minidiario scritto un po’ così di un breve giro yorkshiriano: tre, avrà ragione Orwell?

Qualche elenco, per cominciare. Cose che mi sono piaciute di Nottingham, nonostante tutto: la bella chiesa medievale di Saint Mary con le sue lapidi e cenotafi alle pareti; i magazzini Fellows Morton & Clayton sul Nottingham Canal bruciati a un certo punto per lo scoppio della polvere da sparo destinata alle miniere (mai giocarci); il Bell Inn dove ho mangiato la raccomandata Steak & Ale pie e guardato un caminetto ardere in un televisore per quasi un’ora; il Ye Olde Trip to Jerusalem, un altro pub appena sotto il castello di Nottingham, che pretende di essere stato fondato nel 1189 per la crociata e di essere il pub più antico d’Inghilterra (ne ho visti almeno altri due, tra cui il Bell Inn qui in città, dire lo stesso); il centro turistico che in pratica vende le maglie del Nottingham forest e finti acquerelli di Brian Clough; la collina su cui sorge Nottingham; il Rock city, posto per la musica in cui ieri sera ho sentito Badly Drawn Boy. Ecco, non è che sia un ricco bottino.

A proposito dell’ultimo punto, il posto musicale, un altro elenco dei motivi per cui venire a sentire i concerti in Inghilterra è più bello: chi è sul palco si diverte di più, il pubblico capisce i testi e capisce quanto detto tra una canzone e l’altra, in generale sono più competenti; per questo gli spettacoli sono più variabili, a seconda degli umori degli uni e degli altri, a volte sono fila di battute; il rock, l’hard rock, la new wave, il free jazz punk inglese, il trip hop e così via li hanno inventati loro, quindi li fanno meglio; hanno un sacco di posti, grandi e piccoli, appositi per la musica, non vanno nei palazzetti dello sport come noi che gli ultimi posti per la musica li abbiamo costruiti nel Settecento; hanno migliaia di venues per la musica con capienza da trecento a ottocento persone, i posti migliori per sentire e vedere (il Grayston Unity ad Halifax ha quattordici posti) e quasi toccare; ne consegue che hanno tecnici del suono decisamente migliori, i suoni sono spesso strepitosi, come ieri sera, normalmente molto buoni; hanno un’offerta molto più ampia e tendenzialmente di qualità più alta; ci sono molti più musicisti di ogni età; ogni musica ha dignità, dalla piccola band sperimentale alla RPO; i prezzi anche nei posti piccoli sono più che accettabili; in generale, questa è per te L., il pubblico sta fermo in un posto, dove scegli poi stai. Ieri sera a un certo punto BDB si è commosso, ha spiegato perché, ha chiesto un attimo, poi ne ha parlato. Da noi, banalmente, non sarebbe stato compreso.

Sheffield nel 1984 era il posto più triste della terra. Con la chiusura delle miniere e la successiva crisi delle industrie metallurgiche causata dalla Thatcher, la dissoluzione delle strutture sociali in grado di attenuare gli effetti della disoccupazione, anch’essa dovuta alla Thatcher, tutta la fascia industriale al nord dell’Inghilterra entrò in una crisi irreversibile. Sheffield, che era la città dell’acciaio – l’acciaio inossidabile lo inventarono qui ma persino Chaucer decanta la qualità dei coltelli locali – tanto decuplicò la popolazione durante la rivoluzione industriale quanto andò a gambe all’aria negli anni Ottanta. Per colpa della Thatcher, l’ho detto?

‘Grazie, signora Thatcher’ è un ironico e divertente film del 1996 che racconta proprio questo, ambientato nell’immaginaria Grimley, in Yorkshire. Per carità, l’esaurimento del carbone e la necessità di riconversione dell’industria estrattiva ci potevano anche stare, di sicuro non licenziando in tronco ventimila persone e mandando la polizia in assetto da guerra a contrastare le proteste. Il tutto, appunto, tagliando tutte le strutture a supporto di chi si trovasse in difficoltà. Detto tutto ciò e proseguendo il mio percorso di ricerca nell’industria britannica dell’ultimo secolo e mezzo, non posso che andare a Sheffield.

