l’invasione, giorno quarantatre: convivere

Il 31 marzo ho riconosciuto con esattezza il giorno, il momento esatto in cui ci siamo stufati di questa guerra: per la prima volta da un mese – a parte la débâcle della nazionale di calcio, quella batterebbe anche un’invasione aliena ostile – le notizie dall’Ucraina sono scivolate oltre la quinta posizione nelle testate online, sopraffatte dalle dimissioni di Fedez e da chissà che altro, non ricordo più. Siamo durati più di un mese, comunque, e già non è poco. Abbiamo trascurato molte cose, la pandemia per esempio, il dibattito sulle spese militari, la nuova villa di Pier Silvio, come gestire la negatività senza abbandonarsi al mito dell’ottimismo (questa è Repubblica, ovvio), insomma, è lecito ripiegare. Non lo dico pensandone male, è umano, è ragionevole, è pure molto difficile vivere in uno stato di perenne angoscia e non è il caso di farlo se non c’è un motivo drammatico diretto, bombe che cadono. Un giusto mezzo, come sempre. Il dibattito non si è interrotto, comunque, diversificato semmai: c’è chi ragiona sul gas russo e sulle vie per rendersi indipendenti energeticamente (no, non è possibile nel breve), c’è chi si occupa delle presunte malattie di Putin, chi sparnega geopolitica dalle cene alle conversazioni da caffè e ha una ragione per tutto, affastellando considerazioni indimostrabili. E poi i fatti hanno riportato in alto le notizie di guerra, purtroppo.

Poi c’è, naturalmente, a chi non importa nulla. Perché finché non se ne viene toccati, le cose non esistono. Non è un piano, una scelta, è proprio un modus vivendi, una natura, una costituzione direi. Certo, manifestano contrizione quando capita che qualcun altro ne parli, perché così si deve fare in pubblico, ma si vede bene che non c’è coinvolgimento, non c’è compassione. Di questi non mi importa un fico secco, trovo che abbiano un modo terribile di stare al mondo e che siano in sostanza nocivi per la riuscita delle cose, per cui se posso li ignoro. Ecco perché cerco di andare il meno possibile in ufficio, mi sento circondato.
Piuttosto, la rete di persone volonterose si è fatta davvero concreta e reale: se è ormai facile trovare un modo per inviare in Ucraina medicinali, vestiti, cibo, persino armi, le associazioni, le cooperative, gli enti che sono attivi sul territorio e che assistono i profughi e chi li ospita in ogni aspetto della vita quotidiana riescono a fornire un’assistenza davvero sostanziale, dai pacchi di cibo, alle lenzuola, asciugamani, vestiti, tutto quanto possa servire. Lo so direttamente, mi sono attivato per rendere disponibile una casa per chi dovesse averne bisogno, le associazioni ci sono e aiutano moltissimo. Il consiglio è, dunque, passare da loro piuttosto che direttamente in prefettura o comune, per questo motivo. A me, poi, per altre vie sono arrivati un italiano e un’austriaca di Kitzbühel, chissà, faccio una battuta dicendo che non sono certo di poter garantire il medesimo tenore di vita austriaco di quelle zone.

Kyiv, distretto di Obolon, mural di Sasha Korban

Ho conosciuto persone, perlopiù donne sole che coppie, che hanno aperto le porte di casa propria a un’altra donna, magari con bambini. A loro va tutta la mia ammirazione, io ho messo a disposizione una casa in cui non abito, questo è proprio un altro conto, un altro grado di umanità e di condivisione. Certo, non lo potrei fare, non è previsto e non è affatto sensato, ma comunque non sono certo che sarei in grado di farlo. Ed è qui che si allarga il cuore, a me almeno, vedendo persone in grado di spingersi così in là, rispetto a me. Brave, sento di doverle aiutare indirettamente.
Un amico – ti leggerai, C. – mi propone di reimpaginare un libretto di poesie di donne ucraine che vivono in Italia da parecchio, un gesto laterale di sostegno, comunque, alla causa. Ci sto, lo facciamo, e devo dire che qualche problemino con il cirillico – oh, cirillico ucraino, mica russo o bielorusso o kamtchatko – lo incontriamo, in modo divertente parlandoci entrambi con grossi punti interrogativi in testa, usando google translate che traduce alla viva il parroco e cercando di mettere gli a capo nei posti giusti, distinguendo a malapena una parola dall’altra. Lo stranguglione che mi ha pigliato quando mi sono accorto che mettendo il corsivo alcune lettere cambiavano lo lascio comprendere a chi abbia mai fatto lavori del genere. È così, è giusto, a saperlo prima. Ma manca poco al visto-si-stampi, ce la facciamo, servirà anche questo, a qualcuno.
A me, di sicuro.

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