Una delle cose che mi fa piuttosto ridere è digitare qualcosa in gugol e leggere i suggerimenti di ricerca automatici che propone, basati con evidenza sulle ricerche di tutto l’altrui. In questo caso ho cercato ‘leida’ e lui, il motore, è partito piuttosto bene e con inerenza.
La seconda, ‘Come Dove si trova’ mi fa molto ridere. Ancora. E inutile cercare risposte a questa e domande come ‘Come chiamano l’Italia?’ perché sarebbe davvero sforzo vano. Loro non vogliono si sappia.
L’Emilia Romagna è alluvionata, il gran premio di Imola viene annullato, questioni di rispetto, logistica e soldi insieme, immagino, e Springsteen ha invece suonato regolarmente a Ferrara al Parco Urbano Bassani questa sera. Claudio Trotta di Barley Arts, l’organizzatore, e il sindaco hanno spiegato che non essendo in zona rossa e non essendovi problemi particolari e, come sempre, volendo tutelare i lavoratori coinvolti, il concerto non si sospende. C’è del vero in questo, come è vero che è cominciato con cinque ore di ritardo per permettere alla Commissione di vigilanza di svolgere i controlli del caso e come è vero che i cinquantamila partecipanti in qualche maniera Ferrara l’hanno pur dovuta raggiungere, sovraccaricando un sistema in difficoltà. E come è un mio pensiero che, forse, i novecento addetti per la sicurezza, fra cui duecento delle forze dell’ordine tra Polizia, Guardia di Finanza e vigili urbani, centocinquanta volontari della protezione civile e sessantadue operatori sanitari del 118, Ausl di Ferrara e Croce Rossa, avrebbero potuto essere destinati ad altre mansioni legate all’emergenza.
Sicuro, invece, che Springsteen sul palco non ha dedicato una parola, un pensiero, una canzone alla situazione di emergenza circostante. Colpisce, nel senso che da un cantautore che dell’attenzione alle difficoltà della vita ne ha fatto una misura del proprio lavoro è lecito aspettarsi qualcosa. Da un trapper attento alle proprie sopracciglia no, da lui sì. Dopo di che non è avvenuto, non era tenuto a farlo, non era obbligatorio, non l’ha fatto. Ciascuno scelga per sé se essere deluso o no.
In questo senso, l’immagine che mi viene in mente è quella di John Lennon e Yoko Ono durante il loro Bed-In del 1969, protesta non-violenta contro la guerra in Vietnam. Lodevole, grande eco, rimasero nel letto per due settimane, una ad Amsterdam e una a Montreal, per protestare contro la guerra e di promuovere la pace mondiale. Le lenzuola, però, ogni tanto andavano cambiate ed ecco la fotografia:
Esatto, la cameriera. È pur vero che erano in albergo, le lenzuola bisognava chiederle, che insomma eccetera, d’accordo. Però, anche in questo caso, qualcosa stona e colpisce. Ciò toglie qualcosa al senso e al messaggio della protesta? No, direi di no. Avrebbero dovuto cambiarsi le lenzuola da soli? No, non erano tenuti, non l’hanno fatto. Sarebbe stato meglio? Forse sì, chissà, di certo oltre a tutte le immagini del Bed-In, di grande impatto, resta anche questa, quella della cameriera. Una working class hero. Anche in questo caso, ciascuno scelga per sé se essere deluso o no e in che misura. Io un po’ sì, qui e là.
Come ogni bella storia di passione, ha da fini’. Sarà il caso che torni a casa, piccole maree nere di liquami si stanno preannunciando al mio orizzonte temporale, pagherò caro pagherò tutto. Ne è valsa la pena? Sempre. Faccio un salto in stazione prima per capire come funziona, che treni devo prendere, fare un biglietto, capire gli orari, in questi posti serve più tempo. Arrivo che dev’essere tardi e tutto è chiuso. In Lituania non ci sono le macchinette automatiche per i biglietti, così comode anche per calcolare gli itinerari e vedere le partenze, quindi ciccia. Ci sono degli A4 appesi in bacheca con gli orari e le percorrenze ma è chiaramente un po’ più complesso. Poi, mi scappa l’occhio e in un ufficetto c’è una signora con una divisa blu, immagino abbia a che vedere con i treni. Non parla inglese, non è molto frequente qui. A Vilnius ancora ancora, specie se persone più giovani e che lavorano a contatto con i turisti, ma scordarselo nelle stazioni e negli uffici pubblici, fuori nella Lituania più sparsa, poco o nulla. Basta che io dica la parola train con aria interrogativa che lei risponde immediata: No elektrificatzija. Io quello lo capisco e lei fa il gesto col dito che gira in tondo verso l’alto che significa tutto. Non che significa qualsiasi cosa, significa tutto. No elektrificatzija tutto. Niente treni, riesco poi a capire, per una settimana. Penso di non aver capito e invece è così: niente treni. No elektrificatzija. Ma perché gli avete fatto chiudere la centrale nucleare, maledetti di Bruxelles, perché?
No treni per una settimana, è il solito problema del socialismo: l’elettrificazione. Io questo lo sapevo dai tempi dei CCCP. Mi prefiguro rapidamente una vita futura qui, dai c’è di peggio, starò qui per sempre e farò il pescatore, no elektrificatzija, imparerò il lituano, mangerò barbabietole e sarò felice. Ma no, basta poco. C’è il pullman. D’accordo, bus sia, meno elektrificatzija più noija. Per Vilnius, quattro ore, gazolina. Risolto.