Disse George Orwell: «Immagino che Sheffield possa giustamente ambire al titolo di città più brutta del Vecchio Mondo» e io, ora, da solo e contro tutte le avversità che potrò incontrare sul mio percorso, scoprirò se aveva ragione o no. Compio subito una doverosa visita al Crucible theatre che è la sede permanente dei campionati mondiali di snooker, che è un gioco biliardico piuttosto difficile con un tavolo davvero enorme. Che una volta e io e il mio amico M. siamo andati a giocarlo in un club privato indiano in un capannone e c’era la musica reggaeton sudamericana a tutto volume e loro giocavano molto bene e noi per niente e avevano chiuso le porte a chiave e noi non avevamo detto a nessuno dove fossimo e io già mi vedevo senza le reni e poi M. ha pure chiesto loro una birra. Ma è andata bene. Poi visito la cattedrale che ha una parte antica, interessante, e una parte nuova con, all’interno, un vero e proprio caffè, con sedie e cornetti, che dà sulla navata principale.

Questa cosa l’avevo già vista a Liverpool, là era proprio un bistrot, alla fine è un modo non cattivo per fare della chiesa un luogo di aggregazione della comunità e mostrare, laicamente, che bisogna pur farla stare su, in qualche maniera. Questa è la mia chiesa, Pietro. Come spesso accade, vengo agganciato da una signora inglese volontaria della comunità di cui sopra che mi illustra le bellezze della chiesa e facciamo una bella chiacchierata perché vedo tombe sontuose da indagare. È gentile, definisce il mio poor englishbrilliant‘, che non è, sono furbi questi inglesi, e mi dà indicazioni per visitare una magione da trecento stanze nella campagna dello Yorkshire del sud, appartenente un tempo a un intombato di fronte a noi. È stata a Venezia due volte e tra le due ha avuto l’impressione che stesse affondando un po’. Confermo. In bella vista, un gruppo scultoreo della nascita di Cristo in stile locale, tutto in acciaio cromato, bello grande. Sembra un monumento a un incidente stradale. Lavoro qualche ora in biblioteca – non dovevate darmi lo smart working, bestie – e poi come i bambini vedo il sole e scappo fuori. Come nelle altre città, vado ai quays e cammino lungo i canali e i magazzini lungo lo Sheffield channel fin dove arrivo.

Niente di leccatino e preparato come a Manchester o Birmingham, il percorso è rude come la città. Qua non ci sono le ragazze bionde che corrono. Passo sotto ponti ferroviari e di interstatali, i primi tutti ottocenteschi i secondi Novecento, vedo il retro di molte fabbriche e magazzini che una volta erano i fronti, sul canale. A uno svincolo, attraverso e comincio a seguire in senso contrario il fiume che attraversa la città, il Don. Non sono un esperto ma credo quello sia un altro fiume. Una volta, mi dicono, era pieno di salmoni, il cibo dei poveri, oggi sarà la suggestione ma mi pare del colore della limatura di ferro. Lungo il fiume, una volta c’erano le acciaierie e le donne povere venivano a raccogliere i pezzettini di carbone di scarto per scaldarsi a casa, il cosiddetto coal picking. Sotto l’ennesimo ponte ferroviario bello nero di fuliggine e gocciolante, all’altezza del ‘Dubai nights’, certamente un gommista o carrozziere fino a poco fa, devio per tornare in centro. Chissà che notti, a Dubai.

Ora, l’arte di Sheffield, oggi è un giorno davvero libero. Ma prima sono in grado di rispondere all’affermazione di Orwell con cognizione: sì, non è il cristallo più lucente del lampadario delle città del Vecchio Mondo ma non è, certamente, nemmeno il peggiore. Secondo me Terni, Gioia Tauro, Cuneo, Novara, Katowice, Ostrawa potrebbero legittimamente ambire al titolo.


uno | due | tre | quattro

minidiario scritto un po’ così di un breve giro yorkshiriano: due, chi ruba a chi? Cosa c’è in città stasera?

