I closed the book on us, at least a hundred times

È morto Leonard Cohen, proprio mentre io prendevo il suo nuovo – e ultimo – disco, You want it darker. Non che tra le due cose ci sia una relazione, è solo per dire che ha lavorato fino all’ultimo, sia perché senza dubbio gli piaceva, sia perché aveva ancora delle cose da dire, sia per una storia recente di soldi e di furti.
Alcuni mesi fa aveva dichiarato al New Yorker di essere pronto per la morte: i suoi ottantadue anni, la testa meravigliosa che aveva, complessa e profonda, una certa consuetudine con la malinconia e le riflessioni sulle vicende tristi dell’esistenza, la vita monacale trascorsa per quindici anni, lo hanno di certo reso preparato più di molti altri. E poi il passare del tempo, che alcuni mesi fa, appunto, si era portato via Marianne, sua ma non più sua.

Ho amato parecchi suoi dischi, tutti sostanzialmente nella prima parte della sua carriera: la meravigliosa triade 1967: Songs of Leonard Cohen, 1969: Songs from a Room, 1971: Songs of Love and Hate, tutti strepitosi (cito, tra le tante: Suzanne, Sisters of Mercy, So Long, Marianne, Bird on the Wire, Famous Blue Raincoat, Love calls you by your name, ma sarebbero da citare quasi tutti e tre i dischi, senza scordare The Partisan), che così tanto hanno influenzato i cantautori italiani dotati di fiuto e me.

Ma il disco che ho amato di più, che ho consumato, è stato senza dubbio New Skin for the Old Ceremony, del 1974.

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Ironico, amaro e dolce, spiritoso e colto («You were the father of modern medicine, I was Mr. Clean / You where the whore and the beast of Babylon, I was Rin Tin Tin / And is this what you wanted / to live in a house that is haunted / by the ghost of you and me?»), malinconico e allegro, è per me il suo disco più bello e il suo lascito più memorabile. L’ho veramente ascoltato tanto.

Cinque canzoni da questo disco che secondo me valgono in assoluto, in ordine di pubblicazione:

  1. Is this what you wanted: in apertura del disco, malinconica e divertente allo stesso tempo, esattamente come doveva essere Cohen;
  2. Chelsea Hotel #2: di una bellezza lancinante, due vite e un incontro in una canzone meravigliosa, «that was New York, We were running for the money and the flesh / (…) I need you / I dont’ need you / And all of that jiving around»;
  3. Field Commander Cohen: forse la mia preferita, la canzone in cui usò per primo parole che nessuno avrebbe mai usato in una canzone («Field Commander Cohen, he was our most important spy. / Wounded in the line of duty, / Parachuting acid into diplomatic cocktail parties, / Urging Fidel Castro to abandon fields and castles»), a parte il neopremio Nobel, chiaro, lenta e dondolante;
  4. Why Don’t You Try: bellissima quando al verso «Why don’t your try to forget him?» attacca una chitarrina tanto bella quanto beffarda, per spiegare che c’è tanta vita là fuori: «Just open up your dainty little hand. / You know this life is filled with many sweet companions, / many satisfying one-night stands» e il clarinetto in fondo dà un tocco di meraviglia;
  5. I Tried to Leave You: forse una delle più poetiche, con quel verso bellissimo, «I closed the book on us, at least a hundred times» e il piano tutto stonato alla fine, da locale alla chiusura;
  6. Who by fire: quasi tutta cantata in doppia voce, una femminile bellissima che controcanta rendendo meraviglioso quando dicono: «and who shall I say…».

Ecco, sono sei e non cinque, non ce l’ho fatta a sceglierne così poche. Ma avrebbero dovuto essere undici, almeno almeno, per rendere giustizia a questo disco.
Grazie, signor Cohen.

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