minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno nove, ritorno

Con ritardo, eccomi. Sono tornato, più di dieci giorni fa, il diciassette, ma non ho dato conclusione al minidiario. È ora di farlo. Persino troppo facile dirne male ma se la colpa è di Trenitalia perché nasconderlo? Forse per non essere tacciato di pregiudizio nei loro confronti? Ma io lo ammetto, ho il pre-, il durante e il post-giudizio nei confronti di Trenitalia: dopo otto giorni di treni di ogni nazione, compagnia e colore, tutti mediamente in orario e secondo promesse (quello che c’è scritto sul biglietto), il viaggio di ritorno è stato più complicato del previsto. Bene la minitratta Worms-Mannheim, ferrovie tedesche, e quando si è trattato di prendere il treno da Mannheim a Milano (tratta interessante, il Milano-Francoforte, peccato per la gestione Trenitalia) ci ho messo poco a capire che non era il treno atteso. Infatti, si trattava di un treno tedesco in sostituzione di quello italiano, rotto, con destinazione Basilea. A Basilea, treno locale fino a Lugano, da lì altro localone per Milano, senza farsi mancare una bella sosta di un’ora a Monza per «rottura del materiale rotabile». E non solo, la rottura. Comunque, quattordici ore di viaggio in cambio delle sette promesse, treni locali al posto di eurositi. Rimborsi? Manco a parlarne. Che la cosa è minimamente accettabile se uno parte per la vacanza ma se torna mica tanto.
Perché, dunque, racconto queste piccolezze di treni mancanti e sostituiti senza avviso? Perché è sempre un po’ la stessa storia che si ripete: là fuori, intendo in Europa centro-occidentale, per un sacco di motivi vivono meglio di noi. Poi possiamo discuterne, e parecchio, ma per quanto riguarda l’efficienza dei servizi di base, la cortesia, il rispetto e la correttezza delle aziende verso il cliente, la chiarezza della comunicazione, non c’è partita. Poi è chiaro che uno, vivendo in Italia, si adegua e nulla è insopportabile ma quando capita di fare il confronto è davvero un po’ umiliante. Vabbè, solita solfa. Anche le gommosità nei distributori automatici hanno, loro. Mmm.

Dice il proverbio lucchese:

Hai voglia di girare il mondo e rigirallo,
se parti ciuco non tornerai cavallo.

Com’è vero. Non sono tornato cavallo però, però sono tornato un pochino meno ciuco, perché qualche cosa ho visto, qualcosa ho imparato, ho ascoltato qualcuno e due domande me le sono fatte. Ciuco resto, chiaro, ma non quanto lo sarei rimasto stando a casa. Forse, almeno, ciuco più riposato e rilassato e con qualche chilometro in più nelle zampe. Nel vastissimo campo delle riflessioni sul viaggio, migliaia di anni di speculazione sul tema, per le quali è inutile andare lontano o, addirittura, è inutile andare proprio, perché alla fine uno porta in giro sé stesso, con la propria testa, cuore e gambe (detta meglio: «Perché ti meravigli che non ti giovino io viaggi? Tu porti in ogni luogo te stesso; ti incalza cioè sempre lo stesso male che ti ha spinto fuori», per citarne due dico Socrate e Orazio), devo dire che mi ci riconosco fino a un certo punto: il bello del mio andare in viaggio e che ci vado con la versione migliore di me. La versione curiosa, aperta, spensierata o quasi, la versione che si muove e non vorrebbe mai fermarsi, la versione disponibile al dialogo, paziente e gentile, nei limiti del possibile. Questo mi piace, mi piace anche che i muscoli vadano meglio di giorno in giorno, il fiato pure, più si cammina e meglio è, più peso si porta e… no, quello no. Il movimento riequilibra tutto, porta sonno buono, fame giusta, stanchezza corretta.
Non vedo l’ora di ripartire. E di tenerne memoria per chi ne avrà voglia. Per ora devo ringraziare tutti coloro che hanno dato una scorsa, una fugace vista, una lettura attenta, un commento, un riscontro, una parola di ritorno, mi hanno riferito di una risata: grazie. Io ho buttato giù di giorno in giorno, di panchina in panchina, spero di essere riuscito a trasmettere la necessaria leggerezza per raccontare un piccolo viaggio di esplorazione ai tempi della pandemia mondiale. È stato un rimedio ai mesi chiusi in casa, ai pomeriggi a guardare la mappa e fantasticare, mettere i segnalini e guardare le fotografie. Cosa succederà nei prossimi mesi? Saperlo… Di sicuro bisogna approfittarne finché si può, godendone sinceramente, senza quell’aria da schiaffoni che impera al momento fatta di foto in posti da sogno e commenti del tipo: «eeeh, quest’anno Italia…» con tono rassegnato. Maandéadaviàlcul.
Mi ripeto ma per sincerità: grazie a chi c’è stato in questi otto giorni. E grazie a chi vorrà condividere qualsiasi cosa in futuro in modo reciproco, ne sarei contento.
E ora, via con la vita normale: pagamento TARI, oplà. Le cose di trivigante continuano, i viaggi tra un po’.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno otto, Germania

Ultimo giorno. Da Coblenza a Worms, «Dieta» e «Concordato», via Magonza, che vuol dire Gutenberg e la stampa a caratteri mobili. Il percorso è sempre lungo il Reno, stavolta in discesa – e qui lo devo dire, mi sono trattenuto finora a fatica: il Reno va da sud a nord; ma come fa? In salita? – e lungo quello che è solitamente chiamato il «Reno romantico», perché fatto di paesini sul fiume, dolci colline con vitigni e celebrato dalle opere dei poeti tedeschi e dei pittori inglesi. Io oggi lo vedo così:

Ahhh, romantische. Beh, meglio così, si accorda di più al mio umore di oggi. Mentre, ormai, non ho più molto da dire sulla gestione del covid-19 in Germania, perché quello che avevo da raccontare è detto, leggo qua e là altre notizie sull’Europa e mi interessa sempre il caso svedese. Come è noto, la Svezia ha fatto una scelta razionale all’inizio della pandemia decidendo di non optare per misure rigide di lockdown, sia per una questione culturale – nei paesi nordici e in Svezia in particolare è molto forte il concetto per cui lo Stato è al servizio dei cittadini e non può e non deve limitare in nessun caso le libertà individuali, tanto meno avere un atteggiamento paternalistico come spesso accade da noi – sia per una questione economica, ovvero per provare a non deprimere l’economia delle piccole aziende e negozi. Certo, poi la Svezia è un caso particolare, con circa dieci milioni di abitanti concentrati in una sola grande città e poi molto isolati tra loro nel resto del paese. Ho notato un certo piacere in tutta la stampa europea nel sottolineare come l’andamento dei contagi e dei morti in Svezia non andasse per niente bene e come la scelta fatta fosse, in sostanza, sbagliata. Ora, a parte che i conti andrebbero fatti alla fine, perché è abbastanza comprensibile come le cose da loro possano essere accelerate rispetto a noi che ci siamo chiusi in casa, ma in ogni caso la valutazione generale e diffusa è che si sia trattato di un approccio sbagliato, complice anche il fatto che il loro ministro della sanità ha ammesso a un certo punto che si aspettavano un numero inferiore di decessi. Dopo aver sottolineato che non ha detto di aver sbagliato ma, semplicemente, che si attendevano risultati diversi, ora la loro situazione è questa: quasi 75mila casi di contagio da coronavirus, con più di 5.500 morti. E questo è il disastro svedese, secondo quasi tutti i commentatori. Va bene. Sarò tendenzioso, e lo sono, ma a me un territorio di dieci milioni di persone fa venire in mente un’altra cosa. Sì, la Lombardia. E come sono i numeri della Lombardia? Quasi 95mila casi di contagio e quasi 17mila morti. Ah.
Beh, ma questi sono i conti della serva, sono certamente due situazioni chiaramente molto diverse.
Tornando a Worms, tra i numerosi accadimenti della Storia avvenuti qui uno memorabile è l’incontro tra Carlo V, imperatore che torna sempre bene o male nelle storie di queste zone, e Lutero. Convocato alla presenza dell’imperatore per meglio spiegare le cose che andava dicendo sulle indulgenze e i malcostumi della chiesa romana, il frate ribadì le proprie tesi e confermò, anzi, che sarebbe andato avanti con la propria traduzione della Bibbia e con la scrittura delle proprie argomentazioni. Certo, già sapeva di godere della protezione del principe elettore di Sassonia, il più potente tra tutti, ma non dev’essere stato comunque semplice dirlo all’imperatore, a corte spiegata. Se il pensiero corre a Galileo, bisognerebbe tenere conto che Lutero non era a Roma, nell’occhio del ciclone, dove l’avrebbero volentieri gratinato senza pensarci due volte. Ecco, l’incontro tra l’imperatore, la corte e Lutero avvenne nell’aula del palazzo che si vede nella foto qui sotto:

E grazie, prima i francesi nel 1689 distrussero parte della città e poi gli alleati completarono il lavoro nel 1945 radendo al suolo tutto il centro medievale, risparmiando solo la cattedrale. Sorte peraltro comune a quasi tutte le città tedesche, a parte pochi rari casi non toccati dai bombardamenti, come per esempio Tubinga.
Domani piglio il treno e torno a casa, dove mi dicono che hanno finalmente tolto l’obbligo di mascherina all’aperto, deo gratias, e ci sarà modo, fin da domani, per trarre qualche conclusione in merito a questo breve giro di esplorazione dell’Europa ai tempi della pandemia. Di sicuro, la sensazione di stare a bordo della locomotiva d’Europa – che sarebbe la Germania e non la Lombardia – è forte, perché non avverto grosse manifestazioni di crisi economica, anche se il PIL è in discesa, ed è ancor più forte quando faccio un bancomat e la macchinetta mi sputa un bigliettone da cento euro nuovo nuovo anti-falsificazione come da noi non ne avevo ancora visti. Ed è un bel po’ che sono sul mercato, da noi i bancomat offrono solo i venti euro o giù di lì. Qualcosa vorrà dire. E ho visto più di una volta pagare conti con banconote da duecento (davvero? esistono?) e due volte da cinquecento. Il fine economista che c’è in me dice che questo qualcosa vuole dire ma non è il caso di dirlo proprio ora.

Bene, ci sentiamo domani, magari, o a breve e grazie a tutti quelli che hanno seguito e non si sono manifestati. Ancor più grazie a chi, invece, ha deciso di farlo. Servono sempre riscontri, anche negativi, perché se no uno non prende le misure, ma se qualcuno mi dice che si è divertito, come è successo, a me fa immensamente piacere e dà senso a tutta la faccenda. Ora sono quasi le sei e io mi devo sbrigare ad andare a cena, altrimenti resto fuori e mi tocca mangiare gli orsetti gommosi che, iddio li benedica, in albergo mi hanno messo sul cuscino come benvenuto. Grazie, signori della civiltà gommosa e, dunque, superiore.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno sette, Germania

Prendo la piega del ritorno, in senso ampio, e quindi compio un triplo salto ferroviario: da Lovanio a Liegi (che squadrone lo Standard Liegi quand’ero ragazzino, insieme all’Anderlecht… e vogliamo parlare della Liegi-Bastogne-Liegi?) a Colonia, altra frontiera, a Coblenza, più a sud mantenendo lo stesso lato del Reno e costeggiandolo di nuovo. Coblenza – in Italia fino agli anni Venti chiamata «Confluenza» – è nota per essere, appunto, alla confluenza tra la Mosella, bellissimo fiumone che nasce dai Vosgi in Francia, e il Reno. Il posto, va da sé, è incantevole: chiunque fonderebbe una città alla confluenza di due grandi fiumi. Figuriamoci, le abbiamo fondate su ogni fiume utile, quando ce ne sono due è irresistibile. Ci penso, mmm, città sulle confluenze… vediamo: Lione, vincitrice su tutte, facile. Poi? Beh, Belgrado, altra confluenza notevole. Altre? Non le so, ricordo si sia detto qualcosa su Wuhan, sempre quella, ma non ci metto la mano sul fuoco. Eccola, la confluenza di Coblenza, la conflublenza.

Bello è bello, infatti il luogo è abitato pressoché da sempre, età del bronzo, poi incastellato dai Romani, sempre ansiosi sul confine del Reno, poi dai nipoti di Carlo Magno che proprio qui decisero la spartizione dell’Impero e così via, fino alla Germania moderna. Che per celebrare la bellezza del luogo e l’amenità dei vitigni sui dolci pendii della valle del Reno hanno ben pensato di piazzare cinquemila sobrie tonnellate di bronzo e pietra per celebrare il Kaiser, proprio alla confluenza (è da dove ho fatto la prima foto).

Ben fatto, cari. Erano poi così convinti della bontà della scelta che nemmeno il fortunoso colpo di culo di un bombardamento alleato che ha distrutto la statuona li ha fatti desistere: ci hanno messo un po’, hanno fatto colletta, ma la statua l’hanno ricostruita. Identica. Peccato, non saper cogliere le occasioni.

Una delle cose belle da far sul Reno è guardare le chiatte. Enormi, lunghissime, alcune sono addirittura doppie perché ne hanno agganciate due insieme e raggiungono tranquillamente i centocinquanta metri, trasportano carbone, petrolio, container, gas, e hanno sempre su una o due auto perché una volta a destinazione i piloti tornano indietro e prendono un’altra chiattona. Con gli opportuni giri, dal delta del Danubio verso ovest, si può fare dal mar Nero a Rotterdam tutto via fiume con questi bestioni, o quasi. Una volta a Norimberga, più di dieci anni fa, avevo conosciuto un simpatico rumeno che faceva questo lavoro e mi aveva pure invitato a fare il giro con lui. Io, allora, declinai l’invito e a volte ci penso, un po’ mi sarebbe piaciuto farlo. Forse, invece, ho fatto bene a non accettare, perché sarei magari finito a far da preda a una battuta di caccia in Serbia, chissà mai. Il Reno fa delle enormi e placide anse, però ne fa tante, e per far curvare le chiattone bisogna impostare la curva alcuni chilometri prima e prenderla in derapata, se così si può dire. Curvi a Cremona per girare a San Benedetto Po, per spiegare.