Esco più presto del presto in cui parte il treno perché voglio camminare un po’ sui canali. Sul Liverpool Canal, un’oretta, dove arrivo. Giusto per arrivare un po’ voncino all’incontro, come si confà a me. E subito incappo nel capitalismo ottocentesco dal volto umano: la ciminiera della fabbrica è copia mattonata della torre dei Lamberti a Verona e la torre per lo smaltimento della polvere di ferro, Giotto ne sarà estasiato, del campanile della cattedrale di Santa Maria del Fiore.

Beh, io che non riesco ad avere in mente altro che l’immagine dickensiana dei bambini ricoperti di fuliggine che tirano carretti per strade fangose sorrido e sono incerto: sarà stata una buffonata del padrone per coprire le sconcezze o un cenno primordiale di responsabilità sociale del padrone verso l’ambiente di lavoro degli operai, in stile-Crespi? Difficile dirlo per me che cammino cercando di non cascare nel canale. Si sta benissimo, l’aria è frizzante, un po’ di gente che corre, perlopiù donne sole, buon segno che significa sicurezza. Al ciglio del canale numeros house boats che mi suggeriscono fantasie di vita canalesca, contenuta in dieci metri quadri, ordinata e libera. Dura poco, due su tre sono al limite del monnezzaio, serve parecchia disciplina. E io sono poco poco sicuro di me, in questo.

Le centoventisette miglia del canale sono duecento chilometri che si potrebbero percorrere in una decina di giorni. Bisogna studiare se sia tutto camminabile, non ci scommetterei fuori dalle città. A Bath sui canali avevo fatto una camminata memorabile, di quelle cui ripensandoci ho ancora un tuffo al cuore che mi suggerisce il ricordo di un momento di beatitudine. Anche ora è bello, non è felicità, è più un grado apprezzabile di spensieratezza, secondo quanto riesca a tenere a bada la testa. Il tempo speso camminando è in assoluto il più denso e pieno che io abbia sperimentato, scorre forse non più lento dell’altro tempo ma è sicuramente più vissuto, intenso, ogni momento è lì, concentrato, senza distrazioni.

E non sono nemmeno le otto. Devo prendere un treno, alle dieci devo essere a Nottingham. Io non ci volevo venire a Nottingham, volevo andare da altre parti più interessanti di Nottingham. E poi mi dà fastidio tutta la sbrodolata su Robin Hood a Nottingham, buona appunto per Disney e i contadini della Lucania vessati dai latifondisti. Ed è nostro dovere mettere all’angolo racconti così reazionari. Anzi, se non fossi così impegnato in altro, scriverei un polemico e vivace pamphlet dal titolo: “Robin Hood: una prospettiva socialista sull’essere funzionali al potere e in definitiva legittimarlo” e allora sì che scriverei pagine e pagine di denuncia su come l’eroe brigante che ruba al potente non solo non incrini la struttura sociale ma anzi rafforzi e convalidi il sistema, elemosinando qualche briciola al popolo e tenendolo buono e asservito. Il vero eroe popolare è quello che conduce il popolo alla rivolta e lo accompagna alla conquista di diritti e lavoro. Garibaldi, altro che l’orso, il serpente e lo sceriffo cattivo, il brigante Giuliano lavora solo per sé e la propria leggenda, anzi è connivente con il potere mafioso e ne è parte. Ah, se avessi tempo.

