Raro caso di canzone nata in ambito partigiano, una sera nella compagnia di Nuto Revelli, che viene cantata con soddisfazione anche in ambiti fascisti con poche e piccole modifiche, vedi la fine. Visto il successo trasversale del porcaccione. (Coi quattrini della canzone, tra l’altro, fece la speculazione edilizia in zona archeologica del condominio in cui abito io, com’è piccola la storia. E tanto successo riscosse Renzi che divenne oggetto di una Renzeide, su stessa musica).
Caroline Rose, cantautrice apprezzabilissima per la sua Soul n°5 e che parecchio mi fa ridere nelle cose che fa, ha valicato un importante confine nel merchandising:
Il prezzo è giustamente insensato, metti poi che qualcuno li voglia davvero.
Accidenti, è mancato Giuliano Montaldo e non c’è età così veneranda che renda la cosa accettabile. Partigiano, attore e poi ovviamente regista, lo ricordo senz’altro per la trilogia sul potere, Gott mit uns (1970), Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973), militare, giudiziario e religioso, L’Agnese va a morire (1976), che sequenza formidabile. E il suo Marco Polo, sceneggiatone colossale del 1982, ricordo la trepidazione alla messa in onda in prima serata.
C’è una storia che si racconta a proposito di Sacco e Vanzetti, mi piace pensarla vera. L’ho già scritta e la riporto:
Gian Maria Volontè interpretò Bartolomeo Vanzetti nel film di Montaldo del 1971 e, quando si trattò di recitare il lungo monologo in propria difesa («la società nella quale ci costringete a vivere e che noi vogliamo distruggere, è tutta costruita sulla violenza: mendicare la vita per un tozzo di pane è violenza; la miseria, la fame a cui sono costretti milioni di uomini è violenza; il denaro è violenza; la guerra; e persino la paura di morire che abbiamo tutti ogni giorno, a pensarci bene, è violenza»), Volontè si preparò a lungo. Quando si dichiarò pronto, cominciò a recitare l’intera scena, come era solito fare. Si racconta che dovette interrompersi e ricominciare perché una comparsa, che interpretava un poliziotto alle spalle di Nicola Sacco, scoppiò a piangere per il pathos e la carica dell’interpretazione di Volontè e ci volle un bel po’ perché si riprendesse. Potere delle parole (e del magnifico Volontè).
Me commuove davvero anche a me. E Montaldo, onesto e dritto, con l’idea che il cinema sia popolare e vada fatto e condiviso con le persone, la sua «insofferenza dell’intolleranza» di cui tanto abbiamo bisogno ancora, la militanza costante. Scrisse la sua autobiografia, Un marziano genovese a Roma, in cui se Zeman non c’entra nulla il pensiero è a Flaiano. Su RaiPlay non si trovano i suoi titoli formidabili ma alcune cose ci sono, tra cui il documentario sulla sua lunga relazione con la moglie, Vera & Giuliano.
Un ultimo racconto, è lo stesso Montaldo che lo fa durante un’intervista, parlando delle riprese di L’Agnese va a morire e della protagonista, Ingrid Thulin:
«Quando all’inizio del film bisognava scegliere la bicicletta di Agnese, la Thulin volle venire con me a sceglierla, perché aveva imparato che la bicicletta era come un’altra parte del corpo di una donna romagnola. Andammo a Lugo, dove esisteva un luogo in cui venivano ammassatati gli oggetti ritrovati. Vecchi oggetti, vecchi a tal punto che vi erano anche alcune biciclette del tempo di guerra. La Thulin ad un certo punto vide una bicicletta da donna, pesante, nera, e disse: “voglio quella”. Era arrugginita, disastrata e io cercai subito di dissuaderla: “meglio quell’altra, che è messa meglio”. Pensavo anche al fatto che sarebbero occorsi dei soldi per metterla a posto, in un film con pochi soldi si sta sempre attenti a tutto, ma Ingrid ribadì: “No, voglio quella lì”. Ebbene, il meccanico, nello smontare la bicicletta, ha trovato, dentro il telaio dove si inserisce la sella, un messaggio che una staffetta partigiana stava portando a qualcuno. Quella era proprio la bicicletta di una staffetta partigiana, forse caduta per mano dei tedeschi. Ho ancora un brivido a pensarci».
Quando leggi i passaggi del libro di Vannacci pensi: sciogliamo l’esercito, sciogliamo le Istituzioni e facciamo un grandissimo bar, il bar Italia. Però mi resta una domanda: se in questo bar è possibile dare dell’anormale a un omosessuale, è possibile dare del coglione a un generale?
È possibile, già lo faccio da un po’. Non male, Bersani, ha toccato un punto.
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