Un’amica molto cara mi ha fatto gentilmente notare che questo mio guardare le manovre delle chiatte sul Reno – cosa che sto facendo proprio ora mentre scrivo e cosa peraltro di famiglia perché piaceva molto anche al mio papà – è solo una variante più sofisticata del guardare il cantiere sotto casa. Ho colto l’allusione di genere e sull’età. Puntualizzo che però, a mio scagionamento, io non ho l’abitudine, ancora, di gridare ai piloti delle chiatte che no, secondo me non si fa così. O guardarli con sufficienza perché io lo saprei far meglio. Non mi pare, non ancora. Io li guardo con l’ammirazione che avevo a cinque anni per i piloti delle ruspe o dei treni, sì, preferisco mantenere la visione poetica dell’infanzia, scelgo quella. Gira, bello, gira, che devi girare ora, mica dopo.

Questo discorso mi porta dritto dritto a una cosa che non mi aspettavo di Coblenza: è un luogo turistico, questo lo immaginavo, il clima è piacevolissimo, mai troppo caldo, è ben servita, ben organizzata ed è, come dirlo?, la Villa Arzilla di Germania, la Florida tedesca, la Cocoon del centroeuropa, insomma l’età media è senza esagerare cinquemiladuecento anni. Anziani, anziani ovunque, ribaldi e prepotenti, con i cappelli a punta dell’esercito guglielmino o con enormi birre in entrambe le mani, spadroneggiano dappertutto. Ed è il loro luogo, è fatto su misura per loro, basti a testimonianza che non c’è il bike sharing ma il Comune mette piuttosto a disposizione i deambulatori gratis. I girelli, li prendi dove vuoi e li molli dove puoi. Come a Parigi e in tutte le capitali ci sono i monopattini, qui ci sono i girelli. Cadauno due foto se no, come me, non ci credete.

Ho un po’ paura, girano in gang e sembrano piuttosto aggressivi. In Germania, poi, non so a voi ma a me se capita di vedere persone davvero vecchissime con gli occhi azzurri penso invariabilmente ai nazisti scampati o nascosti, tipo quelli processati a novantanove anni perché responsabili del campo di Treblinka o cose così. Man mano che passa il tempo la cosa diventa sempre più improbabile, mi rendo conto, ma il pensiero resta. Tutta questa concentrazione di anziani, invece, mi pone un problema, quello della cena. Spiego: uno degli inconvenienti del viaggiare da soli è che nei luoghi turistici capita spesso che non diano il tavolo a una persona sola. Perché salta un coperto, chiaro. La prima volta mi capitò a Firenze, dove i ristoratori sono proprio arroganti, e poi in altre località, anche a Spira qualche giorno fa. Di solito, aggiro la cosa andando a mangiare prima. La cosa è però agevolmente fattibile in Spagna, a Napoli, a Palermo, ovunque si mangi tardi, ma in Germania non sono noti per le cene notturne. Bene, devo anticipare notevolmente. Ma se sono pure in un luogo pieno di anziani, dediti com’è noto alle cene diurne, devo anticipare sull’anticipo, il che vuol dire che – adesso sono le sei meno un quarto – io tra mezz’ora al massimo devo essere già con le gambe sotto il tavolo. Forse è già tardi. Mi guardo attorno. Dove sono tutti i vecchi? Cacchio, sono già tutti andati, maledizione. Niente, devo andare, troverò i parcheggi dei ristoranti tutti pieni di girelli, accidenti a loro. E poi mi tocca andare a letto alle otto. Bene, molto bene. Mi vendicherò, sappiatelo.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno sei, Belgio

Un pasto al giorno lo devo pur fare. Capita raramente di trovare il posto giusto, il posto del viaggiatore: un posto piccolo, spesso a conduzione familiare o tra amici, di cucina tipica del luogo, magari senza menu ma con le proposte del giorno. E lì non si deve ordinare, ci si deve fidare e affidare. Altrimenti, si finisce a mangiare sempre le cose che piacciono e che si conoscono già. Posti, insomma, come dovrebbero esistere anche da noi, mi limito alla Lombardia: un minestrone molto buono, una frittata notevole, delle polpette ottime. Sarebbe già molto. Cose così, basta con le acciughe del cantabrico adagiate su un letto di mandorle del Kerala accompagnate da una fonduta di Emmenthal del Lagenthal. È raro però capita e a me ieri sera è capitato: ho trovato il posto giusto. Mi sono affidato, si capiva che sarebbe andata bene. Please, choose for me: the most dutch thing you have. La cosa più olandese che avete. E così è: uno sbobbotto di patate e spinaci a far da letto a una polpettona di carne formato palla da tennis, da innaffiare con un intingolo simile a quello per gli arrosti e, infine, una manciata di pezzi di tipo-feta gettata sopra con nonscialans. Proseguiamo, via con il dolce più olandese: coppetta mezza yoghurt acido e mezza vaniglia dolce e uno sciroppo di frutti di bosco da buttar sopra a volontà. Beh, tutto ottimo. Sarà il posto, sarà che sto bene, sarà che a me piacciono queste cose perché ho il supergusto e tre sapori insieme mi mandano in confusione, insomma una meraviglia. La lattaia di Vermeer a punto croce appesa sul muro (si vede, qui sotto) è stata la ciliegina. Tutto perfetto.

La foto mi è proprio venuta storta, non è un vezzo.

Piove, di quella pioggerella che dura tutto il giorno e non rompe al momento ma sulla distanza. Non importa, è il bello del viaggio con lo zaino. Vado, come da piani, verso il Belgio. A Machelen, o Malines a seconda che uno sia fiammingo o vallone, e mi convinco sempre più della mia idea di abolire il Belgio per farne un territorio europeo comune. Il Belgio è colpa degli inglesi, me l’ha insegnato Barbero, che l’hanno incoraggiato e lo mantengono dal 1830 per avere un comodo sbocco in Europa per ogni evenienza. In Belgio qualche scoppola di più di covid-19 devono averla presa: le mascherine sono obbligatorie in tutti i luoghi chiusi, i pagamenti si devono effettuare con carte di credito, la distanza è predicata in ogni dove, i separatori in plexiglas ci sono a ogni sportello, in chiesa è proibito cantare. Eh sì. Niente tuseilamiavitaaaa, altrooiononhoooo (però fatta nella versione protestante). Per dire, in albergo mi fanno appoggiare la carta di identità al vetro per non doverla toccare, poi però la carta di credito quella sì, e la chiave di ritorno pure. Mah. Qui in città fanno tutta una campagna per la prevenzione da contagio da covid-19 che chiamano «2800love» che io, lo giuro, mi sono impegnato molto ma non ho capito cosa voglia dire. Anche uno locale non me l’ha saputo dire.

