una freccia volò nel cielo prima dei faraoni

Il 19 settembre 1991 due coniugi tedeschi, Helmut and Erika Simon, trovarono il corpo di quell’uomo che oggi chiamiamo Ötzi.

Non avevo mai visto la fotografia del corpo in loco – impressionante pensare a quell’uomo ferito, forse in fuga, che si sdraia e muore, come lo è vederlo – mentre una visita al museo archeologico dell’Alto Adige l’ho fatta e la consiglio senz’altro.
Naturalmente la persona con la giacca rosa, i pantaloni viola, la fascia azzurrina e una corposa barba non si chiama Erika ma Hans, Hans Kammerlander. L’altro è Reinhold Messner, entrambi accorsi sul luogo del ritrovamento (vero che era settembre ma erano pur sempre oltre tremila metri di altitudine e per loro era cosa da tuta e scarpe da ginnastica, chiaro).

«Ötzi è il corpo umano più esaminato che il mondo abbia mai visto» ha detto il patologo tedesco Oliver Peschel e oggi siamo in grado di dire molto su quell’uomo vissuto cinquemila, cinquemila!, anni fa. Per esempio, era mancino, aveva il 38 di piede, «gli occhi – che si trovano ancora conservati al loro posto nelle orbite – erano marroni, era intollerante al lattosio, il suo gruppo sanguigno era lo 0 positivo, aveva alcuni denti cariati, era affetto dalla malattia di Lyme e soffriva di dolori alle ginocchia, alla schiena e alle anche. A un certo punto della sua vita si ruppe alcune costole e il naso». Durante l’ultimo pasto mangiò farro, cervo e stambecco. Ah, importante: aveva quarantacinque anni quando morì.
Oltre alle sue caratteristiche personali, sappiamo che Ötzi fu assassinato. Quale fu il ruolo di un oggetto da taglio che lo ferì alcuni giorni prima a una mano o della freccia che lo colpì pochi minuti prima della morte, se sbattè la testa cadendo o, invece, fu finito per terra, resta terreno di congetture. Come capire se fosse in fuga oppure no.

Sapere chi fosse, cosa stesse facendo, come sia morto, non è curiosità morbosa. È il modo che abbiamo per sapere di più su noi stessi, come specie e come unione di persone, umanità, un modo non solo scientifico ma anche abbastanza poetico e romantico, ritengo, di prendersi cura, alla fine, di uno di noi, che aveva fame, paura, un sacco di dolori, e che provava a scamparla nel modo migliore possibile.

dove eravamo rimasti?

E così la legge Zan è stata affossata al Senato. Il centrosinistra, a detta loro, era sicuro di avere 149 voti, poi due si sono astenuti e 16 senatori hanno votato contro, 154 no e 131 sì. Quindi: qualcuno non sa fare i conti. Quindi: qualcuno non ha capito i renziani (Zan stamane: «Sono convinto che Italia viva voterà con noi e la tagliola non dovrebbe passare»). I capogruppo servono a quello, a evitare le convinzioni e avere certezze. «Sospetti sui renziani, dicono». Quanti sono i senatori di Italia Viva? Sedici. Impossibile capire. Ma niente, anche stavolta.

La mia impressione è che in Italia la discussione di certe questioni basti di per sé. Il resto è opzionale. I dico, i pacs, i diritti civili, la legge elettorale, lo scioglimento di Forza Nuova poche settimane fa. La discussione è il senso, il significato, il contenuto.
Poi si passa ad altro. Poche settimane fa l’Afghanistan era la prima urgenza del paese civile, come due anni fa i ponti o pochi mesi fa le funivie, se n’è parlato a tal punto che ora so cosa siano i ponti strallati e le ganasce delle cabine delle funivie, e ora? Niente, via, cosa stavamo dicendo?