A Nottingham come previsto non è che ci sia poi molto. A parte quello sciocco castello dello sceriffo, che poi altro non è che un palazzone inglese del Settecento costruito sulle fondamenta del castello, di cui ha conservato le mura e i bastioni. Quel che a Nottingham è veramente rilevante è questo signore qui sopra, che alla fine degli anni Settanta con una squadra di parvenu vinse non una ma due coppe dei campioni consecutive. In pratica fece al cubo, alla quarta quel che Ranieri fece a Leicester, un tiro di pietra da qui, qualche anno fa. Che poi, giova ricordarlo, Ranieri lo esonerarono dopo poche partite la stagione successiva per scarsi risultati, mentre l’attimo prima era il mago e l’imperatore. Sic transit. Come Churchill alle prime elezioni dopo la guerra, trombato sonoramente. Sic. Clough, dicevo, portò il Nottingham forest a vincere due coppe consecutive, cose da squadroni e così oggi ha la sua bella statua in centro centro. Cinque secondi che la guardo e mi avvicina un reduce, con indosso un giubbotto della RAF. Secondo me, da quel che capisco, è un reduce di quelle stagioni sugli spalti più che di volo, non è che si capisca proprio molto. Anche se, comunque, il livello onorevole non è minore dell’aver vinto una guerra. Sulle calamite da frigo della città c’è Robin Hood, ovvio, e Clough. Sue di più.

Anche Nottingham ha la propria rete di canali e di magazzini connessi, fino a pochi anni fa gestiti dalla British Waterways e ora da un ente che non ricordo. Il trasporto delle merci su barche per tutto il centro-nord della Gran Bretagna entrò poi in crisi per lo sviluppo della ferrovia, più veloce e agevole da costruire e far arrivare dove serve. I magazzini recuperati a uffici, appartamenti e locali sono piacevoli e le camminate lungo le vie d’acqua altrettanto, non me la perdo anche qui, zonzolando.

Ma che si fa stasera in città? Come dite? Badly drawn boy al Rock city? Accorro, perdio. Pranzocena alle cinque – dovrò parlare poi di questa innovazione nutrizionale che porterà giovamento alla salute del mondo e mi renderà famoso come nutrizionista in ogni dove – per apertura porte alle sei e mezza. Vado dritto, voi che c’eravate al Bronson di Ravenna duemila anni fa per vedere BDB sapete di che parlo. E poi qui, nelle sue zone, magnifico. Si dice che di tutti i telefoni rubati nello Yorkshire il dieci per cento venga sottratto al Rock city di Nottingham. Se ciò è vero lo sapremo a breve, se domani non pubblicassi nulla vorrà dire che non è una leggenda.


uno | due | tre | quattro

minidiario scritto un po’ così di un breve giro yorkshiriano: uno, a quant’è il prezzo del grano oggi? Che si fa in città stasera?

Mi chiamano per stabilire se vogliono comprare quel che io vendo. Pronti. Ed eccomi su un espresso transpenninico, i monti sono i Pennini, da Manchester a Leeds. Cioè, io mi fermo nella «…regione quae vocatur Loidis», come scrive Beda il Venerabile, lui il treno prosegue per York e fin di là sull’altra costa, finendo in un curioso luogo chiamato Redcar. È il prosieguo di un percorso che avevo già iniziato, tra Liverpool, Manchester e Birmingham, lungo i canali e le fabbriche dell’Inghilterra vittoriana, ovvero la prima potenza industriale al mondo, per produzione e cronologicamente. Si dice Yorkshire e si legge gran collinone verdi, i Pennains, circondate da fiumi e canali, guglie gotiche e ciminiere attorno a fabbriche ottocentesche, quelle che restano, davvero imponenti.

Leeds però per me e molti dei miei coetanei significa primariamente una cosa sola: live at Leeds. Ovvero il più grande live di sempre. Così, secco, senza discussione. Gli Who nel momento giusto, il refettorio dell’università, i cursori tutti su, una parte del successo fu dovuta al volume, cambiò la maniera in cui si registravano e producevano i dischi dal vivo. Era quasi un bootleg, ruvido, raw. Non controllo ma fu quasi una registrazione unica, a parte un cantato preso dalla sera dopo a Hull, un basso non registrato e poco altro, buona la prima o quasi. Quel che non capisco ancora oggi è perché sia at e non in, in London, sarà un vezzo, at Finsbury park, at Fillmore. A proposito, chi c’è in città stasera? Wombats? Aperti da Red Rum Club ed everything everything? Va bene, ci vengo.

