un dispiacere grande: Tompetti

E poi, ieri sera, se n’è andato anche Tom Petty, mantenendo fede fino in fondo alla sua dichiarazione musicale, gli Heartbreakers.

Era un amico, per me e i miei amici, Tom Petty: perché ogni tot arrivava il momento del suo disco, quello in cui era lui il solo, ascoltarlo era proprio imperativo. Magari se ne stava in disparte per un po’, magari un bel po’, poi però arrivava il momento e non tradiva mai: ma io devo sentirlo sempre, mi dicevo, perché Tompetti è proprio ma proprio bravo. The Wild One, Forever, American Girl, Listen to Her Heart, I Need to Know, Stop Draggin’ My Heart Around, Don’t Come Around Here No More, Free Fallin’, I Won’t Back Down, Too Much Ain’t Enough, Runnin’ Down a Dream, Into the Great Wide Open, Mary Jane’s Last Dance e chissà quante altre non mi ricordo ora. E i Mudcrutch? E Dreaming to fly? E Jammin’ me? Tantissime…
Grazie Tompetti, grazie. Mi piace ricordarlo con il cappellone da cappellaio matto, anche se lui non amava quel video perché – diceva – distraeva dalla musica, mi piace ricordarlo quando faceva il becchino che sottrae il cadavere di Mary Jane, mi piace ricordarlo in piedi sull’ala dell’aereo, mi piace ricordarlo sul palco che si vedeva che si divertiva e gli piaceva.
Grazie Tompetti, oggi bisognerebbe mollare tutto, prendere l’auto con gli amici e andare in giro a caso tutto il giorno, sentendo le tue canzoni, Tompetti.
Lo faremo, promesso, Tompetti: te lo dobbiamo. Grazie.

they don’t hear me cry

Due giorni fa è morto Charles Bradley, grandissimo cantante soul cui volevo bene.

Aveva sessantotto anni e, uno potrebbe dire, ci sta. Potrebbe, il fatto è che Bradley era sostanzialmente all’inizio della carriera: infatti, dopo una vita randagia, aveva pubblicato il primo disco a 63 anni, nel 2011. No Time for Dreaming, bellissimo, uno dei dischi che mi piace mettere su quando ho voglia di gran musica.

Qualcuno l’aveva accostato a James Brown, non del tutto correttamente secondo me sebbene fosse uno dei suoi idoli, molti lo chiamavano «l’aquila urlante» («screaming eagle of soul»), per me era molto più vicino a Otis Redding, o Marvin Gaye se proprio.
Nell’estate 2013 ero partito per il Belgio con tutta l’intenzione di sentirlo suonare ma si trattava di un festival e lui suonò alle quattro del pomeriggio, quando io (noi, eravamo in missione) ero ancora per strada. Poi non ce ne fu più occasione ed è, ora, un rimpianto per me.
Restano i suoi tre dischi, un documentario sulla sua storia («Soul of America») e un bel dispiacere, perché oltre a essere davvero bravo era un uomo di un’altra epoca musicale, ricco di sentimenti e di dolore, simpatico quando voleva e sensibile, uno che si faceva carico della sofferenza: I can’t turn my head away / Seeing all these things / The world / Is burning up in flames / And nobody / Wanna take the blame.

Uno dei suoi pezzi che preferisco, The world (is going up in flames), con lui che se ne va in giro in tuta da meccanico su un autobus o un treno, Don’t tell me / How to live my life / When you / Never felt the pain. Che peccato, anche stavolta.
Come si fa a non volergli bene?

ho visto la Madonna!

Dio, come vorrei che venisse fuori un funeralone, con migliaia di persone, e soldati in libera uscita, marinai… puttane.

Se n’è andato anche Gastone Moschin, l’ultimo. L’architetto Melandri che, rapito dall’amore, porta a casa tutta la catena degli affetti da Donatella a Birillo alle bambine alla governante tedesca, in uniforme, severissima, è una delle scene meravigliose di tutto il cinema italiano. Mi mancherà, Moschin. Sbiliguda.

non rieducato

Nessuno, banale dirlo ma evidentemente bisogna ancora dirlo, dovrebbe essere prigioniero per le proprie idee. E, tantomeno, morire in carcere per esse.
Io non conoscevo, sono onesto, Liu Xiaobo né ho mai letto nulla di suo ma vedere la consegna del nobel per la pace a una sedia vuota è stato triste e deprimente.

Dopo di che, per quel poco che ne ho letto ora, non sono d’accordo con le sue posizioni sull’Iraq e probabilmente nemmeno su quasi tutto il resto, come d’altronde manco mi piace il nobel per la pace e i norvegesi, ma tutto ciò non conta niente: non si deve morire prigionieri per delle idee.

und tuzzun fuzzun kunz!

