importante: questa sera il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev e il primo ministro dell’Armenia Nikol Pashinyan hanno finalmente firmato un accordo di pace. Dopo che negli ultimi decenni si erano combattute due guerre e centomila persone di etnia armena erano fuggite dall’Azerbaijan dopo l’attacco militare azerbaigiano alla regione separatista del Nagorno-Karabakh, ora hanno firmato. La ragione del contendere, una delle, è l’exclave azerbaigiana in territorio armeno, la Repubblica autonoma di Nakhchivan: finora per raggiungerla gli azerbaigiani dovevano fare il giro e passare per Iran o Turchia, ora invece l’accordo prevede la costituzione di un corridoio in territorio armeno. La cosa ridicola è che si chiamerà, pare, “Trump Route for International Peace and Prosperity”, TRIPP. Molto bene, forse è una fase di distensione, raccolgo la frustrazione di alcuni per decenni di negoziati dell’UE e russi finiti ora in un successo americano.

Ora vorrei vedere la Georgia occidentale, verso il mar Nero, e a nord, verso le montagne del Grande Caucaso. Si tratta di concatenare una serie di passaggi, di tappa in tappa. La prima è un luogo incantevole, la città di Mtskheta, alla confluenza dei fiumi Mt’k’vari e Aragvi. Per ricordarmela, la chiamo Miss Keta. Su un picco sopra la città e la confluenza il monastero di Jvari del VI secolo domina le tre valli e la fantasia corre a carovane, merci, eserciti e viaggiatori. In città non è da meno la Cattedrale di Svetitskhoveli dell’XI secolo, slanciata e ricca, custodisce la tunica di Cristo, certamente.

Un pope si vuole fare una foto con me, la facciamo, mi sorride e scuote la mano vigorosamente, tutti qui mostrano un lato amichevole, tranne quelli che guardano di traverso gli stranieri. Questo è caloroso e simpatico, come lo è il cristone sull’abside della cattedrale, enorme e paterno e umano. Forse lo sguardo non è proprio vispo, il pittore cercava di riprodurre una visione ultraterrena, volta all’infinito, ne viene una un po’ ciulina.

Indeciso se andare a visitare la città rupestre di Uplistsikhe, vengo convinto dalla signora che fa il caffè, fa facce da belizimo belizimo che non posso non andare. E in effetti è vero, oserei dire dei tratti in comune con Petra, in Giordania, e con almeno sei secoli in più e una posizione spettacolare sulla valle sul fiume.

Ma il pezzo forte di oggi è Gori e per gli appassionati vuol dire una cosa sola: Iosif Vissarionovič Džugašvili ai più noto come Stalin. E qui c’è il Museo di Stalin, ovvio che vado, che me lo perdo? Il museo fu iniziato a Stalin vivo, il che la dice lunga, e nonostante gli appelli ai compagni – ma no, non sum dignus – quelli insistettero. L’edificio antista la casa natale che è stata incapsulata a mo’ di Porziuncola del capo ed è, come dire?, piuttosto encomiastico, solo parole buone. La guida è più oggettiva e spiega anche la vicenda del testamento di Lenin senza tralasciare i fatti più evidenti, il resto sono foto, copie di documenti, qualche quadro, mappa, la maschera di morte e l’ufficio arredato tra 1919 e 1922, cor telefono de Stalin, ‘a penna de Stalin, ‘a seddia sempre de lui. Notevole, come a Pechino e nei paesi socialisti, la sezione con i regali ufficiali ricevuti da delegazioni estere, noi un bel set di pipe per il settantesimo che impallidisce davanti alla lampada da tavolo falce-e-martello in alluminio regalo dei polacchi buongustai. Sto un po’ nel vagone con cui andò alle conferenze di Teheran e di Yalta, che momenti.

Quasi più divertente fuori, in vendita il kit per diventare Stalin con pipa, bicchiere e fiaschetta per la vodka, e non solo, tutta l’attrezzatura per essere davvero come lui.

Man mano che gli eventi si succedevano, la statua di Stalin davanti al municipio fu rimossa, poi rimessa, poi si appose una targa al museo per avvisare della poca oggettività dell’esposizione, poi la si tolse, poi si propose di chiudere il museo e poi no, che di concittadini così noti non ce n’erano molti. Bene o male, nonostante tutto, per un paese piccolo come la Georgia avere avuto in mano le sorti dell’URSS è evidentemente motivo di orgoglio anche attuale.