Se non fossi così impegnato, dovrei stendere uno studio approfondito su come la parte più industriale e dura dell’Inghilterra abbia prodotto così tanta musica e di così grande qualità, da Liverpool, Manchester, Birmingham, Sheffield, Bristol proviene quasi tutta la roba buona della musica inglese e, per facile estensione, di quasi tutta la musica contemporanea. Peppino di Capri a parte. Ma, come dicevo, sono molto impegnato e, particolarmente, ora a perlustrare la zona dei docks di Leeds, i magazzini sulla rete di canali che garantiva approvvigionamento e distribuzione della produzione industriale vittoriana. Si può ancora oggi prendere una barchetta, con due amici per non parlare del cane, e navigare placidamente fino al Mersey di Liverpool e, quindi, al mare. Sono centoventisette miglia e un paio di centinaia di metri di dislivello. Il che è di molto più interessante che ripercorrere quel poco che resta del vallo di Adriano, non tanto più su. Ah, Costantino si trovava a York, a un tiro di schioppo da qui, quando fu proclamato imperatore. L’edificio del corn exchange, ovvero la borsa dove si contrattava il prezzo del grano, è formidabile ancora oggi, seppur pieno di negozietti cretinetti.

L’approccio linguistico con questo nord inglese è sempre piuttosto sconcertante in prima battuta, non capisco quasi niente. Ma è dovuto allo slang trascinato che parlano tra loro, quando parlano con me non dico Oxford ma non lontano da una conversazione tra persone civili. Se tutti i participi in –shed diventano, per dire, –shy, serve un po’ per capire. Mashy peas, certo. Ma basta poco e si è in breve uno di loro, sugli spalti del Leeds United a far casino. Ascoltando uno dei Gallagher discorrere in modo informale è possibile avere un’idea abbastanza precisa del macello fonetico o sentire la litania delle desinenze strascicate delle loro canzoni, sitiuescie. Comunque, anche parte del loro segreto sono tutti i cursori su, all red levels, tutto torna.

Le fabbriche dismesse, i magazzini, l’impressionante Granary wharf, dove rimasti sono diventati uffici e case di gran pregio sul Liverpool Canal e soprattutto sul fiume Aire. Gli spazi più grandi o ancora in attesa di recupero o centri commerciali, mantenendo intatta la vocazione.

L’evoluzione industriale qui seguì rapidamente quella degli altri centri, prima tessile e manifatturiera, poi con il progresso tecnico chimica e metallurgica. Tutto trasportabile o di là verso il mare del Nord, meno attrattivo, o di qua piuttosto verso l’oceano attraverso la baia locale del mar d’Irlanda. Non c’era come possedere l’industria più avanzata del mondo e mezzo mondo stesso per prosperare e inventarsi, persino, il turismo. Mai sentita questa.

Poi gli Who tornarono nello stesso refettorio nel 2006 ma anche Entwistle non c’era più, era un po’ un’altra cosa. Let’s dance to Joy Division / and celebrate the irony. Domani ho un altro incontro in un posto mah, vedremo, ci penserà qualcuno domani, non l’io dell’ora. Everything is going wrong / but we’re so happy. Eh sì. So happy.


uno | due | tre | quattro

com’è che da noi no? (risposta ovvia)

Negli ultimi due giorni decine, centinaia di migliaia di persone in piazza contro fascismo e razzismo. Ad Amsterdam:

A Parigi:

A Praga:

In Germania:

A Tucson con Sanders e AOC:

La domanda, quindi, è: perché da noi per portare in piazza le persone bisogna inventarsi una manifestazione – rispettabilissima, per carità – in nome dei valori europei, senza bandiere di parte, senza slogan così da non correre il rischio di offendere alcuno? Forse che fascismo e razzismo non dovrebbero essere combattuti da chiunque, destra e sinistra, perlomeno fedeli a valori costituzionali e libertari? O forse che, se si è governati da chi è complice, bisognerebbe avere più coraggio?
Il mondo, ancora una volta, è là fuori.

