minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno uno. Intoppi non intoppi, le proteste in valle, l’andamento di un paese e un carro.

Esco presto, devo prendere un paio di treni per valicare le montagne e uscire dal paese. Alla reception il cinese mi offre un quasi materno: «dai, fai un po’ di colazione», dice colaziòne, torinese, indicando la macchinona del caffè, ed è un buon modo di iniziare la giornata. Ma io non ho molto tempo, devo prendere un treno velocissimo che viaggerà su una tratta lentissima perché gli abitanti di una certa valle fanno ostruzione da molti anni alla costruzione della linea veloce. Per carità, la parte di me umanista e localista approva, non sono un fan dei trafori e degli sventramenti. Ma la parte moderna e progressista che ho dentro sostiene invece lo sviluppo ragionato, la velocità nei collegamenti, l’integrazione della mobilità europea. Perché se si guarda la cartina, manca proprio quel trattino lì, strategico. E la città in cui sto andando io è bellissima e se ci fossero dei collegamenti veloci ci andrei a cadenza bisettimanale. La valle è molto bella, per carità, molto aperta e coronata da montagnotte verdi e scenografiche, non manca nemmeno il fiume al centro, sarebbe un peccato deturpare questo ambiente. Ma la superstrada già c’è, spesso su viadotto ben visibile per portare i borghesi a sciare al Sestrière, e io qui tifo treno comunque. Per i condominii a pioggia hanno già dato, la fabbrichetta qua e là pure, insomma il contesto almeno nella parte bassa della valle c’è e se poi devo dare un volto umano alla cosa, penso a Francesca Carla e d’improvviso andrei avanti con il cantiere. Ma li capisco, l’alta velocità ti sfreccia davanti e a te che stai lì non ti resta proprio niente, solo una macchia di colore e casino.

È che son tutti passati da qui, essendo una fila di valichi bassi: probabilmente Annibale, certamente Cesare e Costantino, altrettanto gli Unni, gli Ungari, persino i Saraceni, Longobardi, e giù giù passando per Carlo V e Francesco I fino a Napoleone terzo per il nostro Risorgimento. Vuoi che non si passi noi, oggi, alla velocità della luce?
Il bello di questi viaggi è che quello che normalmente sarebbe un intoppo, è un’opportunità: il treno superveloce scazza la tabella degli orari, io perdo la coincidenza e mi trovo a girare per un paesone che altrimenti non avrei mai visto: Chambéry. Capitale della Savoia fino a Torino, i principini si spostarono a malincuore, magnifica posizione, graziosa. Nel genere, eh, per qualche giorno.
Ah, giusto, la frontiera. Salgono un bel po’ di poliziotti, tutti armati, annunciano il controllo dei documenti, identità e covid, e poi confrontano distrattamente il nome sull’uno e sull’altro. Fine, niente verifica del codice del green pass. Una coppia attempata viene fatta scendere, non sono in grado di capire se sia perché non sono vaccinati o tamponati, spero sia una faccenda di droga e armi. Di sicuro, mi fanno perdere la coincidenza, i due criminali.
Poi, anche il secondo treno, un regionale che attraversa cinquanta volte quel magnifico fiume del Rodano, arriva in ritardo di quasi mezz’ora. Oh, franzosi, che succede? Dovessi trarre teoria da un paio di indizi, direi che il paese sia in declino. Vedremo, vi tengo d’occhio, mangiarane. Poi mi scappa l’occhio e leggo che sul filo di lana sempre loro ci hanno superato nel medagliere olimpico, dopo il nostro imperioso stacco. Rosicate, macaronì, allons! Vive la frans, vive le sciampàgn, adié! Sapete com’è, no? Ho visto un carro fermo ed è stato un attimo. Orvuar.
Arrivato a Lione ma questa è già storia di domani.


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minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo dei vaccini: giorno zero.