Tra le misure di prevenzione, anche qui chiedono i dati anagrafici in ogni bar o ristorante. Pronti: Ganesh Calindri-Duse, corso Unione Sovietica 18605 (è una via lunga), Malindi (Kenya), telefono il telefono della segreteria politica di Salvini. Note? Mmm, nessuna. E «Immuni» continua a non suonare.

Uno dei motivi per cui sono a Malines / Mechelen o in italiano storico Mellina è perché, oltre a essere una graziosa cittadina con un’enorme cattedrale gotica-brabantesca e un bel municipio, è stata la residenza di Margherita d’Asburgo. La faccio più breve che posso: morto Filippo il Bello e, di conseguenza, internata Giovanna di Castiglia (detta appunto «la Pazza», porella, esclusa per ragioni di successione), due dei loro sei figli furono mandati a educarsi in Spagna e gli altri quattro dalla zia Margherita, figlia dell’imperatore Massimiliano I. I quattro, dei quali tre femmine, furono tirati su in modo impeccabile da uno stuolo di formatori tra cui il più noto è certamente il futuro papa Adriano II. Margherita, due volte vedova e donna di grande carattere, cultura e capacità politica (e bellezza, si tramanda), ebbe la carica di reggente nei Paesi Bassi finché uno dei suoi nipoti, il maschio ovviamente, divenne imperatore come Carlo V. Il suo palazzo in città è uno splendido esempio di stile rinascimentale fiammingo. Qui sotto, Margherita in una immagine fedele di poco successiva. Figura molto interessante, Margherita, influente anche sul futuro imperatore e, mi pare, senza il tipico mento pronunciato degli Asburgo.

Nel pomeriggio mi sposto a Lovanio, venti chilometri sì e no, sede di un’università quattrocentesca nota e celebrata e che nel 1968, per le solite manfrine tra fiamminghi e valloni, venne scissa in due parti: la fiamminga Katholieke Universiteit Leuven (o KUL, certo), rimasta in città e la francofona Université catholique de Louvain piazzata a Louvain-la-Neuve, città che venne addirittura creata appositamente. Ora io mi ripeto: è possibile? No, non è possibile. S-m-ee-mmb-r-ar-ee il Belgio.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno cinque, Olanda

Alla fine, mi rendo conto, questo mio breve giro ha assunto una direzione geografica: seguire il corso del Reno. Preso a Basilea, costeggiato prima in Francia, poi in Germania, attraversato circa una quindicina di volte, fin qui, in Olanda. A questo punto, se così è, lo seguo fino alla foce, a Rotterdam, dove si divide in tre canali, dei quali solo il più piccolo continua a chiamarsi Reno (inferiore). A Rotterdam c’è un porto clamoroso, il più grande d’Europa, che merita (con quello di Amburgo) una visita. Siccome l’ho già visto, da lì decido di proseguire di qualche chilometro e vado a Delft. È la città di Vermeer, non quella dell’Oracolo. Quella sta più giù. Delft è nota per le maioliche, chiaro, e per la Calvè, sì, quella della maionese, oltre ad aver avuto un momento di gloria come capitale delle province unite prima che l’esplosione di una polveriera ne radesse al suolo metà (di Delft, non delle province). Non si può avere mezza capitale e quindi via.
Siccome, però, mi resta un po’ di tempo per vagolare a Utrecht, vado a vedere le opere dei cosiddetti «Caravaggisti di Utrecht», tre artisti cittadini che, in visita a Roma, furono folgorati, appunto, dai chiaroscuri di Caravaggio: Hendrick ter Brugghen, Gerrit van Honthorst e Dirck van Baburen. van Honthorst, noto da noi come Gherardo delle Notti, non è affatto un minore, anzi, produsse molto e con grande qualità, influenzando sia le generazioni successive dei pittori utrechtiani che, addirittura, in parte quella prima. Ecco un esempio significativo di van Honthorst, l’ho appena visto, la sensale (De koppelaarster), con un’eccezionale figura in ombra in primo piano al centro.

Devo ora dire che gli olandesici hanno messo in campo tutta una serie di contromisure ferree contro la pandemia che non avevo notato all’inizio. Mi scuso, quindi, per la mia, sempre sovrana, imprecisione. Infatti, in gran parte dei negozi è richiesto di pagare con carta e non con i contanti. Ciapa, contagio. E poi in alcuni luoghi davvero piccoli ci sono dei separé tra i tavoli ma la cosa pare lasciata alla volontà dell’esercente. Infine, è prescritto il distanziamento, come da immagine qui sotto, e la mascherina nelle stazioni ferroviarie. Bisogna quindi stare a cinque tegels da chiunque altro. Senz’altro, nel dubbio farò dieci, magari quindici. E la pandemia è spacciata.

Tra l’altro, in Olandia non è nemmeno obbligatorio il casco, figuriamoci una mascherina. Trovo ci sia sempre una certa confusione tra costi sociali e limitazioni della libertà individuale ma non è ciò che mi interessa, al momento. Fedele alle promesse di ieri, adesso devo parlar male degli olandesi e poi esporre il mio piano per l’Europa. Sono profondamente convinto che la presunta tolleranza e apertura dei popoli nordici e in particolare degli olandesi sia, in realtà, nient’altro che una molto più banale e meno poetica indifferenza. La questione sessuale, le droghe leggere e non, l’assenza di giudizio sui comportamenti individuali in realtà sono solo risvolti positivi di un sostanziale disinteresse per le sorti altrui. Conseguenza, peraltro, del calvinismo per cui se le cose ti vanno bene è segno di benevolenza del signore e, se ti vanno male, è chiaro che te la sei meritata, in qualche modo. Infatti, finché si è all’interno del sistema, si lavora, si pagano le tasse, si guadagna, tutto va bene. Basta uno scostamento, una malattia, uno svarione, un periodo di confusione, e si è fuori. Basta. Chiuso. Poco tempo fa i miei amici V. e L., gestori di un bed & breakfast, mi riferivano la frase di un ospite olandese, illuminante in questo senso: «Noi siamo così, se tu mi offri il tuo letto, io accetto e ti ringrazio. Ma non ti offrirò mai il mio». Amen. Non vorrei fare di tutta l’erba un fascio, vostro onore, ma insomma, si consideri anche che sono un paradiso fiscale alla faccia di tutto il resto dell’Europa unita, vedi FCA, e io ho concluso, signor giudice. Ora (ecco il piano): siccome quanto detto finora è estendibile e amplificabile alla Danimarca, con l’aggravante delle vignette antislamiche di qualche anno fa e delle recenti dichiarazioni contro gli stranieri, con in più il fatto che i nazisti entrarono serenamente nel paese in bicicletta; siccome non è possibile che il Belgio ci abbia messo due anni per fare un governo e che stiano ancora rompendo le palle con le scaramucce tra valloni e fiamminghi di cui, francamente, importa nulla a nessuno; premesso questo, la mia proposta è una: Danimarca, Olanda, Belgio (e chi mi verrà in mente poi) diventano fin da ora territorio comune europeo, i loro governi sciolti, i loro re mandati tutti a Cascais, con evidente vantaggio per la gestione del parlamento a Bruxelles e per le fiscalità di tutti, per cominciare. Augh! Ho parlato. Sembra una stronzata ma se ci pensate con calma vedrete che è una grande idea. Tutte le grandi idee all’inizio paiono stronzate.