questo non è un paese per giusti

Giulia Schiff, un’ex allieva dell’Accademia dell’Aeronautica di Pozzuoli, si è ribellata alle pratiche di nonnismo connesse al “battesimo del volo” a fine corso – è stata colpita ripetutamente dai commilitoni, sbattuta contro una lamiera con la testa e gettata in una piscina -, è stata espulsa per «inattitudine militare e professionale» e TAR e consiglio di Stato hanno rigettato il suo ricorso, che sarebbe una «affermazione apodittica non supportata da alcun concreto elemento probatorio». C’è pure un video, se ne potrebbe discutere. A breve comincerà il processo penale.
Quarta su duemila del corso, non potrà diventare pilota dell’aeronautica. «Mi rifiuto di accettare di essere schiacciata da una situazione disonesta avallata dall’omertà. Merito giustizia e di perseguire il mio sogno», ha detto, e ha solo ragione da vendere. Qui la sua storia.

varie dovute alla pandemia in questo periodo

Alcuni casi – almeno in Lombardia di cui io sono a conoscenza direttamente – di dipendenti pubblici in sciopero improvvisato «contro il green pass», prima dal 15 al 20, e poi dal 22 al 31. Annunciandolo peraltro il giorno stesso e interrompendo il servizio. In questo caso siamo molto ma molto al di là della decenza e della responsabilità, spero fiocchino denunce, multe e sospensioni o licenziamenti. Non ci meritiamo queste persone.

L’obbligo del green pass sui posti di lavoro, perlopiù non serve a spingere le persone a vaccinarsi, non solo. Serve, e in questo funziona, a monitorare con precisione lo stato di salute di coloro che non sono vaccinati, portando così a galla tutti i casi di positivi asintomatici e, in generale, di contagiati.

Un paradosso ma non troppo: se sei contro il green pass perché non vuoi essere controllato, vaccinati. E nessuno ti guarderà più. Mescolati nella massa, tordo.

Detto questo, ricordo perfettamente la situazione di un anno fa, sapevamo già che dal 5 si sarebbe chiuso tutto, di nuovo, e io andai il 2 novembre a Venezia per godere dell’ultima ora d’aria. Con atmosfera che dire mesta è dire poco. Oggi io sono contento che la situazione sia migliore, e di molto, e sono grato a tutti coloro che hanno fatto e fanno la propria parte, a volte sacrificandosi, perché lo sia.

secondo me gli arancinis non sono abbastanza speziati

Due psicologi hanno fatto un esperimento offrendo a due gruppi di persone lo stesso “gelato di granchio” (un piatto di Heston Blumenthal), chiamandolo però in modo diverso: a un gruppo hanno detto che era una “mousse salata”, all’altro un “gelato”. Alle persone che pensavano di mangiare una mousse salata, il piatto è piaciuto, mentre quelle che si aspettavano un gelato lo hanno trovato “disgustoso”, anzi addirittura “il cibo più sgradevole che avessero mai assaggiato”.

Vostro onore, ho finito.
Cuochi trattati come rock star. Libri di ricette in testa alle classifiche. La tv invasa da trasmissioni sulla cucina. Mangiar bene è la nuova religione laica: una moda insopportabile. L’articolo di Steven Poole per il Guardian, dall’archivio di Internazionale.

Perché avete rotto i maroni con le acciughe del cantabrico. Lo dico io, che avrei come ristorante preferito uno con il seguente menu: minestrone, risotto, polpette (e/o polpettone), frittata, verdure, budino, torta, frutta. Tutto fatto come iddiocomanda, ovviamente. Se qualcuno lo fa, affitto il tavolo tutto l’anno.

tanto vale non preoccuparsi mai, lasciar perdere

Concita De Gregorio, con la quale da tempo non prenderei nemmeno il caffè, scrive ieri cose sacrosante:

Anche meno enfasi, in generale, aiuterebbe. Soprattutto nei giornali, che – capisco – le lettere che entrano in un titolo sono poche ma serve uno sforzo: non tutto può essere boom, flop, choc o, quando in italiano, per esempio ieri, trionfo, disfatta, faccette nere o cappotto rosso. A parte il fatto che tutto questo alzare il fuoco aumenta lo stato d’ansia, genera un clima di allarme permanente che cambia segno da un giorno all’altro, però, dunque tanto vale non preoccuparsi mai, lasciar perdere. Soprattutto, in sostanza, non è vero.