Ciao, Baltico. Ci vediamo presto. A Vilnius ho un po’ di tempo da passare, dopo tanta natura opto per un po’ de curtura e vado al museo d’arte nazionale lituano ed ecco la recenszija specialistica in linguaggio tecnico: tremendino, ritratti dopo incidenti stradali e frutte morte a iosa. Pare un po’ dismesso, in effetti. Opto allora per il palazzo dei duchi di Lituania, un vero pezzo di Rinascimento italiano in Lituania grazie a Bona Sforza, figlia di Gian Galeazzo, che nel 1518 sposò in seconde nozze Sigismondo I, diventando così regina consorte di Polonia e granduchessa di Lituania. Ecco, i quadri belli, diciamo, sono lì. Oddio, vero Rinascimento mica tanto: quando arrivarono i russi il palazzo lo rasero al suolo. Non che siano più cattivi, si fa proprio così: quando invadi un paese o ne abbatti i simboli o li occupi trasformandoli. Ecco, in questo caso hanno abbattuto. E i lituani, ottenuta l’indipendenza nel 1990, ne hanno fatto un motivo di orgoglio e l’hanno ricostruito.
Una cosa che mi colpisce ancora, nei paesi dell’orbita ex sovietica, sono le persone di una certa età che vendono cose su banchetti piuttosto improvvisati. Fuori dal mercato centrale, per esempio, un capannone primo novecento come ce ne sono ancora a Roma e Milano, perlopiù donne immagino provenienti da zone di campagna vendono pochi ortaggi, qualche ciuffetto di verdure, un cestinello di fragole. Per strada, invece, nella migliore tradizione, e qui sono soprattutto uomini, qualche oggetto usato, qualche spilla militare, binocoli, raccoglitori di monete. Oppure, nelle zone di passaggio, vecchine che vendono mano a mano piccoli mazzetti di fiori colti da poco e raccolti con un gambo annodato. Mi colpiscono, perché evidentemente sono persone che vivono di niente, con quei quattro cespi di erba cipollina faranno quadrare la giornata? Avranno una pensione? Oppure tutto sommato stando nei dintorni della città riescono a campare di piccola agricoltura e qui arrotondano come possono? Il tutto stride con un tenore di vita, almeno nelle città, del tutto europeo, i costi qui sono leggermente inferiori che in Italia ma non così tanto. A Riga, fuori dal mercato, dai mercati generali in realtà, perché sono cinque enormi capannoni con banchi e prodotti davvero lussuosi, c’è un vero e proprio mercato parallelo, immagino con le sue regole, che vende gli stessi prodotti a molto meno. Qui la situazione è meno ampia e strutturata ma non diversa. Di certo, mi colpisce vedere qualcuno che su un piccolo cartone vende, per esempio, tre patate e una verza.
Mentre scrivo queste ultime cose sono già al non sole del belpaese, seee, e già sono travolto dal rumore di fondo: l’Eurovision, la Meloni a trecentosessanta gradi, il gran premio di Imola annullato per l’alluvione in Emilia-Romagna e il concerto di Springsteen a Ferrara no, il nuovo logo del MIM, stracchini con merito, i tweet, le sciocchezze, le buffonate, le volgarità, le cose che non voglio fare con persone con cui non ho voglia di discutere. Insomma, quella che chiamiamo vita normale, quotidiana. E io a questo punto un po’ di domande me le faccio sempre. Lavoro, auto, bucato, spesa, gomme, revisione, visita, movimento, banca, pulizie, cose così, per restare a questo primo giorno. Bene, tutto bene, è quella vita normale che implica fare cose perché ne funzionino altre, per esempio dormire sotto un tetto, cenare con amici, sostenere il viaggio alla valle della morte. Soffro la ripetizione ma ce la faccio. A sera della vita normale è normale, appunto, essere stanchi: quante cose fatte, quante sbrigate. Ripetere per un po’ e si manifesta l’illusione di una vita piena. Tant’è che il tempo fugge, volano le settimane in un ricordo di vita abbastanza indistinta per cui, poi, servono le vacanze, in senso letterale: la vacanza, l’assenza dalla vita quotidiana. È imperativo distrarsi, rilassarsi, intrattenersi e non pensare, un tormentone estivo, magari. Per poi ricominciare. Di cosa, dunque, è piena, una vita così? Di riempitivi, perlopiù, ecco perché parlo di illusione. Storditi dalle cose, cerchiamo riposo ma, subito dopo, ricerchiamo l’affannarsi e l’affastellarsi delle commissioni, del lavoro, degli impegni. Per riempire tutto.
Ecco, io viaggio per creare il vuoto. Il mio vuoto, nel quale ho il tempo per guardare, pensare, ascoltare e scoprire. E non deve essere intrattenimento, il viaggio, altrimenti è la stessa cosa della vita quotidiana, è turismo, è quel concetto tremendo di ‘esperienza’, l’evento fintamente esclusivo. In viaggio, magari quando cammino su qualche duna al confine della Russia, talvolta penso. Non tanto eh, e non molto bene ma capita. Nel mio vuoto, devo essere capace di affrontare la mia vita: chi sono, cosa sono diventato, come vorrei migliorarmi. E poi anche le parti più difficili, i rimpianti per ciò che non ho avuto e per le scelte sbagliate che ho fatto, chi non sono più, le persone che mi mancano, il tempo che passa, come mi comporto con le persone cui voglio bene e con quelle che non reggo. È questo il senso del mio viaggio. Devo ricalibrare e ricentrare la mia attenzione e concentrazione, trovare un equilibrio con quel magone che la vita quotidiana soffoca e nasconde e che, invece, va affrontato. I primi giorni di viaggio, solitamente, sono i più complicati, quelli che richiedono più correttivi, un posto molto bello, una buona cena, un’intensa attività fisica, birrette varie, risate. Poi vado avanti. E, di solito, trovo la quadratura. Ovviamente, non solo di viaggio e pensamenti si può e deve vivere, per cui torno, cambio le gomme invernali, lavoro, mi faccio vedere da un medico, pago le tasse e poi, dopo poco se ho fortuna, riparto. Ciascun faccia per sé, quindi, consiglio solo attenzione, che distrarsi per una vita è un attimo. Alla prossima.
