Qualche elenco, per cominciare. Cose che mi sono piaciute di Nottingham, nonostante tutto: la bella chiesa medievale di Saint Mary con le sue lapidi e cenotafi alle pareti; i magazzini Fellows Morton & Clayton sul Nottingham Canal bruciati a un certo punto per lo scoppio della polvere da sparo destinata alle miniere (mai giocarci); il Bell Inn dove ho mangiato la raccomandata Steak & Ale pie e guardato un caminetto ardere in un televisore per quasi un’ora; il Ye Olde Trip to Jerusalem, un altro pub appena sotto il castello di Nottingham, che pretende di essere stato fondato nel 1189 per la crociata e di essere il pub più antico d’Inghilterra (ne ho visti almeno altri due, tra cui il Bell Inn qui in città, dire lo stesso); il centro turistico che in pratica vende le maglie del Nottingham forest e finti acquerelli di Brian Clough; la collina su cui sorge Nottingham; il Rock city, posto per la musica in cui ieri sera ho sentito Badly Drawn Boy. Ecco, non è che sia un ricco bottino.
A proposito dell’ultimo punto, il posto musicale, un altro elenco dei motivi per cui venire a sentire i concerti in Inghilterra è più bello: chi è sul palco si diverte di più, il pubblico capisce i testi e capisce quanto detto tra una canzone e l’altra, in generale sono più competenti; per questo gli spettacoli sono più variabili, a seconda degli umori degli uni e degli altri, a volte sono fila di battute; il rock, l’hard rock, la new wave, il free jazz punk inglese, il trip hop e così via li hanno inventati loro, quindi li fanno meglio; hanno un sacco di posti, grandi e piccoli, appositi per la musica, non vanno nei palazzetti dello sport come noi che gli ultimi posti per la musica li abbiamo costruiti nel Settecento; hanno migliaia di venues per la musica con capienza da trecento a ottocento persone, i posti migliori per sentire e vedere (il Grayston Unity ad Halifax ha quattordici posti) e quasi toccare; ne consegue che hanno tecnici del suono decisamente migliori, i suoni sono spesso strepitosi, come ieri sera, normalmente molto buoni; hanno un’offerta molto più ampia e tendenzialmente di qualità più alta; ci sono molti più musicisti di ogni età; ogni musica ha dignità, dalla piccola band sperimentale alla RPO; i prezzi anche nei posti piccoli sono più che accettabili; in generale, questa è per te L., il pubblico sta fermo in un posto, dove scegli poi stai. Ieri sera a un certo punto BDB si è commosso, ha spiegato perché, ha chiesto un attimo, poi ne ha parlato. Da noi, banalmente, non sarebbe stato compreso.
Sheffield nel 1984 era il posto più triste della terra. Con la chiusura delle miniere e la successiva crisi delle industrie metallurgiche causata dalla Thatcher, la dissoluzione delle strutture sociali in grado di attenuare gli effetti della disoccupazione, anch’essa dovuta alla Thatcher, tutta la fascia industriale al nord dell’Inghilterra entrò in una crisi irreversibile. Sheffield, che era la città dell’acciaio – l’acciaio inossidabile lo inventarono qui ma persino Chaucer decanta la qualità dei coltelli locali – tanto decuplicò la popolazione durante la rivoluzione industriale quanto andò a gambe all’aria negli anni Ottanta. Per colpa della Thatcher, l’ho detto?

