la Bonino? Sul serio?

A tutti i delusi del PD che sento che vogliono votare la Bonino: ma sul serio? Capisco la questione diritti, se ne potrebbe discutere, ma ricordate cosa ha votato dal punto di vista economico nei suoi anni in parlamento? La Bonino è una ultra-liberista, anticomunista viscerale, ha delle posizioni francamente inaccettabili per chiunque si consideri di sinistra e ha votato negli anni più volte a fianco di Berlusconi, condividendone gli obbiettivi e andando a fare la commissaria europea su sua nomina. Ricordatevelo, santoddio. Non fate i Maccabei.

non abboccare: è la destra

La lettura che viene data dai commentatori e dagli analisti di questa campagna elettorale è, in sostanza, questa: una recrudescenza dei toni e degli atti violenti da una parte e dall’altra, dall’accoltellamento del militante di Potere al popolo! al pestaggio del tizio di Forza Nuova, all’incursione a La7 sempre di Forza Nuova, al casino di Macerata fino ai discorsi dei candidati e dei cittadini sui social.
Quindi ecco la spiega: un po’ di qua e un po’ di là, gli esagitati stanno dappertutto.

E invece no, troppo facile così. Amnesty International ha analizzato la comunicazione social dei candidati alle elezioni e ne ha tratto la conclusione che aggressività e violenza verbale dominano lo scenario. Giusto. Peccato, però, che:

«il 95 per cento delle frasi di odio e di razzismo viene dalla destra. Nel dettaglio, il 50 per cento delle frasi violente e aggressive sui social verrebbe da esponenti della Lega. Il 27 per cento da parte di Fratelli d’Italia. Il 18 per cento da parte di Forza Italia. 80 sono le frasi offensive da parte di Matteo Salvini, 61 da parte di Giorgia Meloni, 12 da parte di Roberto Fiore di Forza Nuova, 7 da parte di Berlusconi».

Sto citando da un articolo di Luigi Ambrosio per RP. E quindi?
Quindi non bisogna abboccare alle facili analisi: anche stavolta, la faccenda non riguarda destra e sinistra allo stesso modo – per quel che queste categorie ancora significano – ma la matrice di destra è lampante ed evidente, e va combattuta in ogni modo. Anche facendo chiarezza e non cedendo alla tentazione delle facili analisi (nell’ipotesi migliore).

A questo proposito, può essere utile iscriversi – io l’ho fatto e sono il trentasettemillesimo esatto – all’Anagrafe Nazionale Antifascista: per contarsi, per riconoscersi, per far parte di una comunità di civili. Grazie a mr. A.

odi et non olet

Time la tocca piano, per ben concludere l’anno.

Senz’altro, possiamo anche essere d’accordo su molto di questo. Ma perché giova usare toni da bassa rissa? Perché, cito il Sole 24 ore, «il New York Times ha registrato 267mila abbonati in più nel quarto trimestre, arrivati per la maggior parte dopo l’elezione del magnate», per dirne uno. E non solo, tutti i principali giornali e gruppi editoriali americani hanno avuto una robusta crescita dall’elezione di Trump, in particolare negli abbonamenti digitali. Qualche dato da un’indagine di Statista.com:

Come Repubblica ai bei tempi di S.B. Forse c’è da ben sperare nel futuro, vero?

Certo, poi lui per risultare simpatico non fa la metà di quanto fa costantemente per sembrare uno sceicco saudita sborone.

Perché il lusso, ricordarselo, è l’unica categoria merceologica che al salire della domanda fa corrispondere un aumento del prezzo. Saperlo.

evitare consapevolmente di cogliere le opportunità (vi odio, laggente)

Questa è un’invettiva. I destinatari sono laggente, quell’entità che fa tutti la stessa cosa, perché bisogna sentirsi tutti parte e non esclusi. Che però pensano di essere splendidi individui e, insieme, unici e irripetibili. Facendo quello che fanno tutti ma saltando la coda perché devono fare delle cose importanti.
Quella laggente, ecco, ce l’ho con loro.

Stavolta, musica: siete tutti lì a spippolare Spotifai (brani disponibili: trenta, 30!, milioni) e Yutub (non so quanti videi ci siano ma dichiarano un miliardo di ore di video visualizzati al giorno) e poi ascoltate tutti le stesse, identiche cose. Ovvero, scegliere consapevolmente di non scegliere, di non cogliere quanto disponibile, di restare uguali a sé stessi per paura di, chissà, migliorare? E giù: Despacito. Il miglior disco dell’anno? Kendrick Lamar, ovvio. Tutti a ballare Gabbani allo stesso momento e poi nulla. Iglesias e la sua radio. Sheeran che non si capisce se lui capisce o Lana Del Rey che, porella, vien voglia di donarle il proprio cervello, a gratis. E avanti così, Thegiornalisti, Rovazzi, J-AX & Fedez in quella schifezza che è senza pagare, Takagi & Ketra o robe impossibili da concepire come Baby K (che canta «Sparami», se non son tentazioni queste…) per restare alle cose di questo paese, il tutto certificato dalle classifiche di fine anno, o dai video più visti.