Naturalmente, il fatto che io abbia delle riserve verso gli olandesi e il loro atteggiamento verso la vita, non vuol dire che non mi piacciano molte cose che fanno, numerosi olandesi presi singolarmente e parecchi posti in cui vivono. Delft è uno di questi, un gioiellino piccolo e ben tenuto. I canali sono tutti verdi ma è estate e ci sono le ninfee e poi, comunque, hanno un colore grandioso. Come accade a Salisburgo con Mozart, per fare un nome solo, anche qui celebrano il loro concittadino Vermeer in ogni modo senza averlo minimamente considerato durante la sua vita. L’errore è di allora, perché Vermeer è davvero notevolissimo, il pittore degli ambienti, della pacifica quotidianità, come è stato detto «della vita silenziosa delle cose». Non bisogna fermarsi al turbante o all’orecchino di perla (che già, comunque averne…).

Uno dei suoi quadri che amo di più, oltre alla lattaia, è la stradina di Delft, una meraviglia per proporzioni, fattura e soggetto.

Non potevo mancare, visto che la ricerca che l’ha individuato (il vicolo è dove abitava la zia zittella di Vermeer, Vlamingstraat) è recente, di vedere il posto com’è oggi.

Vabbè. La signora, però, c’è ancora. Infine, come dicevo all’inizio, Delft è notissima per le maioliche e, in particolare, la Royal Delft le produce ininterrottamente nello stesso posto dal Cinquecento. Ho scattato una significativa immagine della fabbrica oggi:

Domani, se tutto va secondo i piani, Belgio. Così spargo il germe anche lì e spiego loro la faccenda del territorio comune europeo.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno quattro, Olanda

Lascio Spira e faccio un balzo: dritto verso l’Olanda. Oddio, dritto: carretto fino a Mannheim, poi treno bello fino a Duisburg – luogo in cui qualche anno fa noi italiani abbiamo dato segno del nostro bel carattere prendendoci a pistolettate in una pizzeria – e poi altro treno veloce per scavallare la frontiera e arrivare a Utrecht. Che se ieri «Spira» significava «Dieta», «Utrecht» significa «Trattato di» (anche se spesso lo si chiama «Pace di») per chi si è dovuto smazzare le guerre di successione spagnola del primo Settecento. Un incubo. A Mannheim, tra il carretto e il treno bello, ho circa un’ora, me la sono ritagliata apposta perché voglio vedere il castello. A un certo punto, il principe elettore del Palatinato, il più importante, si spostò da Heidelberg, qui vicino, a Mannheim, facendosi costruire appunto l’enorme castello barocco.

Come è possibile apprezzare dalla foto, a Mannheim paiono essere tutti morti. O sono stati contagiati e appariranno all’improvviso come orda urlante per mangiarmi il cervello. Ahah, state freschi. A Mannheim c’ero già stato alcuni anni fa per un concerto degli AC/DC – al vicino circuito di Hockenheim, per essere precisi – ed è stato in assoluto il concerto peggio organizzato e, non bastasse, pure il più pericoloso. Mannheim ha due prerogative interessanti: la prima, tangibile, è che è una città a pianta quadrata inscritta in un cerchio non chiuso; per questo motivo, le vie non hanno nomi ma numeri e, guarda un po’, sembra New York per questo (il contrario, in effetti); la seconda, è che essendo una città industriale fin dall’inizio, ha assistito alla nascita di due fondamentali mezzi di trasporto moderni: la draisina, antesignana della bicicletta, invenzione del barone von Drais nel 1817 e la prima auto, il triciclo dotato di motore di Karl Benz del 1885, che poteva arrivare all’inebriante velocità di 12 chilometri all’ora. Il doppio del passeggio, non prenderei la cosa con leggerezza.

Mentre sono in treno verso Duisburg, qualche cosa sulle ferrovie tedesche devo dirla. Quindi, vi avviso: inizia l’«Apologia senza freni dì Deutsche Bahn (facendo capire senza dirlo che Trenitalia al confronto fa cacare)». Potete saltare da qui, se la cosa non vi appassiona. Dunque, dopo aver acquistato il biglietto con la DB App, mi arriva una conferma di questo tipo. Ve ne sottopongo alcuni elementi.

Vado a iniziare. Primo fatto: a fianco dell’orario e del luogo di partenza, indicano il binario. Grazie, signori, io vi dico: grazie. Ed è pure giusto, sempre, perché se dovesse cambiare ti inviano una notifica con largo anticipo. Chiunque abbia sperimentato delle coincidenze strette sa benissimo quanto sia comodo sapere in anticipo il binario di arrivo (c’è anche quello) e quello di partenza dell’altro treno. Iddio vi benedica. Secondo, non trascurabile: indicano la destinazione finale del treno, altra cosa comoda, rispetto a conoscere solo la propria destinazione finale che, di solito, è una fermata intermedia e non è citata nei tabelloni delle stazioni. D’accordo, con l’ora e il numero del treno si fa lo stesso ma così è più comodo. E non costa niente farlo. Terzo elemento, prima di arrivare all’estasi finale: questo è un elemento-pandemia, nel senso che prima non c’era, ovvero l’avviso giallo sotto che avverte quando più della metà dei biglietti è stata venduta e, dunque, non ci sarà il distanziamento. Che, peraltro, in Germania non è obbligatorio sui treni, quindi è solo una gentilezza avvisare. Ed eccomi alla sublimazione: il pulsante rosso «Komfort Check-in» permette, schiacciandolo, di inviare al capotreno l’informazione che uno è al proprio posto e, ovviamente, ha il biglietto. Il che significa, in sostanza, che non gli verrà chiesto il biglietto né altro per tutto il viaggio, il che significa, ancor più in pratica, che ci si possono mettere le cuffie, sballarsi di metanfetamine e dormire per le ore successive in tutta tranquillità. Se vi pare cosa trascurabile, siete dipendenti di Trenitalia o viaggiate davvero poco in treno. Come non bastasse, la stessa app permette di cambiare posto, perché lo si scambia o se ne preferisce un altro, e segnalarlo con il check-in di prima, senza quindi dover pronunciare la frase: «Salve, io avrei il posto 14b ma mi sono spostato…». La differenza grossa, in questo, è che qui i posti liberi sono segnalati, così uno sa che non si siede al posto di un altro che salirà dopo (non potendosi così fare di metanfetamine, dovendo stare sveglio). Una volta era così anche da noi, con i bigliettini di carta sui treni a lunga percorrenza, poi abbiamo perso la bella abitudine. Tutte queste sono piccole cose in sé, siccome però costa molto poco farle e renderle disponibili ai viaggiatori – i dati ci sono già tutti – e la qualità del viaggio ne guadagna moltissimo, io chiedo: perché non lo fate, trenitalioti? Sì, io vi odio. Fine dell’«Apologia senza freni dì Deutsche Bahn (facendo capire senza dirlo che Trenitalia al confronto fa cacare)». Anche se credo di averlo detto.
Il compagno di viaggio più simpatico del tragitto tra Mannheim e Colonia è questo signore ultrasettantenne con i sandali, lo zaino in pelle e la mascherina con la bocca rossa warholiana dei Rolling Stones. Lunga vita al rock – intendo come atteggiamento di vita, in questo caso – amico. Buon viaggio, ovunque tu stia andando.