Attuo il piano. Vado per imbarcarmi e già non c’è il traghetto, ovviamente hanno ragione loro, è domenica e io non comprendo quello che gli asterischini e le stelline sugli orari dicono, quindi ho frainteso gli orari delle corse. Piano infallibile fin dall’inizio ma, fortuna mia, sono uno che si muove sempre in anticipo. Aspetto quello dopo, scavallo la laguna e sono prontamente sulla corrierina che mi deve portare all’inizio della mia missione verso la Russia, in fondo alla penisola di Neringa, a Nida.
Siamo in tre, la corriera si ferma nei piccoli paesi sulla penisola o fa fermate in luoghi interessanti dove, per esempio, c’è qualche duna particolarmente alta o passeggiate nelle pinete. In alcune piazzole vedo giovani fanciulle bionde con frigoriferi attaccati alla batteria dell’auto che tengono in fresco gelati e alcolici in attesa dei turisti della domenica. Una domenica come tante. Dopo la cinquantina di chilometri lituani della penisola, scendo e mi metto in cammino verso sud. Prima devo salire su un’enorme duna alta una sessantina di metri poi scendere leggermente per un lungo altipiano di sabbia e poi arrivare alla zona di confine, oltre la quale c’è la terra di nessuno, in cui non è possibile andare. Dovrebbero essere circa tre ore di cammino, sulla sabbia si cammina lentamente.
La lingua di terra in fondo è Russia. Procedo abbastanza speditamente ma fa un certo caldo e la sabbia riflette parecchio. Fortuna che io mi sono astutamente attrezzato: macchina fotografica, sì; telefono, sì; batterie di ricambio, sì; auricolari, si; acqua, no; cappello, no; cibo, no. Perfetto, procedo. Nella sabbia vedo impronte di zampe simili a quelle delle galline o delle cornacchie ma saranno certamente degli avvoltoi. Le sterpaglie tracciano dei segni perfettamente circolari roteando per il vento, sono bellissimi da vedere. Ignoro volutamente qualche piccola traccia serpeggiante, mi dico di non averle viste, e noto che a ogni passo saltano fuori dalla sabbia un sacco di cosini cui devo aver dato fastidio.
Non c’è in giro davvero nessuno. Rivedo certe vignette di Quino nella mia testa e mi immagino sdraiato nella sabbia con la mano in avanti che indica qualcosa e diventato scheletro con la macchina fotografica al collo. È proibito scalare le dune dal lato più ripido e la ragione è che, essendo modellate dal vento, potrebbero franare. Ma gli avvisi li danno mica perché tengano alla vita umana in particolare, men che meno alla mia, bensì perché possono facilmente franare tonnellate di sabbia e così favorire lo spostamento di intere aree delle dune in poco tempo verso direzioni incontrollate. D’accordo. Dopo circa un’ora e mezza arrivo a un avvallamento piuttosto lungo e privo di vegetazione, oltre il quale dovrei intravedere la terra di nessuno. C’è un cartello.
La zona si chiama Valle della morte. Ottimo. Mentre mi chiedo se sia perché fa caldo e c’è il deserto o perché i russi sparino, penso che ho proprio fatto bene a venire qui, giornata memorabile. Un po’ di epica nel quotidiano, ne ho spesso bisogno, e nel frattempo penso che di certo anche Kant sarà venuto a camminare qui, qualche volta. Il cielo è splendido, non c’è un alito di vento, il caldo aumenta, alla peggio devierò e mi lascerò andare a biroloni nel mare. Questa cosa del bere acqua è decisamente sopravvalutata, maledetti salutisti da palestra. Ed improvvisamente scendo una piccola duna e trovo un limite.
Questo lo capisco anch’io. Anche perché c’è la rete. Questa è la terra di nessuno, interdetta, lunga qualche chilometro, e poi c’è la frontiera vera e propria. Che in tempi normali era una frontiera, col visto certo, ma insomma una frontiera. Ora con la guerra in Ucraina fare stupidaggini è di certo molto più rischioso. Il mio telefono mi è di grande aiuto e la mappa mi dà una posizione precisa.
Perfetto. Berrei qualcosa ma meglio di no, che poi mi vien sete. Seguo ortogonalmente per un po’ la palizzata e arrivo in un posto interessante.
Molto molto molto bene. Sarà la tomba di Arch Stanton? Mi aspetta un triello? Ma va’, sarà roba da ente del turismo, pieno qui di turisti. Mi rendo conto che sono almeno tre ore che non incontro nessuno, potrei venire alle mani con un cinghiorusso e lasciare ai miei cari l’idea che io alla fine mi sia arruolato nell’esercito invasore. Mi procuro un bastone perché ogni tanto incappo in certe ragnatele che non ne ho mai sentite di così resistenti e mi restano appiccicate alla faccia, alla testa e ai vestiti. E se il ragno è proporzionale, sono fatto. Quando le dune si muovono, e basta poco, ovviamente travolgono tutto quanto. Gli alberi, per esempio, che seccano in breve e restano certi tronchi secchi secchi smozzicati che escono dalla sabbia, oppure i villaggi. Sotto i miei piedi giace il vecchio villaggio di Nida, che si poteva intravedere fino a metà Ottocento. Sono al mare, da uno dei due lati, così posso sbirciare la terra di nessuno.