Foreman: ci restano i grill, molti George e un esempio

Era da tempo che aveva chiuso con la boxe, anche se da molto meno dei suoi coetanei. Dopo la comprensibile depressione a seguito della sconfitta nel rumble in the jungle, George Foreman aveva faticato parecchio a rialzarsi; come spesso accade in questi casi, vide la luce e divenne un ministro ordinato, minacciando di cazzotti i peccatori e il diavolo, immagino. Ma era sul ring che stava nel suo posto e così riprese, tredici anni dopo la batosta, si rimise in pista e, ci mise sette anni, riuscì a ridiventare campione del mondo mettendo insieme i titoli del mondo WBA, IBF e lineare, concetto quest’ultimo abbastanza informale che intende quando si sconfigge il re riconosciuto della foresta. Già è complicato in condizioni normali, farlo a quarantacinque anni come lo fece Foreman ha dell’eccezionale. In fin dei conti, il pugno da fabbro ferraio, secondo forse solo a Sonny Liston, seppur invecchiato ce l’aveva ancora, quello con cui, tra ganci e montanti senza sosta, spinti dai suoi centodieci chili per poco meno di due metri, abbatteva anche quelli più grossi, Frazier e Norton. Alì no, il rumble appunto, era per intelligenza tattica troppo lontano dalla sua portata ma in quanto a forza e furia non c’era paragone. Fece la cazzata, senza rendersene conto veramente, di sventolare una bandierina americana sul podio delle olimpiadi 1968, aveva pur vinto l’oro, a pochi metri di distanza da Tommie Smith e John Carlos col pugno nero alzato e divenne, suo malgrado, il simbolo del nero addomesticato all’America bianca e al potere, lo chiamarono ‘Zio Tom’ e non vi è dubbio che ne soffrì moltissimo.
Cadde molte volte, quindi, e altrettante più una si rialzò, segno di grande intelligenza, comunque. Smessa la boxe, non avendo parlantina e tempi per lo show business come altri, si rilanciò come imprenditore, dando la sua immagine a una serie di piastre da grill multiuso di grande successo, mollando manrovesci, evidentemente, alla carne in cottura e al grasso che cola.

Dopo la sconfitta contro Alì e un paio d’anni in giro sbandando tra avventure, club di seconda segata, macchine lussuose e animali esotici, tornò al pugilato e incontrò Ron Lyle, un altro fabbro ferraio che faceva della devastazione senza sosta la sua cifra stilistica nel pugilato. Ne uscì un incontro tra due ruspe dedite alle sportellate, una quantità notevole di cadute a terra, dritti e rovesci in un senso e nell’altro, tumefazioni indelebili. Per chi abbia voglia di cartoni, cartoni rullati, il match è qui. Si ritirò poi per tornare, come dicevo, alla fine degli anni Ottanta, curiosamente nello stesso momento in cui tornò anche Sugar Ray Leonard, molto più affascinante sotto ogni punto di vista: «Per Leonard è solo una questione di soldi, una “botta e via”. Anche per me il denaro ha una sua importanza, ma secondaria. Io voglio tornare ad essere campione. Ho un piano per i prossimi 3 anni: ricominciare dal fondo, allenarmi più di chiunque altro, combattere una volta al mese. Non si può avere tutto e subito», disse Foreman. Se questo non è un uomo saggio, allora non so chi lo sia. E così fece, ce ne mise sette invece che tre ma fece tutto per bene.
Ecco, ieri George Foreman se n’è andato, dopo alcune tristi vicende familiari e aver reso affettuoso onore ad Alì alla sua scomparsa: aveva fatto pace con lui e, soprattutto, con sé stesso, era caduto, era tornato, aveva perso e poi vinto, aveva imparato a fare le cose al proprio ritmo, a trovare la propria misura per fare bene, anche se ciò non suscita gli entusiasmi del pubblico e non fa diventare famosi, aveva imparato ad ammettere le sconfitte, le sciocchezze, a essere una persona degna e consapevole, anche se la propria collocazione è tra le piastre da grill. Mica poco, tutto questo, e non facile da gestire: comodo essere talentuosi e belli, il difficile è farlo da ringhiosi e impacciati. Lui lo fece ed è un bell’esempio per questo.