‘Grazie, signora Thatcher’ è un ironico e divertente film del 1996 che racconta proprio questo, ambientato nell’immaginaria Grimley, in Yorkshire. Per carità, l’esaurimento del carbone e la necessità di riconversione dell’industria estrattiva ci potevano anche stare, di sicuro non licenziando in tronco ventimila persone e mandando la polizia in assetto da guerra a contrastare le proteste. Il tutto, appunto, tagliando tutte le strutture a supporto di chi si trovasse in difficoltà. Detto tutto ciò e proseguendo il mio percorso di ricerca nell’industria britannica dell’ultimo secolo e mezzo, non posso che andare a Sheffield.
Disse George Orwell: «Immagino che Sheffield possa giustamente ambire al titolo di città più brutta del Vecchio Mondo» e io, ora, da solo e contro tutte le avversità che potrò incontrare sul mio percorso, scoprirò se aveva ragione o no. Compio subito una doverosa visita al Crucible theatre che è la sede permanente dei campionati mondiali di snooker, che è un gioco biliardico piuttosto difficile con un tavolo davvero enorme. Che una volta e io e il mio amico M. siamo andati a giocarlo in un club privato indiano in un capannone e c’era la musica reggaeton sudamericana a tutto volume e loro giocavano molto bene e noi per niente e avevano chiuso le porte a chiave e noi non avevamo detto a nessuno dove fossimo e io già mi vedevo senza le reni e poi M. ha pure chiesto loro una birra. Ma è andata bene. Poi visito la cattedrale che ha una parte antica, interessante, e una parte nuova con, all’interno, un vero e proprio caffè, con sedie e cornetti, che dà sulla navata principale.

Questa cosa l’avevo già vista a Liverpool, là era proprio un bistrot, alla fine è un modo non cattivo per fare della chiesa un luogo di aggregazione della comunità e mostrare, laicamente, che bisogna pur farla stare su, in qualche maniera. Questa è la mia chiesa, Pietro. Come spesso accade, vengo agganciato da una signora inglese volontaria della comunità di cui sopra che mi illustra le bellezze della chiesa e facciamo una bella chiacchierata perché vedo tombe sontuose da indagare. È gentile, definisce il mio poor english ‘brilliant‘, che non è, sono furbi questi inglesi, e mi dà indicazioni per visitare una magione da trecento stanze nella campagna dello Yorkshire del sud, appartenente un tempo a un intombato di fronte a noi. È stata a Venezia due volte e tra le due ha avuto l’impressione che stesse affondando un po’. Confermo. In bella vista, un gruppo scultoreo della nascita di Cristo in stile locale, tutto in acciaio cromato, bello grande. Sembra un monumento a un incidente stradale. Lavoro qualche ora in biblioteca – non dovevate darmi lo smart working, bestie – e poi come i bambini vedo il sole e scappo fuori. Come nelle altre città, vado ai quays e cammino lungo i canali e i magazzini lungo lo Sheffield channel fin dove arrivo.

Niente di leccatino e preparato come a Manchester o Birmingham, il percorso è rude come la città. Qua non ci sono le ragazze bionde che corrono. Passo sotto ponti ferroviari e di interstatali, i primi tutti ottocenteschi i secondi Novecento, vedo il retro di molte fabbriche e magazzini che una volta erano i fronti, sul canale. A uno svincolo, attraverso e comincio a seguire in senso contrario il fiume che attraversa la città, il Don. Non sono un esperto ma credo quello sia un altro fiume. Una volta, mi dicono, era pieno di salmoni, il cibo dei poveri, oggi sarà la suggestione ma mi pare del colore della limatura di ferro. Lungo il fiume, una volta c’erano le acciaierie e le donne povere venivano a raccogliere i pezzettini di carbone di scarto per scaldarsi a casa, il cosiddetto coal picking. Sotto l’ennesimo ponte ferroviario bello nero di fuliggine e gocciolante, all’altezza del ‘Dubai nights’, certamente un gommista o carrozziere fino a poco fa, devio per tornare in centro. Chissà che notti, a Dubai.

Ora, l’arte di Sheffield, oggi è un giorno davvero libero. Ma prima sono in grado di rispondere all’affermazione di Orwell con cognizione: sì, non è il cristallo più lucente del lampadario delle città del Vecchio Mondo ma non è, certamente, nemmeno il peggiore. Secondo me Terni, Gioia Tauro, Cuneo, Novara, Katowice, Ostrawa potrebbero legittimamente ambire al titolo.