minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: uno, treni del passato, mappozzoni di tufo, corsi principali, oleoteche

Il concetto di dintorno è da specificare, poi, promesso, provvedo. Mi chiamano per un paio di giornate di lavoro a Roma, però, dice, mi deve scusare ma non sarebbero consecutive, so che lei viene da fuori. Magari posso provare a… Oh, non scherziamo, non provi nulla, lasci tutto così che agli inframezzi ci penso io, incastrando qualche avventurella qua e là. Ma ci mancherebbe che mi comprime il lavoro e poi devo fare una tirata, peccarità. E allora, siccome Roma la mastico abbastanza avendoci vissuto, è l’ora di mettere in pratica un vecchio progettino: visitare qualche luogo a non più di un’ora di treno da una qualsiasi stazione romana. Il che, in tempi di alta velocità, vuol dire anche parecchio, in effetti. E la prima destinazione, con quel suo fascinoso montarozzo di tufo che ogni volta che lo vedo dal treno mi riprometto, è Orvieto.

Prendo un anacronistico intercity, manco pensavo esistessero più, che fa una tratta mirabolante: Roma-Trieste, fermando pure a Rovigo, Ferrara, Monselice, per dire, e in otto ore si vede un bel pezzo di Italia. Potrebbe essere un’altra idea. Orvieto sono tre quarti d’ora, destinazione valida. Il treno è proprio un intercity, l’involucro è intoccato da quando erano i treni principali, dentro un po’ riattato, con quegli scompartimenti da sei che si faceva conoscenza per forza. Ah, avessi una teglia di parmigiana, che bello sarebbe. E che bello un treno che non solo non va da un punto Roma a un punto Trieste a velocità supersonica fermando solo nei punti grossi ma un treno che va da un punto Roma a un punto Trieste facendo ventiquattro fermate in luoghi tutti ampiamente visitabili. Sul serio, ci si potrebbe costruire una signora vacanza, usando sempre la stessa linea, a multipli di ventiquattro ore.

Orvieto sta da parecchio su un panettone di tufo che è fortezza naturale su quattro lati, persino il più sprovveduto fondatore di città avrebbe puntato il dito e detto: qui. Attorno, tutta la piana, il fiume Paglia, affluente del Tevere, le colline sullo sfondo. Già fin dall’ottavo secolo, e dico avanti cristo, fu centro di scambi e commercio, la formula è ‘fiorente’, e in qualche modo lo è tuttora. Ma non è sempre andata liscia: in crisi dal quarto secolo, a causa dei dissidi tra classi sociali etrusche, nel 264 avanti cristo i nobili ben pensarono di chiamare in aiuto i romani i quali non sottomisero, non annetterono ma rasero al suolo, spostando la popolazione a Bolsena, Volsinii novi. Forse già intuirono che avrebbero avuto problemi da una tale roccaforte, chissà. Nel dubbio, si portarono via tutte le statue. Ci vollero secoli per ripopolare la zona, dalla caduta di Roma fu gota, bizantina, longobarda, poi libero comune, terreno di disputa tra guelfi e ghibellini, possesso del cardinalaccio Albornoz, che spadroneggiava da qui a Urbino e oltre, per poi diventare stabilmente possedimento della Chiesa. La città è formidabile, ci sono angoli in cui si potrebbe girare la biografia di Tommaso d’Aquino togliendo solo un paio di lampioni, altri in cui il Rinascimento esplode in gloria, luoghi stratificati per millenni, un duomo da pagina tre dei manuali di storia dell’arte, secondo solo a Siena e pochi altri, che a guardarlo tutto serve una vita, quella meraviglia del pozzo a doppia scala elicoidale di Sangallo per andarsi a prendere l’acqua cinquanta metri più sotto, resti di templi etruschi e il sepolcro di Braye di Arnolfo di Cambio, che detterà la regola per le nobili sepolture per secoli, una chiesa medievale con torre dodecagona che sta sopra una paleocristiana che sta sopra un tempio etrusco che sta sopra resti preistorici villanoviani e sì, mi dice la signora, ci hanno fatto anche il funerale di Anna Marchesini. Che brava che era, dice. Vero.

Come le città costruite su una rupe, per quanto piatta, ha una via principale che la attraversa per il lungo che ne è, ovviamente, il luogo più frequentato. Bergamo, per esempio. E se il turismo è oggi l’attività principale, va da sé che il corso è un’irresistibile sequenza di piattoni di ceramica, armature, oleoteche, delicatezze locali a base di cinghiale, persino la drogheria degli svizzeri, centrotavola di ceramica con i limoni, scudi, vini, elmi, tavoli a intarsio cosmatesco, limoncelli e liquori locali, umbrichelle, negozi di vestiti con lettere a caso, Alkimye, scarpe, olii al tartufo, gallerie d’arte, norcinate, mondi della pizza, cancelletti in ferro battuto, centrini ad uncinetto, mangiarini in ogni dove. Normale, è così ovunque tra Umbria e Toscana. Basta però, come sempre, svoltolare un angolo e tutto cambia, meravigliosi vicoli e vie coronate dal tufo giallo delle case. In A1, verso nord, tutti fermi, vi vedo. Sono tutti camion.

Le motivazioni che portano a scavare un pozzo di cinquantaquattro metri nel tufo possono essere varie e di certo importanti. Nel caso di Orvieto, papa Clemente VII, ritiratosi in città dopo il sacco di Roma, temeva un ulteriore assedio dei lanzichenecchi e garantirsi delle risorse d’acqua sicure divenne primario. Ma il mio pensiero, oggi di fronte a questo pozzo ma come di fronte agli acquedotti romani, non può che andare alla situazione attuale, alla crisi idrica che stiamo vivendo e che, presumibilmente, ci accompagnerà da qui in avanti, al fiume Paglia qui sotto che è un rivoletto e le campagne attorno gialle se non proprio attorno alle coltivazioni, alle piante che, ovunque, mostrano sete e fatica. La ricerca e la cura dell’acqua, la sua conservazione e trasmissione, fanno parte della nostra storia. Nessuno si è mai permesso di sprecarla, perché averla costava fatica, molta. Solo noi, oggi, ne consumiamo in modo abnorme, ne buttiamo ancor di più, la consideriamo una sostanza, nemmeno più un bene, qualcosa con cui far lavare l’auto e, peggio, in cui defecare. Dovremo tornare indietro, già scaviamo pozzi da cinquanta metri ma in pianura, figuriamoci, dovremo anche stavolta reimparare qualcosa che sapevamo già, dovremo spiegare con pazienza ai più lenti che serve attenzione e rispetto, che nulla è infinito e che ciascuno di noi, proprio perché tanti, conta poco in queste situazioni. Ancora.

Infine, ecco la storia dei dintorni. Appena ipotizzato Orvieto, tutti quei ficcanaso che poi ti propongono alberghi, ristoranti, attrattive, mi hanno suggerito anche il miglior dintorno della città. Eccolo:

Vabbè, bella forza, allora vale anche il reciproco. Miglior dintorno di Dalmine? Venezia. Capace anch’io.


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