La duna dietro, quella bianchissima, anche se non sembra è alta ottanta metri, la pineta a sinistra è Russia, l’oblast di Kaliningrad. Faccio tre passi oltre la rete passando nell’acqua tanto per il gusto di averlo fatto e ripiego lungo la recinzione, tornando da dove sono venuto, perché voglio andare dall’altro lato della penisola. Dopo una mezz’ora arrivo alla pineta e, devo dire, faccio una delle migliori passeggiate in pineta che io abbia mai fatto.
Bellissima. Sembra l’inizio di un film horror russo e io mi chiedo ma che cavolo di immaginario ho, dentro di me. Poi mi viene da ridere perché i lituanici hanno proprio deciso di essere convincenti nel dissuadere gli stolti come me dall’oltrepassare il confine.
Non solo zecche, ma “affamate”. Ahah. Spero l’immagine sia esemplificativa e non a dimensione reale. In questa pineta, prima che fosse rimboschita, nacque l’aviazione lituana, nel senso che a inizio Novecento degli arditi sfruttavano le dune per provare a far planare certi protoaeroplani di legno e qui, dicono, a un certo punto fecero il record del mondo di volo, un baracchino stette in aria per qualche chilometro. Arrivo alla strada, l’unica strada che percorre la penisola e che porta a Kaliningrad. Data la situazione, è così.
Ma io, ormai, ci sono. Che colori. Arrivo al mare dall’altra parte e metto dentro i piedi. È foooottutamente gelato, ossignore. Spavaldo, io. La temperatura mi torna a norma in pochi secondi, qualche bagnante qua e là, evidentemente in cerca di posti meno affollati del deserto. A questo punto mi dedico alla contemplazione, devo solo tornare a Nida facendo però il giro facile, nella pineta. Di sabbia, dune e deserti della morte ne ho abbastanza per oggi.
Un bel giretto. Un buon panino all’aringa con una salsina rossa che sa di moquette d’albergo, un espresso sul mare e il ritorno nella corrierina piena come un uovo, è pur sempre domenica, con la gente in piedi tutta schiacciata, poi il traghetto e la mia avventura nel deserto al confine proibito è felicemente conclusa. Ora, mi dico, devo andare a vedere com’è la laguna dall’altra parte, cioè che da Kaliningrad va a Danzica, dove c’è il monastero dove morì Copernico, a Frombork. Prossimo viaggio. Adesso il mio mezzo litro di birra lituanica a contemplare il tramonto che non arriva mai non me lo toglie proprio nessuno.
Mi metto in moto perché voglio essere proprio oggi sul mar Baltico e ne manca un po’. La via più breve è seguire il Nemunas fino alla foce ma malauguratamente non ho una barca e non c’è la ferrovia. Cioè, c’è, ma passa molto in alto, torna indietro e fa un giro strano e ci mette quattro ore. La prenderò al ritorno, opto per il bus, comodo e bello dritto. Oddio, dritto non tanto, l’autista continua ad andare a zig zag e finisce di continuo con la ruota sulla striscia vibrante a lato carreggiata. Non sono il solo a guardare di tanto in tanto se stia dormendo. Prima di pranzo sono a Klaipėda, il più importante porto lituano e città in una posizione particolarissima che è il motivo che mi porta qui. Davanti alla città si dislunga la penisola di Neringa o penisola dei Curoni o penisola dei Curi o penisola curlandese. Una striscia di terra sottile sottile ma lunga cento chilometri, più propriamente un lido che, simile a quella di Venezia, separa il mar Baltico dalla laguna dei Curi, un grosso lago-mare interno tutto particolare. Davanti a Klaipėda si apre l’unico ingresso alla laguna, un canale largo trecento metri.
Ho detto terra ma no, non è terra: è tutta sabbia. E tanta sabbia. Di fatto la penisola è fatta di dune enormi, alcune alte anche sessanta metri, che si spostano tra le due coste a seconda del vento e della posizione. Ho visto una cosa simile alla Dune du Pylat vicino a Bordeaux, sull’oceano, molto più in piccolo, e qualcuno mi segnala la foce del Guadalquivir per somiglianza. Fin dal Settecento, per ostacolare la crescita e lo spostamento delle dune, che avevano la cattiva abitudine di seppellire i villaggi come il vecchio Nida, i lituanici di allora cominciarono a piantumare la sabbia con pini e betulle, in prevalenza. Mettendole sufficientemente fitte, si crea un bosco e il terreno si ricopre di muschi ed erbe rampicanti, il che ferma lo spostamento della sabbia. Restano ampie zone non piantumate in cui enormi dune di splendida sabbia gialla tipo-deserto si muovono e cambiano con il tempo.
L’unico modo per raggiungere la penisola di Neringa è con il traghetto perché, e qui sta la seconda cosa interessante, la parte meridionale della penisola, della laguna e del territorio circostante è Russia. Più precisamente l’exclave di Kaliningrad o Königsberg se nostalgici prussiani o Królewiec, come ha deciso due giorni fa un ministro polacco in difesa dalla, ehm, russificazione. Vabbè. È l’unico porto russo sul Baltico che non gela, gelava, d’inverno, quindi strategico, ecco il perché dell’exclave al momento dell’indipendenza della Lituania. Quindi, ci si muove e si gira solo fino a un certo punto, quando per via di penisola o laguna o terra si va a sbattere contro il confine russo, particolarmente caldo di questi tempi.