A Utrecht ci sarei dovuto venire a maggio, per sentire Nicole Atkins (qui una sua cosa vecchia, divertente, e un’altra, dai), poi la cosa è ovviamente saltata. Eccomi qui, ora. Alla frontiera nessun cenno – e si vociferava di obbligo di prenotazione alberghiera da esibire – in stazione quasi nemmeno e mi rendo subito conto: nessuno, dico nessuno, ha la mascherina. Dentro e fuori, sopra e sotto. Ma non ce l’hanno nemmeno da accompagnamento, niente. Agli sportelli, anche alla biglietteria della stazione, hanno la parete di plexiglas e null’altro. E nulla è richiesto. Dopo un po’ di vagolare, stranito perché ormai mi fa effetto entrare al chiuso e non avere delle cose davanti alla faccia, mi accorgo che ci sono dei tizi, tipo agenti anti-movida da noi ma per il traffico, che gestiscono i flussi di persone, dirottandole in strade rese a senso unico pedonale. Hanno anche, come si vede sotto, pannelli a messaggio variabile e segnaletica varia. E fermano e direzionano davvero le persone.

Risultato di cotanto sforzo? Tutti insieme assembratamente. Belli, felici e avvinazzelli. Che dire? Sfugge il senso della gestione dei flussi se, poi, la faccenda si esplica in questo modo, lasciate perdere e ognun sia libero di fare ciò che gli va, no? Che, tanto, del doman – almeno in Olanda – non v’è certezza.

In albergo, ed è la prima volta, mi fanno firmare un’autocertificazione, tipo le nostre ma senza tutta la pappardella leguleica, in cui dichiaro sotto la mia responsabilità di non aver fatto, di non aver toccato, di non aver tossito, di non aver visto e così via. Tutto attorno, vita normalissima. Di più: vita estiva normalissima, locali, cene, balli, casino. Utrecht è città ad alta densità di studenti universitari, quasi trentamila, il dieci per cento del totale, difficile tenerli nelle gabbiette a guardarsi da lontano o chiedere moderazione. Che poi nemmeno ce l’hanno anche gli altri olandesiani, la moderazione. Bene, fate vobis, gestitevi come credete però non dovreste, olandesi, romperci le palle sul MES e sugli aiuti europei. Ecco, dunque, il programma del minidiario di domani: cose cattive sugli olandesi e il mio piano per l’Europa.

Nel frattempo, a sera, succede una cosa, e io non so se rallegrarmi o preoccuparmi.

Non vi dirò mai, MAI!, la verità riguardo le pratiche degli alieni nei rapimenti di esseri umani, specie su quelle cose brutte delle sonde anali. Non ve lo dirò mai. Capito? Mai. Non insistete.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno tre, Germania

Viaggiare con i mezzi pubblici nella metà settentrionale della Francia presenta sempre un problema: per andare in un posto qualsiasi, anche a pochi chilometri ma che non sia sulla stessa direttrice, tocca andare a Parigi e prendere l’altro raggio della ferrovia. L’attrazione della capitale è irresistibile per i binari, mancano le tratte secondarie, i collegamenti. Che poi, non è mica facile girare per centri medio-piccoli a distanza tra loro usando il treno, spesso per fare cento chilometri ne devo prendere tre. La cosa facile è girare per le città grandi, modello Interrail, ma non è quello che voglio ora. Per cui, le opzioni sono due: andare a Nancy, poi scansare il Lussemburgo – ho già dato – e tentare di andare verso Bruxelles evitando Parigi, cosa che pare abbastanza impossibile, oppure valicare il Reno e andare in Germania per infilarmi sulla grande direttrice Monaco-Stoccarda-Francoforte-Colonia, puntando una delle città piccole che vorrei vedere da sempre: Spira (Speyer in lingua locale). Perché se, come è capitato a me, si incappa nella storia di Cinque e Seicento, quando uno dice: «Spira» io rispondo pavlovianamente «Dieta», anche se ho imparato da poco cosa sia davvero la Dieta imperiale. Mai che lo spieghino. Anche di Worms, che è lì vicino, potrei dire lo stesso ma me la tengo per un prossimo giro. Piano di viaggio: ancora freccia dell’Alsazia fino a Strasburgo, poi freccia del Reno fino a Offenburg, poi un miracoloso intercity fino a Karlsruhe e, infine, la freccia della Renania-Palatinato fino a Spira. Centottanta chilometri, quattro treni, un confine nazionale, e delle frecce che tutto sono fuorché frecce, forse nel 1925. Tempo medio di coincidenza: sei minuti. Ora: devi essere sicuro di te stesso se metti così poco tra un treno e l’altro, da noi saremmo nel regno del non possibile ma qui, bravi, ce la fanno. Almeno finora, visto che sto scrivendo dal terzo dei quattro treni.
A Strasburgo constato ancora l’obbligo delle mascherine all’interno dei negozi e dei luoghi chiusi e la libertà all’esterno, l’assoluta mancanza di prove di temperature, mai vista una né qui né in Svizzera, comincio a pensare che sia un’invenzione del tutto italiana. E che, magari, tra qualche mese, possa saltar fuori che il cognato di Fontana produce gli affari per provare la temperatura sulla fronte. Che brutta cosa, parlar male delle persone. Vedremo in Germania. Di sicuro il distanziamento produce gli stessi effetti che da noi, ecco la coda per un ufficio postale in centro città, e sono a malapena le nove. Sarà più difficile d’inverno, se queste condizioni proseguono.