Va bene. Anzi, meglio: tutto il resto – la roba buona – a me. D’accordo.
E allora eccovi un paio di suggerimenti perfetti, in linea: tutta la discografia de Il Pagante (che qualcuno ne abbia pietà e gli tiri un colpo) e i grandissimi Marcelo Que Belo e Luigia Pigia Parigia che, almeno, uno si diverte a dirlo. Vivete easy, prima o poi vi beccherò in un vicolo buio.

un re piccolo e sciagurato

Vittorio Emanuele III, Sciaboletta per i detrattori, fu un re sciagurato, è bene ricordarlo mentre viene rimpatriata la salma.

Appoggiò bene o male, per incapacità o per convinzioni vergognose, tutte le scelte del fascismo, dopo averne consentito l’ascesa: lo scioglimento di partiti e sindacati, la soppressione delle libertà individuali e collettive, l’avventura coloniale in Etiopia, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali, la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, la successiva proditoria aggressione alla Grecia eccetera.

Inoltre dopo l’armistizio scappò: il che avrebbe avuto anche un qualche senso, ma non certo lasciando l’esercito allo sbando senza direttive e il paese in mano alle scorribande dei tedeschi.
No, quindi, al rientro e tantomeno no a quanto possa essere in favore della sua figura. È già molto che sia stato consentito ai Savoia di tornare in Italia, schifosi.

aere perennius (telefonatemi, prima)

Da far imparare a memoria.
Chamath Palihapitiya, entrato in Facebook (nell’azienda, non nel social) nel 2007, ha contribuito allo sviluppo del sistema fino a diventarne vicepresidente. Ecco cosa va dicendo da un po’ di tempo:

“Abbiamo creato un sistema di gratificazione a breve termine di like e di feedback, guidato dalla dopamina, che sta distruggendo il modo normale in cui la società funziona: non sono cresciute né le discussioni, né la collaborazione. Ma solo la disinformazione e la mistificazione della realtà. E quello che dico non è un problema solo americano, non ha niente a che fare con i post della propaganda filorussa, ha a che fare con tutto il mondo”.

Qui l’intervento complessivo. Si dice ovviamente pentito e dice, insieme, che naturalmente ai suoi figli non è permesso usare Facebook. Bravo, alla buon’ora.

#metoo: dell’uso improprio (e stronzo) di giuste rivendicazioni

Mia Merrill, una giovane donna e non certo una beghina novantenne, ha promosso una petizione da rivolgere al MET per rimuovere o, magari, contrassegnare con un’etichetta particolare un quadro di Balthus, che lei trova offensivo e in aria di pedopornografia (è scioccata, altroché).

Poiché l’aria che tira è quella delle denunce contro molestie e abusi sessuali a cascata dal caso Weinstein, la petizione raggiunge in pochi giorni oltre diecimila firme, in nome della – supposta – indecenza del quadro di Balthus, che a questo punto ha senso vedere. L’accusa, pesantissima nonostante la forma non del tutto esplicita, è di apologia della pedofilia, peraltro da parte di un ente pubblico.

Il quadro incriminato è Thérèse dreaming del 1938, qui la scheda del MET.
La Merrill, prima di lanciare la petizione, ha inoltrato una richiesta al museo, il cui direttore – il signore della misura e del buon senso lo benedica – ha risposto giustamente picche.

La questione sta diventando molto difficile da gestire: la signorina costringe con argomenti mal posti a un ragionamento di retroguardia, nel senso che ci si trova, poi, a discutere se il quadro di Balthus rappresenti un soggetto morboso o no, e in caso se si tratti di una qualche forma di pedofilia o meno. Gli argomenti utilizzati da lei sono bastardelli, l’hashtag #metoo implica furbescamente che se si è d’accordo nella condanna di Weinstein e compagnia bella di molestatori allora non si può che esserlo anche in questo caso, e quella seconda frase («se siete sensibili alle implicazioni dell’arte nella vita reale») non vuole dire assolutamente niente ma spinge nella medesima, identica, direzione.

Il discorso, ovviamente, non è quello, quanto piuttosto si dovrebbe discutere sulle tendenze censorie della signorina e di molti come lei, abili ad annusare l’aria e sfruttare argomenti giusti in altri contesti. Il problema è che simili argomentazioni fanno presa: nel 2014 una mostra in Germania sulle polaroid di Balthus preferì chiudere per non incappare in eventuali conseguenze e una mostra su Schiele a Berlino in questi giorni ha preferito ritirare delle locandine promozionali con immagini (quadri dell’autore) ritenute sconvenienti da qualcuno.
Lei e chi come lei scrive due righe in un tweet e si aprono le cateratte: polemiche in ogni direzione con critici a sostegno del concetto stesso di arte e di libertà e professionisti dei social che, invece, dilagano in ogni dove dicendo le peggio cose possibili inframezzando il tutto con fotografie di se stessi al mare con i pargoli.

Quello che a me spiace di più, oltre ovviamente al fatto di utilizzare rivendicazioni giuste in contesti sbagliati con scopi censori, è che a fare questo sia proprio una donna, in nome di un femminismo di facciata che risulta essere del tutto controproducente a qualsiasi causa utile.