Un dolore persistente e penetrante alla gambaculo mi suggerirebbe di non muovermi.
Questo in tempi normali. E ragionevoli. Ma siccome son tempi stracciati e la mia paura di ritrovarmi in breve alle prese con i delirii governatoreschi arancione aggravato è forte, vado lo stesso. Però da persona ragionevole e sensata quale vorrei dare l’impressione di essere, stringo un patto con il medico: uno zaino di non più di dieci chili. E moderazione nei gesti atletici. Sottoscrivo con la goccia di sangue rituale ma sto pensando solo al primo termine dell’accordo, il secondo vedremo.
Considerando che il notebook con cui scrivo le sagaci noterelle che tanto mi fanno contento pesa due chili e che la macchina fotografica con cui corredare il tutto ne pesa più di uno, il gioco è praticamente fatto. Nello zaino mi ci stanno solo un secchiello per conservare le bottiglie in fresco, due cerbottane (una lunga e una no), una piccola riproduzione della villa Medici di Velazquez con modesta cornice lignea e una scatola di Indovina chi?. C’è ancora spazio solo per il doping, stavolta necessario per affrontare il viaggio, causa il male detto. Una bella mistura fatta da due parti di antidolorifico, una di sputnik, mezza di pfizer, un goccio di 5g, due grammi di mdm, un cucchiaio di prosecco, cinque litri di sciroppo Fabbri all’amarena. L’acqua brillante conto di trovarla in giro. Assumere rigorosamente a stomaco vuoto. Tutto il resto, cambi, spazzolini e balsami, li lascio a casa. Il signore pensa a vestire gli svestiti e, spero, anche agli assenti di ricambio.
Poi ci sono le robe non mie, che già io sarei stato a posto: il green pass, cartaceo e digitale, le mascherine, il dPLF, altresì noto come PLFs, cinque o sei autocertificazioni varie a seconda del paese di transito, la connessione sempre aperta con re-open EU e viaggiaresicuri per non perdermi alcuna novità burocratica, forse scampo pure qualche tampone che comincia a fare capolino oltre la vaccinazione. Non è che uno se ne possa andare in giro con lo sguardo per aria, sereno, con una pagliuzza in bocca e una barca nel cuore, diciamo.
Vabbè l’ho fatta anche troppo lunga: io vado. Domani mattina presto valico la frontiera, se riesco, e ridiscendo di là verso tutte le avventure che riesco a pigliare.
Ma non starò affànacazzata, me chiedo di tanto in tanto? O chiedo per un amico? Può essere, caro, può essere, lo scopriremo tra qualche giorno. Sicuro.
In attesa di scoprire il vero, mi godo la serata, l’attesa della partenza e tutto lo spettacolo.

Ci vediamo di là.


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ancora Bologna, ancora il due agosto (e son quarantuno)

È di nuovo il due agosto, come scrivevo l’anno scorso molto sappiamo della strage, degli ambienti in cui maturò, di chi vi prese parte.

Oggi sappiamo qualcosa di più anche sui mandanti, sebbene sia l’ambito ancora più oscuro, e la situazione è in movimento: è di qualche giorno fa la deposizione dell’ex-moglie di Bellini che ne ha smontato l’alibi, arrivò a Rimini molto più tardi, quella mattina, e il volto che appare nel video in stazione è il suo. Quell’alibi che gli permise di uscire dal processo e che invece, ora, lo fa rientrare a pieno titolo come quinto uomo.

Si ricorda e si continua a cercare, ogni pezzo in più è un piccolo riconoscimento alla memoria dei morti, almeno si sappia come e perché, che i colpevoli paghino.
E a questo punto dovrebbero entrare in gioco gli storici, ce n’è bisogno.

e per il premio ‘supermerdona’ il vincitore è…

Ancora l’Attilio!

L’Italia, diceva poco tempo fa, non può «accettare tutti», poi purtroppo spiega anche perché. «Non possiamo perché tutti non ci stiamo, quindi dobbiamo fare delle scelte. Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se deve essere cancellata».
Era solo il 2018, che bei ricordi, chiaro che se il nero viene qui, non rompe i maroni e vince le medaglie per noi, allora va benissimo. Abbiamo vinto.