Strasburgo è affascinante, ne conservo un ottimo ricordo: ha il bello di Colmar, i canali e le case a graticcio, e il Parlamento europeo, quindi la vivacità della grande città, una cattedralona gotica che emerge a sorpresa dalle case, è in una zona strepitosa, l’Alsazia, ed è abbastanza al centro per raggiungere comodamente parecchie regioni d’Europa. È tra le cinque città in cui vivrei senza esitazione. Consiglio. A ogni modo, io procedo, saluto e scavallo il Reno.

Appena entrato in Germania, giuro, vedo un cerbiatto in un campo. Lo fanno chiaramente apposta, saranno turchi camuffati. In tutte le stazioni e sui binari le mascherine sono obbligatorie, come sui treni del resto, ma i posti sono liberi, ognuno si siede dove vuole e non è prescritto distanziamento. Viene praticato comunque, sì, ma non è ritenuto necessario. Fuori, invece, quasi tutti senza mascherina e gel a piacimento ma non troppo. Arrivo finalmente a Spira, che mi accoglie con questo volantino promozionale:

Beh, tra tutti gli slogan possibili – «Lebenslust» è la juàdevivr – direi che l’accoglienza è delle migliori. Spira è famosa, oltre che per le Diete, anche per la cattedrale romanica imponente, affacciata sul Reno, nella quale sono stati sepolti numerosi imperatori e consorti. Tra i tanti, c’è anche quell’Enrico che a Canossa andò a chiedere scusa al Papa. Il cielo è notevole e si muove di continuo, mi piace moltissimo.

La novità rispetto alla Francia e alla Svizzera, ma non all’Italia, è che nei bar e nei ristoranti chiedono l’indirizzo e un recapito telefonico per avvertire in caso di contagio. Mmm, eh no, non mi conviene: io poi scrivo «Italia» e «Lombardia» e poi voi crucchi al primo segno di calore venite a prendere me e mi additate come l’untore. E poi mi impalate sulla piazza della cattedrale con la scusa della salute pubblica.

Così, nel primo bar in cui mi reco per la merenda rituale con cappuccino da un litro e torta al Quartzo, sbrigo la questione anagrafica. Aieie Brazorf no, troppo sfacciato, ma ecco qua: Osiris Amanpour, residente a Koronenburg, in Mordovia, e il numero di telefono della sede della Lega a Milano. La distanza regolamentare, infine, qui è di un metro e mezzo dappertutto, una via di mezzo tra i nostri due metri all’esterno e il metro all’interno, il che dimostra come tutta la faccenda sia affrontata con rigore scientifico. Niente temperatura nemmeno in Germania anche se, magari, mi viene il dubbio che qui possano avere i cecchini sui tetti con lo scanner incorporato nel mirino del fucile di precisione. Per risparmiare tempo, efficienza germanica.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno due, Francia

Lascio la Svizzera, bella ma scomoda per alcuni motivi: i loro soldi, anche se la cosa è tollerabile dato che ho pagato persino il bagno in stazione con carta di credito e, quindi, si potrebbe vivere qui una vita intera senza mai avere della carta moneta loro; le sciocche prese elettriche, diverse da ogni altra al mondo, che se si spinge caricano lo stesso ma resta il dubbio di stare un filino forzando le cose; l’assenza di roaming, cioè lo dico meglio: il costo del roaming, cosa che almeno nel mio caso conta parecchio, per questioni di mappe, informazioni, acquisto biglietti, prenotazioni e minidiario, appunto. Scavallo in Francia, attraverso l’Alsazia (che goduria dirlo senza la Lorena) verso Colmar. Mi sa che in Franzosia la faccenda covid sarà più sentita.
Per andare in Francia basta camminare fino alla periferia di Basilea, tanto il confine è vicino. Prendo il treno più brutto del mondo, sarà la freccia dell’Alsazia, sembra i nostri regionali di Italia 90, il Rock, il Vivalto o il Thello, tutti mostruosi, chissà perché.

Un vecchio interregionale dei nostri colorato fuori e lasciato come allora dentro. Sarà un caso e non voglio trarne alcun tipo di deduzione, ma il treno non è svizzero, bensì francese e ahimè, ahinoi, ha l’aria condizionata rotta. Da trenitaliota, vorrei trarne un qualche tipo di soddisfazione però viene subito uno a scusarsi e gentilmente ci invita a usare una qualsiasi altra carrozza. Passiamo la frontiera, ora è Francia, quella meraviglia dell’Alsazia, colline, viti, fiumi e pianura, da qui a Treviri è una meraviglia. Riguadagno la possibilità di collegarmi con il telefono ed è davvero un’altra cosa, è finito il black out. In treno, tutti hanno la mascherina anche se a dirla tutta i ragazzi tendono ad averla più lasca, come da noi, ma i posti non sono distanziati, ci si siede dove si vuole. Arrivo in stazione a Colmar e, appena fuori, via tutti, niente mascherine. Non ci sono particolari avvisi, nei luoghi chiusi la mascherina si usa e nei negozi, nei quali le persone toccano la merce, è obbligatorio il gel disinfettante prima di entrare. Se poi uno desidera di gel ce n’è anche fuori. Ma all’aperto, liberi.

Non mi dilungherò mai abbastanza su quanto le stazioni ferroviarie siano i posti più utili per i viaggiatori come me. Si trova tutto ciò che serve: biglietti ovviamente, cibo, riparo e panchine in caso di attesa, cartoleria, libri e cartine, cartoline e francobolli, oltre alle cassette postali, in alcune addirittura dell’abbigliamento di emergenza, che so? kway, calze o magliette, insomma il paradiso del viaggiatore. Grazie, stazioni. Prendo una colorata insalata greca confezionata da una certa Betty Bossi, niente ha senso, da consumare al parco. E ora, Colmar. La città è nota, oltre che per un quartiere caratteristico chiamato «la piccola Venezia», perché ricco di piccoli canalini, per le case medievali a graticcio, moltissime, per essere la patria di Bartholdi, lo scultore della statua della libertà – per omaggiarlo ne hanno piazzato una copia più piccola e orrenda in uno spartitraffico, ne ho parlato qui – e, infine, per l’Altare di Issenheim. La Colmar che fa abbigliamento sportivo da noi non c’entra nulla.
Salto la statua della libertà e vado al museo Unterlinden per vedere l’Altare. Nel museo sono molto ligi, mascherine, gel e un percorso a senso unico che conduce per le sale senza possibilità di svagarsi o tornare indietro. Bisogna seguire le frecce e prendere alcuni ascensori, cui sono stati tolti i pulsanti per i piani proibiti. Anche da noi è così, più o meno. La misurazione della temperatura, finora, è prerogativa del tutto italiana. Brevemente, l’Altare di Matthias Grünewald è una pala d’altare del primo Cinquecento ed è detto macchina perché ha numerose opere sui lati in modo da poter essere configurato, girando i pannelli, a seconda del momento della liturgia dell’anno. Tra esse, c’è la crocifissione più drammatica della storia dell’arte e un clamoroso pannello delle tentazioni, che a me piace di più. Mentre per i nostri del periodo, dico Raffaello per dirne uno, la rappresentazione perfetta dell’anatomia umana era un fattore imprescindibile, a Grünewald non importa assolutamente niente, punta alla drammaticità della scena.