Sono d’accordissimo e non solo, questo atteggiamento mi crea un mal di stomaco perenne che – a me, convinto fruitore di giornali, informazione e discussione politica da sempre – mi sta obbligando al distacco e al disinteresse, che sia Repubblica, il Manifesto, Radio Popolare, il Cronista di Viggiù o altro. Prosegue:

Non è che l’Italia l’altro ieri era di destra e oggi, dal giorno alla notte, è di sinistra. Né l’uno né l’altro. Hanno votato sei milioni di persone su cinquanta, soprattutto nelle grandi città. Più della metà di quelli che potevano farlo non è andata a votare per ragioni diverse, a volte più d’una. I candidati erano così così, niente di appassionante a tutte le latitudini, ma quelli di destra erano peggio. I minimi storici. La Lega di lotta e di governo confonde le idee, uno non capisce se sta dentro o sta fuori. Gli assalti alla Cgil di pregiudicati a torso nudo non devono aver appassionato l’elettorato conservatore borghese.
(…) Alla fine, la barca va. Non credo che si segnali un cambio d’epoca. Semplicemente la sinistra, in campo ristretto, a questo giro ha fatto meglio.

Naturalmente De Gregorio non accenna a quante copie in più riesca a vendere il giornale per cui lavora quando alza i toni e aumenta l’enfasi (due giorni fa su Trieste titolava: «Italia a rischio blocco» per qualche ritardato interessato al porto, come si è visto), né quanto questo meccanismo faccia comodo a tutti, dalla classe politica che si trova riportata ogni giorno in prima pagina all’ultimo quotidiano che per non perdere lettori deve sparare, gioiosamente, il titolo a nove colonne. Né, peraltro, di come questa cosa sia del tutto trasversale, di come anche a sinistra ci sia, da sempre, una specie di pessimismo soddisfatto nel ripetersi tra compagni e amici come tutto vada male e sia irrecuperabile, senza rendersi conto di farsi la terapia aggratis sulle spalle di qualcun altro e poi riprendere come nulla fosse.

Chi ci perde, in tutto questo? Ci perde l’elettore, ci perdono le persone dotate di coscienza che, anche se dotate di buona volontà, per sopravvivere all’ansia, all’allarme permanente si distaccano, si disamorano, si dedicano al giardinaggio per non tormentarsi le interiora ogni giorno. Come capita a me, che nel mio piccolo per stare a questa pagina ho smesso da un bel po’ di fare l’almanacco. Persone che, poi, magari, come esito ogni tanto non vanno più nemmeno a votare.
E sarà a quel punto, per concludere il cerchio e già ci siamo, i titoloni dei giornali sull’assenteismo, sul disinteresse e sulla gente che non va più a votare e sulla degenerazione della democrazia, sempre più forte, sul ruolo di internet, sulla perdita della socialità. Senza prendersi, quasi mai, la briga di capire davvero perché e, forse, dirsi che se ne ha un po’ di colpa.

la storia dell’ignoto

Un agosto rovente di alcuni anni fa davo soddisfazione alla mia passione per Attila e Aquileia lungo le banchine del porto fluviale. Un amore di lunga data, sia per l’uno che per l’altra, espresso sia lungo i cipressi che portano alla basilica patriarcale che per le strade della Pannonia alla foce del Danubio alla ricerca della leggendaria tomba. C’ero stato molte volte ad Aquileia, fin da ragazzino, quelle colonne in fila dolce e militare insieme mi dicevano che la città era stata grande, e potente, e ancora giaceva, e giace, sotto terra, perché si vedon le gobbe nei prati che quello dicono, cioè che c’è storia, là sotto. Mentre quel giorno mi immaginavo le attività di un porto di una città importante, figurando favolose navi da trasporto con poco pescaggio cariche di anfore e di marmi e di chissà quali lingue e culture, e mi godevo prosasticamente le cicale all’ombra della cattedrale, un vecchio uomo mi fece segno di seguirlo e mi raccontò una storia.