E indovina? È esattamente dove voglio andare io. Ma non oggi, domani. Mi serve tutto il giorno. Allora vado in esplorazione, trasbordo con il traghetto, mi segno gli orari, cioè l’unica cosa che capisco – i numeri – in ogni comunicazione locale, scopro che una corrierina percorre il lido verso sud fino a Nida, l’ultimo avamposto prima del confine, e poi la farò a piedi. Segno gli orari della corrierina e ho un piano. A questo punto mi godo il Baltico che, di certo, d’inverno è il mio mare preferito.
Cammino qualche chilometro sulla sabbia, grosse cornacchione pescano dei pesci tipo boh sogliole, si mangiano la parte più buona, occhio e sottoguancia, e poi lasciano tutto lì. Beh, arriverà qualche affamato meno raffinato. Per esempio, le tre foche che vedo giocare più avanti, sono talmente vicine che ne sento l’odore, ed è una puzza animale feroce, queste sono pelosone e grigie, non nere e lucide come quelle in Sudafrica. Il mar Baltico, le sue rive e soprattutto il suo cielo, che è la cosa più bella perché sempre in movimento e sempre brillante sia blu o grigio, è simile sia da Lubecca, Stralsund, Stettino, Danzica, qui, Riga, Tallinn, Helsinki o Stoccolma, è un lagone interno. Non stupisce che la Svezia abbia spadroneggiato in lungo e in largo sulle sue coste e anche all’interno, rompendo le palle a tutti i vicini per decadi.
Arriva un cargo portacontainer danese e io e altri beoti, maschi va detto, lo guardiamo per tutta l’entrata alla laguna verso il porto di Klaipėda, comincia a frenare, a mettere i motori indietro una decina di chilometri prima del molo, e la laguna è per sua natura placida e protetta. Ma per queste navi così grandi basta un vento moderato, tanto fanno massa. Seguo la nave dalla riva, mi imbarco di nuovo e vado in cerca di uno dei quattro alimenti lituani, o più di uno combinati, e mi preparo per domani. Prima, però, ho un compito per l’UE. Va bene stabilire degli standard per i caricabatterie dei telefoni, utile, per le prese elettriche, altrettanto, per la curva delle banane o la lunghezza minima delle sardine, tutto bene e utile. Stabiliamo però lo standard più importante di tutti: le etichette rosa devono indicare l’acqua naturale e mai mai mai quella frizzante. Quella è blu, lo sanno tutti. Bene, lo facciamo questo regolamento per tutta l’Unione? Perché qua fuori, sapevatelo, tutti fanno un po’ come gli pare e io e molti altri ne paghiamo le gravi conseguenze. Grazie.
Prendo i miei due stracci e mi inoltro verso il centro della Lituania, con un treno regionale come i nostri, larghezza normale, ma addobbato come una baita transilvana, con tendine di pizzo adesive. Dev’essere una promozione dell’ente del turismo lituanico. Ci avviamo per una pianura tirata a biliardo e punteggiata di fattorie nel mezzo di enormi boschi spontanei, Panierai, Voke, Lentvaris, Rykantai, Lazdenai, Zasliai, Kaisiadorys, Palemonas, in biglietteria faccio fatica anche a ricordarmi la destinazione, oltre a pronunciarne il nome, e poi eccomi, Kaunas. Se avete qualche nozione di basket, allora non devo dirvi nulla. Se non l’avete, in Lituania la pallacanestro è lo sport nazionale, ha espresso squadre e campioni a livello dell’ex Jugoslavia e della migliore Unione sovietica, e Kaunas ne è il centro assoluto, con le final four di coppa in programma la settimana prossima. Magari mi fermo. Ma io non sono venuto per questo, infatti sarei qui in anticipo, io sono qui per le mie esplorazioni, sto seguendo il corso del Neris verso ovest e a Kaunas c’è una poderosa confluenza con il Nemunas, altro fiume di pari grado. Mi piacciono le confluenze, ne ho detto, di questa ne dirò presto perché è speciale. Poi sono qui perché Kaunas è stata un importante membro della lega anseatica, data la posizione sui fiumi, e perché è un esempio fulgido di riconversione di città industriale in città turistica, sportiva, produttiva. Il sindaco della mia città sostiene che la sua sia la migliore in Europa per riconversione tra le città medie e io dico che se viaggiasse in Europa imparerebbe molto, a partire da Kaunas. Almeno a evitare improvvidi superlativi.
Kaunas è abbracciata da due fiumi, come dicevo, uno dei quali, il Nemunas, forma un’isola sulla quale c’è il palazzetto di basket, ovvio, impianti sportivi e giardini a non finire. La città vecchia si sviluppa sulla punta alla confluenza, ha una piazza quadrata con un municipio puntuto che mi ricorda Lüneburg, un bel castello difensivo di cui resta poco e qualche timida casa che preannuncia il gotico baltico. Il resto, le aree industriali, sono state riconvertite o sono in via di, in uffici, musei, alberghi, abitazioni, aree verdi e ricreative, l’università tecnica lituana, anche in un grosso centro commerciale, certo, al cui centro c’è un viale pedonale tutto alberato che sarà lungo non meno di due chilometri. E che le persone usano eccome. Venga, sindaco, venga a vedere.
