minidiario scritto un po’ così di un breve giro alla carlona: quattro, ho bevuto l’acqua voglio la citazione, Carlo perde il senno, popolazioni gentili qua fuori, la più bella mai vista

Diluvia, ancora. So che quest’estate rimpiangerò questi momenti, ora l’unica è fare come fanno qui, stivali di gomma, cerata e via, sguardo in alto. Gli ombrelli si rompono. In centro ad Aquisgrana c’è un padiglione neoclassico che offre un getto di acqua termale a cinquantadue gradi e dall’inconfondibile odore di zolfo, uova marce. Sembra l’acqua che esce dai rubinetti di Pavia. Cinquantadue gradi sono parecchi, devo dire, a toccarli e a berli. Comunque, sulle pareti sono murati gli elenchi dei visitatori celebri, principi, zar, scrittori, uomini e donne, che si sono abbeverati alla fonte, di cui da sempre sono riconosciute le caratteristiche benefiche. Oggi no: siccome il ministero riconosce il potere medicamentoso delle acque, allora sono equiparate a un medicinale e, come tale, non può essere somministrato liberamente. Quindi l’acqua non si può più bere. C’è però da dire che è un divieto formale, è scritto grande, se uno vuole la beve. Ne bevo un po’ perché sono qui e devo ma fa abbastanza schifo. A chi mando nome e cognome per la gloria imperitura?

la prima pianta fiorita qui

Tra i nomi scritti, c’è quello di Petrarca, passato di qui nel 1333 per conto del cardinale Giovanni Colonna. Abbiamo una lettera, credo sia nelle Familiares, in cui racconta il suo arrivo a Colonia e il passaggio ad Aquisgrana. A onor del vero, Petrarca non dice granché sulla città, mentre è entusiasta di Colonia e soprattutto delle donne lì incontrate al tramonto, ma racconta piuttosto una storia su Carlo Magno. La riporto, maciullandola inevitabilmente. Carlo è innamorato perdutamente di una donnicciola da poco, una mulieruncola, e trascura i doveri del governo ed è senz’altro «demente» per questo sentimento, facendo cose che Petrarca riferisce come irripetibili. Anche quando la fanciulla muore, Carlo è inconsolabile e veglia il cadavere senza posa. Il vescovo, preoccupato dell’andamento delle cose, cerca di riportare Carlo alla ragione senza però riuscirvi; per caso, si accorge che il cadavere ha un anellino da niente sotto la lingua, lo preleva e lo tiene con sé. Ed è così che improvvisamente il re si rende conto dell’aspetto orribile delle spoglie dell’amata e ne ordina la sepoltura. Non basta. Carlo a questo punto comincia a pendere dalle labbra del vescovo e ne esegue ogni ordine e volere, Petrarca allude anche alle gonne di questo. Il vescovo ne approfitta per un po’ ma poi si rende conto che è necessario che Carlo rinsavisca, per il bene del regno e della popolazione, e così getta l’anello in una palude. E Carlo? Ovviamente la elegge a suo luogo prediletto, ove andare a riflettere e passare il tempo. Non solo, dai e dai, alla fine la palude gli piace così tanto che decide di fondarvi la sua capitale, in mezzo al fango: Aquisgrana.

Non si fraintenda o semplifichi, il discorso è un ragionamento sull’irrazionalità delle azioni umane e sul caso che spesso sovrintende l’andamento delle cose, certo è che, comunque, Roma e Firenze erano lontane e certi costumi piuttosto diversi. Il punto è, però, a parer mio Petrarca stesso, un altro prototipo di homo europaeus, viaggiatore conscio della storia e della natura dei luoghi che visita, per il quale gli onori romani come i soggiorni avignonesi o quelli milanesi o tedeschi fanno tutti parte di un’unica cultura declinata in varie forme e tempi. Lui è in grado di leggere ciò che vede e di trarne ragionamento e si muove con disinvoltura in tutta Europa. Chiaro che ne traggo ispirazione. E comunque il Carlo completamente rimbecillito che decide di vivere nella palude in effetti fa un po’ ridere, anche se nulla ha a che fare con lo spirito del racconto.

Prima di andarmene, vado a visitare il Centro Ludwig di Arte Internazionale – ancora quel Ludwig di Colonia – perché ha sede in una ex fabbrica di ombrelli costruita in stile internazionale negli anni Venti. Ed è bellissima, la metto qui sotto al contrario di quanto faccia di solito. Giro le sale non apprezzando fino in fondo un’artista cubana che espone un milione di opere quando mi raggiunge la direttrice del museo, con cui facciamo una lunga chiacchierata per tutto il museo. Si scusa perché tutto è ancora in allestimento, mi dice che dopo il trenta aprile sarà tutto magnifico come al solito, io replico che il posto è già magnifico, e lo è, vedo che si illumina. Tornerò, le dico, e giroliamo per il museo.

Racconto questa cosa per svariati motivi. Il primo è l’accesso di gioia che mi prende tutte le volte che constato l’esistenza di una lingua comune. Nemmeno europea, mondiale. Il latino dei nostri tempi, quella lingua che permette a uno come me, che non parla tedesco, polacco, ungherese, mandarino, russo, afrikaaner, di andarsene in giro per il mondo e di avere, pure, soddisfacenti conversazioni. Ricordo io stesso i tempi in cui si veniva in Germania e bon, si andava a tentoni, manco fosse slovacco dialettale. Oggi faccio fatica solo con le casse automatiche al supermercato, se non hanno figure, ma con i colori ce la si fa. È così che mi capita spesso di avere ragionevolmente approfondite e piacevoli conversazioni con persone senza che entrambi si parli la lingua dell’altro. Ed è una cosa che va ampiamente al di là dei sogni più lubrichi del me giovane viaggiatore di qualche decennio fa.
Il secondo motivo, per dire, è che anche in Germania, dove di solito le persone sono descritte come chiuse e poco disposte, io faccio meno fatica che a casa mia a instaurare un qualche tipo di discorso con estranei. Oso andare più in là: sarà che vivo in un posto ancor più chiuso, qui sono pure più gentili e sorridono più spesso. Certo, poi magari ti deportano per aver calpestato un’aiuola, chissà, ma al momento il vivere quotidiano ne guadagna enormemente. Non c’è giorno in cui non mi capiti di attaccare bottone con qualcuno e, lo confesso, molto raramente sono io a fare il primo passo. A casa, mai. Sarò io, certo, sarà la mia disposizione, non c’è dubbio, ma così è. E in giro mi diverto di più.

Ora ho scavallato e mi tocca riprendere in qualche modo la strada di casa, pur con una tappa in mezzo, ancora. Pronto a inzuppare di nuovo tutta la mia roba mi incammino ma non senza inserire qui la fotografia della più bella libreria che io abbia mai visto e dove sia stato, sono abbastanza certo lo sia.

Certo. I mercanti sono già nel tempio. Ma in questo caso sono più indulgente, anche perché c’è pure il caffè nell’abside in fondo e io, francamente, ci sto piuttosto bene. Mi sa che son mercante pure io.


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