Mi fece vedere un piccolo cimitero, dietro la basilica, con una ventina di croci bislacche di ferro battuto, storte e dimenticate, e mi disse che lì, appena dopo la guerra, quella grande, una madre afflitta dal dolore scelse un corpo tra quelli lì deposti perché lo mandassero nella capitale, tra grandi trionfi, ad aver sepoltura circondato da fiamme perenni, da guardie instancabili nel più grande altare che l’uomo del novecento aveva saputo costruire in Italia.
Ed era vero.

La mattina del 28 ottobre 1921, e son cento anni tra poco, Maria Bergamas, madre di un soldato disertore dell’esercito austriaco disperso chissà su quale campo di battaglia sul Cimone, dovette scegliere tra undici bare contenenti le spoglie di altrettanti soldati non identificati quelle che sarebbero state poi portate a Roma, a far da milite ignoto. La cronaca ufficiale racconta che le bare furono disposte nella basilica, davanti all’altare, il che è vero perché abbiamo le foto, e che la donna «chiamando per nome il suo figliolo, cadde prostrata e ansimante in ginocchio, abbracciando con passione quel feretro» dice Augusto Tognasso nel suo Ignoti militi del 1922, forse enfatizzando un filo il senso del dramma della povera donna. «Il rito era compiuto», conclude lo scrittore senza far diminuire il pathos.

Le spoglie furono sistemate su un treno funebre, com’era stato alcuni decenni prima per Lincoln in America e sarebbe stato poi per Robert Kennedy, là, o Margherita di Savoia qui pochi anni dopo. Il treno, spesso a passo d’uomo, attraversò l’Italia fino a Roma, sfilando tra ali di veterani, vedove e orfani, finché la bara non fu poi deposta, con grandi onori, all’Altare della Patria il 4 novembre 1921, concludendo un’enorme liturgia nazionale che di fatto poneva onore e fine alla prima guerra mondiale e ai suoi seicentomila caduti. Dei duecentomila dispersi, uno a simboleggiare tutti, il milite ignoto, il «corpo mistico» che incarnava i morti di tutti, come ha scritto Laura Wittman.

Il copione era scritto, ogni dettaglio deciso: il treno avrebbe dovuto sostare non più di cinque minuti nelle stazioni piccole, di più in quelle grandi, i prefetti avrebbero dovuto garantire le folle plaudenti e piangenti, la sepoltura, colpo di genio, a fianco del padre della Patria Vittorio Emanuele II, facendo di fatto del Vittoriano il luogo della memoria nazionale. Copione non a caso, fu davvero tutto scritto perché di quei giorni ne fu girato un film di settantasette minuti, Gloria. Apoteosi del soldato ignoto (visibile integralmente qui), che fu poi proiettato in tutte le sale del regno, che erano già in gran numero. Alla cerimonia, tutti in prima fila, assenti solamente gli sconfitti, Cadorna, gli irregolari, D’Annunzio, coloro che temettero di far seconda fila, Mussolini. Tra pochi giorni, un treno storico ripercorrerà il percorso, giungendo a Roma il 2 dopo centoventi tappe, proprio come allora.

Trent’anni dopo quel 1921, la retorica patria per quanto oramai repubblicana ma sempre assetata di riti e di cerchi che si chiudono, esumò il corpo di Maria Bergamas e la seppellì nel cimitero di Aquileia, quel piccolo e povero sepolcreto dietro la basilica da cui era cominciato molto di questa storia e insieme a quei dieci militi ignoti che non erano stati scelti per la gloria, diciamo eterna anche se nel nome dell’ignoto.