I parchi e i giardini si sprecano, lungo il fiume dove c’era l’antico porto fluviale l’amministrazione ha ricreato un’arena per spettacoli e con spalti sui quali in tempi normali le persone si siedono a contemplare il fiume e chiacchierare. Intendiamoci, a Kaunas non c’è quasi nulla da vedere, addirittura meno che nella mia città, se non appunto la splendida natura fluviale che la avvolge, un paio di monumenti e una chiesa baroccona e, soprattutto, l’alta qualità della vita che la contraddistingue. È decisamente una versione più avanzata di Łódź, ecco qua, e come allora opto per un albergo ricavato da una fabbrica, bellissimo. Anche in Italia qualcuno c’è, sono stato apposta al Lingotto per quello, la destinazione è naturale. Per molti ma non per il mio sindaco che ha tirato giù una fabbrica per costruire un albergo nuovo. Bravo e non è il solo.
Una casa mi osserva.
Ma Kaunas è una città ricca, si potrebbe dire. Certo, vero, ma anche la mia lo è. Anzi, a ben vedere, la mia ha avuto alcune decine di anni in più di pace e autodeterminazione che le avrebbero dovuto permettere di migliorarsi molto di più. Quando Vilnius fu occupata dai polacchi nel 1920, Kaunas divenne capitale provvisoria finché non fu occupata dai tedeschi nel ’41, quando furono sterminati oltre trentamila cittadini ebrei e oltre diecimila qui deportati da altre parti del reich. Poi nel ’44 divenne sovietica e così fino al 1990, in un susseguirsi di occupazioni e oppressioni. Quindi sono solo trent’anni che il nuovo corso in città è avviato e certamente anche grazie ai fondi UE, non c’è dubbio. Ma forse i fondi UE ci sono inaccessibili? Il caso del PNRR spiega molte cose. Nella mia città si tolgono le panchine e i luoghi di socialità, qui si aggiungono, nonostante il clima sia certamente meno favorevole. La mia città è tutta piena di auto parcheggiate e di cassonetti, qui non vedo né gli uni né gli altri e sono abbastanza certo che i lituanici non abbiano le ruote e non mangino spazzatura. Ma la sua è la migliore città d’Europa, tra le medie. Per carità, le città sono organismi complessi e difficili da governare, non voglio dire il contrario. Invito solo, caldamente, a guardarsi attorno e avere l’umiltà – direi intelligenza però poi si offendono – di andare a vedere come sono stati risolti gli stessi problemi nelle altre città, anche solo, per dire, per evitare di fare gli stessi errori. Santoddio, sarebbero tutte tremende banalità, queste.
Anch’io ho le mie colpe. Tra due giorni si vota per il Comune, appunto, e io per la prima volta non ci sarò. Penso di avere le mie ragioni ma non conta, il punto è che come dice Berlusconi non sono un buon italiano. Bella scoperta. Ciò però mi porta a una conseguenza: non votando, non potrò criticare la nuova amministrazione. Severo, e difficile, ma giusto. Quindi potrò solo continuare a criticare la vecchia, che noia.
La cosa che balza letteralmente agli occhi è che il sole tramonta alle dieci e sorge alle cinque, di fatto proiettandoci in giornate da diciassette ore. Anzi di più, perché c’è chiaro per un po’ sia dopo che prima, diciamo che bisogna scordarsi di andare a letto col buio e alzarsi col chiaro, andando a occhio. La cosa cui è invece impossibile non pensare è la questione dell’indipendenza delle repubbliche baltiche, citata e ricordata ovunque. Indipendenza che si declina nei secoli, perché mai conquistata in maniera definitiva né stabile. Per restare alla Lituania e agli ultimi secoli, nel 1863 e nel 1918 la riguadagnò dalla Russia e dall’Unione sovietica per poi perderla nel 1939 con la clausola segreta dello scellerato patto Molotov-von Ribbentrop. Non fu, infatti, solo la Polonia a essere spartita ma le repubbliche baltiche furono annesse all’URSS senza reazione inglese o francese. In Lituania cominciò allora un movimento di resistenza armata che avrebbe capitolato solo nel 1953, abbattuto dagli arresti e dalle esecuzioni. Impressionante. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta, e questo mi colpisce perché c’ero e ne avevo capito ben poco, fu di fatto un’occupazione armata sovietica ai danni delle tre repubbliche, l’unica occupazione esistente in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. E ancora più oppressiva perché i popoli baltici nulla hanno a che spartire con i popoli russi, né etnicamente, né linguisticamente, né culturalmente. E se ti viene imposta una lingua è già insopportabile, se poi è pure in cirillico la cosa diventa tremenda. Ragazzi, l’ora di storia non è ancora finita, pazientate, io bevo un espresso accompagnato dal tipico bicchierino di acqua in vero stile napoletano.
Dicevamo. Boni, là in fondo, che manca poco. Alla fine degli Ottanta, con la cosiddetta ‘rivoluzione cantata’, sia in modo nonviolento che schierando i carri armati, la Lituania e poi le altre repubbliche riguadagnarono l’indipendenza prima della caduta dell’URSS. Aderirono convintamente all’Unione Europea, all’euro, a qualsiasi tipo di convenzione pur di non sentire mai più parlare dei russi ed è per questo che oggi sugli autobus lituani invece della destinazione c’è una dichiarazione d’amore per l’Ucraina, col cuoricino, e nelle chiese cattoliche e ortodosse le cassette delle elemosine hanno la bandiera gialloblu. Finalmente indipendenti, le tre repubbliche non furono riconosciute da alcun paese al mondo, tranne l’Islanda. Nemmeno da quell’Europa occidentale filoamericana cui ci pregiavamo di appartenere, la libertà altrui conta finché non crea imbarazzo. Caduta l’URSS, allora sì, finalmente le vedemmo.