Al bar, al ristorante e nei luoghi pubblici non c’è alcun distanziamento, men che meno pannelli separatori sui tavoli, le persone stanno insieme in modo del tutto normale. Stessa cosa nei parchi e, in generale, all’aperto. Ciò mi conferma che la strizza (trad.: paura) che ci siamo presi noi in Lombardia è un caso isolato o quasi, nessuno qua fuori pare aver vissuto la stessa cosa e, per quanto posso vedere, avere un atteggiamento timoroso come molti di noi ancora hanno. È comprensibile, se hanno avuto meno problemi è giusto che si comportino di conseguenza. Certo, se già normalmente ho l’impressione che in Francia e Germania abbiano una qualità della vita migliore della nostra, adesso in tempo di pandemia la cosa mi pare ancora più evidente. Ma, dal mio piccolissimo punto di vista, posso dire ben poco di tutto il resto, ospedali, scuole, RSA, lavoro e così via. Per quel poco che vedo, non ci sono negozi chiusi o vuoti, non mi pare ci siano così tanti cartelli «affittasi» o «vendesi» come da noi, però dai due musei che ho visto e dal passeggio in città posso dire che anche da loro i turisti sono pochini. Ho sentito qualche tedesco a Basilea e qualche olandese a Colmar ma nell’ordine delle decine, paiono città normali e non città in alta stagione, soprattutto Colmar, di solito ad altissima intensità turistica. Niente pullman, per capirci. Domani mi muovo verso nord, stasera penso al dove e al come.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno uno, Svizzera

Si può fareeee. Ce l’ho fatta, sono fuori. È possibile valicare il confine, la coppola, lo scacciapensieri, l’asinello e il carretto con le nappine sono serviti, non se ne sono accorti e sono nella Svizzera verde. A parte la temperatura misurata con lo scanner un tanto al chilo in stazione Centrale a Milano, nessun controllo. A Domodossola due vivaci poliziotte con giubbetto antiproiettile mi hanno semplicemente chiesto se avessi nulla da dichiarare (aggiunta spontanea: carne, alcoolici… ma che? Niente più soldi?) e via, nonostante l’evidente confine con la Lombardia. Ahah, non mi riporterete indietro. In treno la mascherina è obbligatoria e devo dirlo, dando inizio a un tormentone ricorrente di questo minidiario, temo: non solo tutti la indossano ma nessuno in modo men che corretto. Niente naso fuori, sul mento, dietro la testa, appesa all’orecchio, niente. Respirano tutti bene. Su la mascherina e basta, poche storie, avranno una conformazione dell’apparato respiratorio diversa dalla nostra. Bene, la solita umiliazione degli italiani all’estero, oltre al fatto, come sempre, che nessuno telefona e se lo fa esce dallo scompartimento o lo fa rapidamente e a bassa voce. Però, bisogna dirlo, al di là della frontiera il cielo è più velato, non azzurrissimo come questo giovedì italiano, se ne deve tenere conto. E poi come si mangia in Italia, perdio.
Dopo un lago Maggiore splendente di luce riflessa, con le isole Borromee addirittura scandalose per amenità, attraverso la Svizzera, affiancando a un certo punto il treno per Zermatt e il Cervino, bello rosso che fa subito plastico ferroviario, punto il confine francese ma mi fermo a Basilea, voglio vedere com’è e così domani come prima cosa scavallo. Non c’è, devo dire, alcuna sensazione di emergenza, l’unico segnale tangibile al valico è stato un sms in tema covid-19 che raccomanda di seguire le indicazioni dell’Ufficio federale della Sanità pubblica, nient’altro. Nemmeno il solito messaggio di benvenuto dal nuovo gestore telefonico. Tutto molto tranquillizzante.
E così ancor di più appena arrivo a Basilea. Stento a capire, alcuni hanno la mascherina, altri no, sia all’aperto che al chiuso. Poi, dopo un po’, capisco che è a piacimento. Se uno desidera, mette, altrimenti non rientra nelle raccomandazioni sanitarie in senso stretto (distanza, disinfezione, sputazzi nel gomito). Ma nemmeno nei posti chiusi, il che è strabiliante per me, abituato agli ultimi mesi. Capita così che si veda gente in bicicletta con la mascherina che la toglie per entrare in un negozio, oppure novantenni senza e tredicenni con. Vado al Kunstmuseum, dato che ci sono una gran quantità di Holbein e Cranach che voglio vedere, oltre a un paio di Otto Dix sensazionali, per capire come funziona nei musei.

Visto? Niente prescrizione per la mascherina. Ma mentre l’addetto mi mostra la mappa del museo e mi dice iu can co apzterz io non ascolto più e penso amico, tu sei davvero troppo troppo vicino, dalle mie parti adesso saresti arrestato, disinfestato, rinchiuso e «Immuni» avrebbe cominciato a suonare. Mi sento persino un po’ a disagio a non avere la mascherina al chiuso, come mi sentivo a disagio ad averla nei primi tempi. Come ci si educa, no? Dura poco, la metto in tasca e poi è proprio bello non averla. Raccomandano distanza sui sedili, sui treni per esempio vendono un biglietto sì e uno no, come da noi, ma non sentono il bisogno di attaccare adesivoni e appendere cartelli sui posti non utilizzabili, dato che si procede a prenotazione. Ogni sportello, che sia museo, biglietteria, albergo o cassa, ha la separazione in plexiglas, la mattina presto passano a disinfettare panchine e fontane nei parchi ma mi pare che, grossomodo, finisca qui. E tutto è abbastanza sereno. Vado a salutare Erasmo da Rotterdam nella cattedrale e a vedere il museo Vitra almeno da fuori.

Erano quattro mesi che desideravo scorrazzare per quel meraviglioso là fuori che è il mondo, che – pare difficile a credersi – esiste anche quando non lo visito o sono rinchiuso in casa per pandemia, Finalmente ci sono: prati, musei, montagne, capre, città e paesi, persone, nuvole, fiumi, auto e aerei, tombe, supermercati, boschi, villette, condomini, panini, lattine, sandali con le calze, piste ciclabili, la grazia e la bellezza, la gentilezza e la brutalità, l’interesse e il disinteresse, il desiderio e la povertà, c’è tutto e non potrebbe essere meglio. Grazie a dio adesso si può, come sembrano lontani quei giorni in cui ci si parlava attraverso le porte e, allo stesso tempo, come pare lungo e faticoso questo periodo. Incredibile pensare siano solo mesi o settimane. Ora è il momento di godere di tutto ciò che si riesce a ottenere di nuovo. Dice Guccini che la gente dopo la guerra aveva una voglia di ballare che faceva luce, fatte le debite proporzioni e con la cautela del caso, anche ora è tempo di ballare, almeno un po’.


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