Pogues dilemma

Meglio questo?

O questo?

Accidenti, Shane MacGowan. Secondo e terzo disco dei Pogues, rispettivamente 1985 e 1988, furono doppietta fenomenale. Se il primo era completamente immerso nelle atmosfere del folk irlandese, il secondo allargava un poco gli orizzonti e contribuì, infatti, al successo più diffuso della band – Fairytale of New York con Kirsty MacColl francamente scassò anche parecchio -, pur perdendo la bassista Cait O’Riordan e dando la possibilità ad altri che non fossero MacGowan, Finer, Chevron, Woods, di scrivere qualche pezzo. I testi, i testi. Di sicuro, un periodo caratterizzato dalla grazia e dal tocco magico, non ne sbagliavano una. Come Sinéad O’Connor nei primi due dischi, i Dire Straits in tutta la carriera tranne l’ultimo o Marco Paolini tra Il Vajont e Ustica, ma è un altro discorso e sarebbe lungo.
Questi due dischi contribuirono alla fascinazione collettiva e personale per l’Irlanda, culturalmente di grande successo negli anni Ottanta e poi divisa che non si sapeva mai se dire Derry o Londonderry – la prima, ovvio, mica siamo filo-oppressori – e le bombe dell’IRA esplodevano dappertutto. E fu inevitabile andare e girarla un po’ su e giù fischiettando Chieftains, Clannad, Dubliners, Boomtown Rats, Van Morrison, Cranberries, U2 e tutta quella splendida musica che veniva da là allora.
Quando i Pogues cacciarono MacGowan per un evidente problema con l’alcool – ce l’avevano tutti nella band e anche nel paese, direi, era solo un problema di quantità inaudita e di incapacità a svolgere un lavoro -, lui disse solo: «Perché ci avete messo tanto?». Eh beh, è questo che vale.

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