Dell’Unione sovietica rimane poco, a parte l’architettura, casermoni nelle periferie che sembrano un glitch nel Matrix, qualche piatto commisto e i binari a scartamento aumentato tipici russi. Nel senso: i binari sono più larghi dei nostri, di conseguenza anche i vagoni, che hanno quattro posti per lato e sono davvero enormi. Tra le leggi della Storia, quella del non invadere mai la Russia ha anche a che fare con questo, ovvero che i nostri treni non vanno sui loro binari e i nazisti dovettero fare grandi trasbordi e inventarsi certi carrelli-adattatori per far salire i propri. Per ragioni commerciali, i lituanesi hanno mantenuto parte della vecchia rete per comunicare a est ma le nuove ferrovie hanno lo scartamento europeo. Per questo, ecco la mia foto qui sopra, nelle stazioni i binari hanno buffamente un largo spazio vuoto a fianco. E se scendi dalla parte sbagliata muori.
Non è che pensare alla resistenza – e qui noi italiani caschiamo nell’equivoco – implichi valori politici e morali di sinistra. Anzi, essendo l’occupante formalmente socialista qui la resistenza fu ispirata perlopiù da valori che oggi chiameremmo cristiano-sociali, per stare alla terminologia del nord Europa. Centrodestra, per capirci. Ma – e anche qui noi fatichiamo a capire – è quella destra democratica, costituzionale, liberale che appoggia e protegge i diritti civili, immigrati, LGBTQ+, minoranze, cioè quella che tanto tanto manca a noi e che baratterei con la nostra destra senza pensarci un minuto. Mi toccherà barattare me e alla fine venire a vivere in posti come questi. Va da sé che la vita per i pochi russi rimasti, perché figli di o nati qui, è piuttosto difficile, l’avevo già visto in Lettonia, spinti ai margini della vita sociale ed economica e spesso senza la possibilità di andare altrove, non essendo riconosciuti come veri russi nemmeno di là.
Dato lo sforzo, mi merito un piatto tipico lituanico e opto per le bulviniai blynai, polpettone frittellone piatte di patate con poca poca salsina yogurt a fianco. Buone, peccarità, non fosse che sono sette e grandi, il mezzo chilo di patate secco secco c’è e non è possibile negarlo. Certo, uno potrebbe anche optare per altri piatti tipici: i vedarai, salsicce di patate, i cepelinai, grandi gnocchi di patate, il kugelis, sformato a base di patate… D’accordo, la sto mettendo giù ripetitiva per amor di scrittura, in realtà la cucina lituana è buona anche se, di fatto, è impossibile prescindere dai grandi quattro: patate, barbabietole, zuppe e carne. Io vado d’accordo con tutti, quindi a posto. Anche con le orecchie di maiale affumicate, che si mangiano come le patatine o la cotenna fritta da noi.
C’è un’altra cosa rimasta legata all’URSS e ha sempre a che vedere con i treni: le biglietterie, invariabilmente presidiate da robuste donne sessantenni che non parlano alcunché non sia materno, vendono anche snacks, bibite e specie di menù combinati. Non che non sia utile, uno fa le cose in una volta sola, però mi colpisce, trasmette un’immagine che da noi sarebbe ritenuta degradante per l’azienda e gli impiegati, chissà che casino farebbe la corporazione dei baristi da stazione. Lo stesso accade con i controllori, anch’essi invariabilmente lo stesso tipo di donna, mai visto un uomo, che hanno un cestinello di vimini con dentro due crackers, due merendine e due bibite. Politica aziendale, chiaramente, identica in Lettonia, Bulgaria, alcune stazioni in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e così via.
Ora me ne vado in un negozio di galanterijos, che domani mi muovo e voglio essere elegante. Prima, però, un suggerimento di viaggio, un’ipotesi che chi vuole raccoglie. In treno, oggi va così. Data la politica di espansione dell’UE della rete ferroviaria, e non solo ad alta velocità, è bene tenere d’occhio il progetto di Rail Baltica, ovvero il collegamento Varsavia-Kaunas/Vilnius-Riga-Tallinn-Helsinki, in fase di realizzazione entro il 2026. C’è qualche ritardo, in effetti, ma l’idea avanza. E il progetto prevede ampio uso dei treni notturni, per cui il viaggio si fa interessante. Vado oltre nella proposta. Non è che sia necessario attendere il 2026, i collegamenti già ci sono, semplicemente non è una linea unica e qualche tratta è un po’ vecchiotta, si può fare tranquillamente. Quindi, al giro delle capitali baltiche, almeno fino a Tallinn, io aggiungerei un tratto in partenza, il Berlino-Varsavia, agile e facile da prendere, con tappa intermedia a Poznań (ne avevo detto qui). Molto Brandeburgo, cavoli e pianure, secondo me ne vale la pena. Berlino-Tallinn in treno, un po’ di notte, un po’ di giorno, quasi all’insegna della vecchia Prussia, un modo furbo per capirne qualche bandolo, guardando fuori dal finestrino e camminando per città interessanti e, quasi tutte, di grande fascino.