Provò anche a essere figo quando era obbligatorio esserlo e, tutto sommato, non andò male nemmeno lì. Anche se in questo Joe Frazier fu davvero imbattibile, ce n’era sempre uno meglio. Fino al titolo del 1987, da vecchietto. Ben fatto.

Joe Frazier, George Foreman e Mohammed Ali, London Arena, 17 Ottobre 1989 – UnitedArchives01018900

E, per essere certo, lascia i figli George, George, George, George, George, Georgette, Georgette e altri cinque con altri nomi.

la musica delle stagioni, inverno 2024

Entra da padrona la primavera e con essa si conclude la mia compila invernale, ventinovesima stagione musicale. Poco meno di quattro ore per cinquantotto brani in cui ci sono anche alcune cose argentine perché ero là, all’inizio dell’inverno musicale (mio) e dell’estate musicale (loro).

Con la pipa in mano tra le macerie, ascoltare musica potrebbe essere un buon modo per affrontare il periodo, dato che il contraccolpo per le elezioni americane, perse savasansdir, è stato ed è molto più truculento di quanto atteso e temuto. Per fortuna, basta alzare il braccio, girare il disco, rimettere la puntina e ricominciare da capo, si può fare.

Affrontate le incongruità musicali dell’inizio, la compila prende un’altra piega con gli Stereolab che riportano il tutto nell’atteso, Huey Lewis continua fino alla prima novità di sempre per me: un brano italiano, precisamente di Joe Cassano, che se messo su ad adeguato volume ha una base nel ritornello davvero notevole. L’ho sentito per caso, non sapevo mai di lui, generi diversi. Poi, subito, compenso con Shins, ci sono quasi sempre, gran pezzi di Ofege, Hiatt, Primal Scream, Melanie, in mezzo un’ovvietà come Madness che spesso me li scordo e faccio malissimo. Idem per Simple Minds, ogni volta sono una sorpresa e dovrei ascoltare solo loro per un bel po’, facciamoci un regalo. Con loro, un po’ a cascata gente che sa quel che fa da mo’, Wilde, Stranglers, un ricordo di Faithfull, Prefab Sprout, persino i DDuran, Joel, Hynde, Francis, Tompetti che ci dev’essere sempre, in mezzo segnalo due gran canzoni di Hackerman e Gibbons. E due di Vulfpeck che sa suonare il basso. Vabbè, quanto la faccio lunga, sta lì, chi la vuole se la pigli.

Le compile vere e proprie: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore) | estate 2022 (42 brani, 2,33 ore) | autunno 2022 (71 brani, 4,5 ore) | inverno 2022 (70 brani, 4,14 ore) | primavera 2023 (74 brani, 4,23 ore) | estate 2023 (53 brani, 3,31 ore) | autunno 2023 (92 brani, 6,9 ore) | inverno 2023 (76 brani, 4,5 ore) | primavera 2024 (59 brani, 3,4 ore) | estate 2024 (56 brani, 3,1 ore) | autunno 2024 (78 brani, 5 ore) | inverno 2024 (58 brani, 3,7 ore) |

Da ora si mette via per la primavera.

primavera non bussa, lei entra sicura (ancora ancora ancora ancora ancora ancora ancora)

Alle 10:01 di stamane quel matto del sole è entrato nella casa di carta e, grazie alla processione siderale, ha dato l’avvio all’equilizio stagionale che, a sua volta, ci ha scagliato in primavera. E nessuno stupore che oggi sia il 20 e non il proverbiale 21: in caso non ve ne foste accorti, là fuori l’universo fa quel che vuole, indifferente agli strepiti locali sulla regolarità. Non serve Leopardi per questo. E tutti fuori.