Impossibile per me non provare nostalgia, ora. Ma uno dei ruoli in cui apprezzo di più Villaggio è l’infido Thorz in Brancaleone alle crociate, che cerca di sopprimere il neonato figlio di re Boemondo.

[Brancaleone] Alemanno! Ma codesto fantino così ravvolto in ricchi panni, a chi è figlio? Eh? E tu? Non a chi tu sei figlio che ben potemo immaginare chi pote essere tua madre, ma di chi tu si ‘l scherano?
[Thorz] Sone mein name ist Thorz. E keinde Mondo. Und tuzzun fuzzun kunz!

Che poi Boemondo era Adolfo Celi, un improbabilissimo normanno che dialogava in un buffo siculo semi-incomprensibile: Nì tempesta, nì cicluni, ponnu stare a paraguni col tremuoto dellu cori di un regali genitori, che ritrova il suo picciottu che pensava fosse mottu! Bei tempi.

di una loro particolare bellezza che a me piace

Filini e Fantozzi – si notino le iniziali sulle raffinatissime cravatte – all’inizio della serata al night club “L’ippopotamo”.

Zeppo di prostitute abilissime a dissanguare i clienti, il night era il “Capriccio” di via Liguria a Roma; la scena si concluderà con la memorabile chiamata di un numero impossibile di taxi, una media di due e tre quarti a testa, per riaccompagnare i due, il sordido Calboni e una prostituta pagata con gli ultimi soldi a casa Fantozzi. O, meglio, sullo zerbino.
Bellissimi, entrambi, di una loro propria poesia che, spesso, mi manca.

le pesche del sud

Qualche giorno fa è morto Gregg Allman e a me dispiace.

Perché, alla fine, a me i ragazzi del sud piacciono, quelli un po’ sbraconi e onesti, che non tradiscono e che ti difendono se ce n’è bisogno. Ti difendono da Neil Young quando scrive una canzone piena di luoghi comuni visti dal Canada e cantano con orgoglio le proprie radici anche se piantate in un paese un po’ scemo (Sweet home Alabama); scrivono una canzone quando uno di loro se ne va (Free bird per Duane Allman); si stringono tutti insieme quando succede una disgrazia (la morte in moto di Duane Allman e Berry Oakley, il disastro aereo dei Lynyrd Skynyrd). E così via.
Mi spiace per Gregg Allman, perché mi piacciono Ramblin’ man e Jessica, anche se spesso giuro che non siano l’Allman Brothers Band ma i Grateful, anche se poi non riesco a sentirli a lungo, come i Lynyrd Skynyrd, mentre i Creedence sì, quelli sì (vabbè, mica del sud, loro). Gli Allman Brothers al Fillmore hanno girato parecchio sul mio personale piatto mentale, quante serate avranno fatto? Mille? Diecimila? Sono usciti cofanetti che superano le serate di apertura del locale, così è.
Mi spiace per Gregg Allman perché era bravo, e quando si attaccavano a una versione da sette otto minuti poi lo sapevano fare davvero, Jessica o Whipping Post, e mi spiace non averlo mai sentito dal vivo, che so?, a Nashville o a Montgomery nella sagra del maiale tennessino, bevendo birra tutti insieme a una festa di contea, magari nel ’70/’71, poco prima di Eat a Peach. Viene un po’ da ridere, poi, a pensare al production manager del gruppo, Twiggs Lyndon: uno che era stato rilasciato da un ospedale psichiatrico dove risiedeva per l’omicidio di un organizzatore di concerti. Chi meglio?
Che, poi, tutti questi signori bisognava vederli dal vivo, se no non aveva mica tanto senso. O meglio: non si riusciva mica a capirli. E invece devi capirli, devi capire come stiano insieme l’eroina e un disco intitolato «Mangia una pesca», bellissimo ma chi mai lo farebbe qui?, la morte e un pezzo improvvisato di 33 minuti, Mountain Jam, che nemmeno stava in un LP (dal vivo, vedi?), il successo e la disperazione insieme, bisogna ascoltare Melissa e Blue sky.
Oppure, per capire ora, bisogna guardare una puntata di Roadies, di cui ho detto, la otto della prima e unica stagione, in cui durante un’intera notte di viaggio un racconto appassionante prende piede e fa innamorare per sempre dei Lynyrd Skynyrd, della musica in generale e di quei ragazzacci del sud, tanto rissosi e burberi quanto di gran cuore e onestoni. «Non si può aiutare la rivoluzione, perché esiste solo l’evoluzione;… Ogni volta che sono in Georgia, mangio una pesca per la pace». Pace a te.