La giornata è eccezionale, il cielo terso e il sole caldo, il vento è fresco e mai meno che piacevole, la natura è esplosa e sta germogliando a più non posso, dickensianamente all’ombra è inverno e al sole estate, i fiumi sono abbastanza gonfi d’acqua, si mangia fuori ma di notte fa freddo. Insomma, tutto è perfetto dal punto di vista del contesto. Con una giornata così, anche i casermoni che ho di fronte diventano tutto sommato non male, sono circondati da prati, alberi, spazi di vegetazione spontanea, il verde e l’azzurro attorno al grigio fanno molto. Non sono condominii, sono proprio blocchi brutalisti di abitazioni ciascuno numerato su un fianco o su una facciata, tutti davvero uguali e, se non per il numero, per me indistinguibili. Alcuni sono collegati da archi, altri sono su piccole colline, altri in basso in linea, sono arrivato al 138 e non ne vedo la fine, è un quartiere che è una città, ovviamente un lascito sovietico. Nonostante la giornata sia splendida, il posto dà da pensare e mette i brividi, perché sono a Pryp”jat, la città morta dopo lo scoppio di Černobyl.
Non è vero, non sono a Pryp”jat. Sarei deficiente se lo fossi, primo perché è un luogo contaminato, secondo perché trovo stupido fare turismo in una città devastata e abbandonata per un incidente nucleare. Nonostante, credo di non dire nulla di nuovo, in realtà il turismo lì imperversi eccome. Comunque no, io sono a Fabijoniškės, il distretto di Vilnius che ha impersonato Pryp”jat nella strepitosa serie HBO Chernobyl. È talmente sovietico e intoccato che è stato scelto come set di tutta la serie, ambientata ovviamente nel 1986. La centrale, invece, l’ha impersonata la sua gemella lituana, la centrale elettronucleare di Ignalina, Ignalinos Atominė Elektrinė, che ha lo stesso tipo di reattori. Una delle clausole di entrata della Lituania nell’UE riguardava proprio lo spegnimento di Ignalina. Che, a seguito della serie, è una meta turistica molto richiesta.
A Fabijoniškės credo ci vivano almeno alcune centinaia di migliaia di persone e non è che Milano 2 sia meglio, eh, e lo ZEN di Palermo, per dire, è imparagonabile per svantaggio. In realtà, a parte la ripetizione inquietante dell’architettura sovietica, il distretto è molto appetibile, per spazi verdi, quiete, posizione. Non è raro vedere parcheggiate BMW e Audi che convivono con la signora di una certa età che fa ancora l’orto ai piedi del blocco fumando tzigarra bucuresti e che potrebbe così com’è fare la comparsa nella serie.
Questo però è un distretto esterno di una grande città, oltre settecentomila abitanti, il cui centro è sulla confluenza tra Neris e Vilnia e appoggiato su dolci colline boscose. Se Riga e Tallin sono più belle, più omogenee e armoniche, Vilnius è in una gran posizione, alterna barocco a neoclassico a residenziale povero otto e novecentesco in via di recupero a brutalismo a edilizia dirigenziale dei nostri anni. Certe casone mitteleuropee a due piani, simili in Romania, Bulgaria, Polonia, spesso vicine al centro e con giardino, sono in vendita, calcolare il completo rifacimento. Le case povere, agricole, che chiamare di ringhiera sotto il socialismo reale sarebbe davvero eccessivo, come le case georgiane in legno vanno invece sparendo. Una delle cose che si nota nelle repubbliche baltiche, per stare in Europa, è l’età media della popolazione, bassa per i nostri standard, senza però che i giovani sembrino avere accesso più di tanto alle risorse, problema diffuso. Air Jordan, telefono bello, spesa in accessori e quasi tutto il resto in economia. Tutte e tre le repubbliche puntano molto sulla digitalizzazione, la Lettonia più di tutte, importano ed esportano apparecchiature informatiche e ospitano senz’altro sedi più o meno reali di aziende di tutto il mondo, si sono inventati l’identità digitale, che è una cosa realmente e concettualmente davvero complicata. Non pensate alla SPID. Eppure le linee non sono velocissime, almeno non lo sono quelle cui riesco a collegarmi io per scrivere questo minidiario.
Bene, sono di nuovo in giro e questo conta per me, anche se brevemente. Ma perché me ne vado in giro? Qual è il senso e quale il significato? È viaggio è turismo? Cosa cerco? E soprattutto cosa trovo? Vabbè, domande, io un po’ di risposte le ho già, sarei sciocco non ci fossi arrivato nel tempo, non son cose che comunque importano qui. Ci sono una o due cose utili da dire ma non ora. Ora una domanda potrebbe essere: vale la pena visitare Vilnius? Certo, per me varrebbe la pena visitare anche una fogna di Calcutta, sapendo però cosa si stia vedendo. Ne vale la pena, non v’e dubbio, magari avendo già visto alcuni posti con somiglianze comparabili. Dico: Cracovia, Riga, Tallin, Padova, Bordeaux, Tubingen, Ratisbona, Dresda, Weimar, Timisoara. Ecco, per dirne.
Le varianti sul tema sono molte, più o meno scurrili, il senso è che per quanto uno sia strambo convesso, ci sarà qualche altro o altra stramba concava con cui fare unione. Un messaggio positivo, consoliamoci.
Scrivere sui muri è arte sopraffina e dovrebbero farlo solamente coloro che sanno ciò che scrivono. E così è anche in questo caso, particolare degno di nota è la firma, che di solito non c’è nelle scritte murali. Forse a Cesena, dove ho scattato la foto, JD Bel ha una certa rinomanza.
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