E i motociclini tutti fuori, anche, che non vi ho visto mai durante l’inverno, dove eravate, timidoni? Non starò, come al solito, a spiegare il perché e il percome avvengano questi cambiamenti stagionali e le ragioni per cui all’inverno succeda sempre la primavera e non il contrario, servirebbe capirne di astrotonìa, di fisica qualistica e di processionistica, inutile perdere tempo qui. Per fortuna, mi cito dall’anno scorso: la primavera arriva sempre, specie quando ci sono i fascisti.

ho visto spiagge di zucchero e un’acqua di un blu limpidissimo

Ho visto un completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato «Mister» in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l’Electric Slide. Ho visto tramonti che sembravano disegnati al computer e una luna tropicale che assomigliava più a una specie di limone dalle dimensioni gigantesche sospeso in aria che alla cara vecchia luna di pietra degli Stati Uniti d’America che ero abituato a vedere. Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga.

È il Rutger Hauer delle crociere caraibiche. Comincia così, o quasi, un librino molto piacevole di David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, 1998. Sono ormai vent’anni e più che con gli amici ce lo siamo scambiati, l’abbiamo regalato a ogni natale e ricorrenza, l’abbiamo consigliato, riletto, perso e ricomprato. A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again è un reportage di Wallace che fu ingaggiato da Harper’s e spedito sulla Nadir per una crociera di sette notti ai Caraibi allo scopo di trarne un racconto a puntate in cui, mirabilmente, descrisse aspetti del viaggio, trasse considerazioni sociologiche, raccontò le proprie reazioni a una situazione, complessivamente, ridicola e assurda. Il librino è divertente e piacevole e intelligente insieme, le note a piè di pagina sono, in effetti, un secondo libro. La traduzione, notevole, è di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo.

Oltre al libro, c’è l’audiolibro, anzi due. Quello cui mi riferisco ora è il più vecchio ed è letto magistralmente da Paolo Pierobon e si trova qui su RaiPlay Sound, con un’intonazione di voce bassa e costante che richiama il galleggiare placido di una meganave al sole, con lo stordimento che una crociera a base di spiedini di frutta può dare. È un vero spasso e, se possibile, direi che aggiunge pure qualcosa al già pur eccellente libro, consiglio molto caldamente. Magari indossando una larga camicia a tinte forti. Lunedì mattina ho sbagliato strada almeno tre volte, assorto nell’ascolto della dimensione esistenziale dello scarico a risucchio delle navi da crociera ed ebete come un crocierista dopo la prima settimana.
Ne esiste, infine, un altro audiolibro registrato in tempi appena più recenti da Giuseppe Battiston per un’altra compagnia, però non l’ho sentito.

interessi di chi? Dei cittadini? Dei popoli del mondo? Non risulta che sia così

Discuto con un mio amico al bar, io sostengo che piazzare satelliti a iosa attorno alla terra da parte di un privato – Musk con Starlink – sia un atto di pirateria bella e buona, occupando senza regole uno spazio comune e impedendo ad altri di fare lo stesso in futuro, in potenza, lui invece controbatte che se non è proibito, si possa fare.
Al di là del fatto che ho chiaramente ragione io, mi viene in soccorso il Presidente Mattarella che, in uno splendido discorso tenuto a Marsiglia un mese fa in occasione del conferimento di una laurea honoris causa, vale la pena leggerlo (è in francese solo all’inizio, cortesia), si esprime su molte questioni di grande attualità e sostanza, dimostrando una volta di più di essere l’unico statista rimasto in questo cavolo di paese e che il tempo ce lo preservi. In particolare, riporto un passaggio sulla questione iniziale:

Accanto a questa nuova articolazione multipolare dell’equilibrio mondiale, si riaffaccia, tuttavia, con forza, e in contraddizione con essa, il concetto di “sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo e che la mia generazione ha combattuto.

Tema cui si affianca quello di figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche.

Ricordiamoci cosa detta l’Outer Space Treaty all’Art. II: “Lo spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, non è soggetto ad appropriazione da parte degli Stati, né sotto pretesa di sovranità, né per utilizzazione od occupazione, né per qualsiasi altro mezzo possibile”.

L’età moderna è stata caratterizzata dalla “Conquista”, di terre, ricchezze, risorse.

Che bravo, Mattarella, un marziano in questi tempi miseri. Come il Berlinguer del film di Segre, peraltro.