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minidiario scritto un po’ così di un giro sul limite naturale tra Europa e Asia: quattro, incontri

Qualche giorno fa, mentre camminavo tra i petroglifi del Gobustan pensando a pitoti, deserto e fuochi notturni, ho colto una voce vagamente familiare, ma più familiari erano gli argomenti – lamentele sul caldo -, e ho visto M., che avevo conosciuta, vedi il caso?, in Patagonia. Ci siamo abbracciati, entrambi stupefatti da tanta coincidenza casuale, stessa ora stesso giorno per venire qui, da non credere. Ci siamo poi salutati, contenti dell’incontro, ottimisti su questo piccolo mondo in cui è possibile rivedersi ai capi di esso e scambiarsi parole gentili. Vedi gli incontri?

Ora sono seduto a un tavolo di Fabrika, luogo industriale recuperato di Tbilisi, con F., esperto della regione e a lungo membro di una missione UE per il monitoraggio dei conflitti in Georgia; con M., armeno docente universitario in Georgia, memoria storica della città e ghost writer di Shevardnadze; con R., polistrumentista e compositore di musica ambient, in viaggio. M. sta facendo uno dei lunghissimi brindisi per cui i georgiani vanno fieri e tutti gli altri appoggiano il bicchiere sconsolati, che devono partire necessariamente con un’invocazione di pace e proseguire con una storia del passato che abbia però una ripercussione sul presente o sul futuro, apprezzo molto nonostante la sete. Si mescolano russo, inglese, pezzi di italiano, qualche termine georgiano e armeno, non sempre ricerco questo tipo di incontri, spesso li rifuggo perché esibizioni di ego tracimanti, oggi no, oggi è stato bello e per questo lo racconto. Girare con loro tutto il giorno per Tbilisi, soprattutto nella parte più frequentata dagli abitanti più che nelle parti turistiche e mondane, è stato particolarmente interessante. Sebbene M. si dichiari ateo di impostazione sovietica, e io un po’ mi accodi, abbiamo visitato decine di luoghi religiosi di ogni tipo di confessione, dalle chiese ortodosse russe a quelle georgiane, alla cattolica di rito armeno, alla sinagoga, alla moschea, manifestazione evidente di una certa tolleranza e libertà. Nella chiesa cattolica romana conosciamo il prete, polacco, e il suo collaboratore pastorale, giovane napoletano che, vedi la vita?, ha lasciato un lavoro in una multinazionale a Torino per venire qui ad assistere le attività della chiesa locale. La Chiesa cattolica armena li tratta con sospetto ostile, ci dice, mal tollerando la potenza del Vaticano. L., altro incontro del giorno, nel brindisi che gli spettava e nella prima parte, l’invocazione alla pace, ha detto: “Che ci sia pace in Italia e in Georgia perché se non ci fosse né io né voi potremmo essere qui e non ci saremmo incontrati”. Il che è a dir poco giusto.

Per parlare degli incontri, non ho menzionato il passaggio della frontiera: a Lagodekhi dopo un doppio controllo azerbaigiano e un lungo corridoio di circa ottocento metri di terra di nessuno, si entra in Georgia. Le mie solite foto di sfroso che prima o poi mi deporteranno.

La differenza salta agli occhi, sia per le condizioni materiali dei due popoli, derelitti gli azerbaigiani perché ricchi di petrolio e gas in ben pochi, più ordinati e mediamente nutriti i georgiani, le strutture rispecchiano le differenze, il paesaggio anche, di qua sono tutte viti e le colline sono verdi di boschi, sono cambiate latitudine e altitudine. E la grafia, oltre alla lingua. Passo da Sighnaghi, detta città dell’amore perché ci si può sposare in venti minuti – e divorziare in trenta -, e scendo a Tbilisi, capitale e concentrazione di metà della popolazione georgiana. Un primo giro notturno nella zona della movida mi dice che la città è in parte un resort per arabi e mediorientali che vengono qui a fare ciò che non possono fare a casa propria. Per fortuna la giornata di domani, da cui ho iniziato oggi il racconto degli incontri, renderà giustizia a questa città interessante, Tbilisi, costruita sull’ansa di un fiume placido e in una gola controllata da due fortezze, una delle vie della seta.

Georgiana, proprio come chiamiamo le loro case nell’est e nord Europa, classicista monumentale e liberty nel periodo zarista, brutalista e modernista nel periodo sovietico di cui permane l’odonomastica, quando non immensa distesa di case basse con balcone di ispirazione persiana, sventrata dai palazzinari attuali senza garbo né tempo né gusto. I reperti fin dal terzo millennio al museo nazionale, gioielli, statue, monili, amuleti, attrezzi sono straordinari, per fattura, ricchezza e numero, buffa la sezione sull’occupazione sovietica, essendo l’URSS, almeno il primo periodo, a completa trazione georgiana, Stalin e Berija per dirne due, i primi due. La statua di Lenin è stata sostituita da quella tutta dorata di san Giorgio che infilza il drago, l’avvenire è ormai un altro.


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