minidiario scritto un po’ così dei giorni di reclusione causa cojonivirus / parte due: giorno uno, face the reality

E poi arriva quel momento: un amico ti dice che è positivo.
Ovviamente è l’amico che hai visto di più negli ultimi quattordici giorni, quello con cui sei andato di qua e di là, con cui hai cenato più volte e con cui hai diviso fraternamente una pesca. Ecco, l’amico che dalla comunicazione in poi non è più tuo amico. E vadaviàlcul.
Perché è ovvio, lui è positivo prima quindi è l’untore. Lui è quello che per primo ha chiesto chi ha scorreggiato e, sicuro, è stato lui, è lui l’untore. È lui che ha sparso il morbo. E chissà dove l’avrà preso, in qualche occasione sciocca, sicuro, divertendosi pure, il maledetto, aggravante per futili motivi.

Ho ancora la cornetta in mano e comincio ad avvertire alcuni sintomi: secchezza delle fauci, febbre alta, mal di testa, dolore alle giunture, noto un bubbone purulento all’inguine, mi cascano tre dita, ho ampie zone del corpo in necrosi, vaneggio, deliro, ovviamente non sento più né odori, né sapori, né suoni, ho le facoltà mentali di una persona in coma, come Britney Spears.
Sento freddo, tanto freddo. Lasciatemi qui, salvatevi almeno voi, dite a Mattarella che l’amo. E vadaviàlcul.

Va bene, ragioniamo: qui si impone l’isolamento. Volontario, fiduciario, poco cambia, chiudo la porta e inizio il mio personalissimo, nuovo, lockdown. Apro il frigo, è piuttosto pieno ma è evidente che non ho né lievito né farina, non ho imparato una fava dai mesi scorsi, bravo trivigante, molto bravo. Mente locale: che mi serve? Chi devo avvertire? Che cosa voglio sapere? Cosa dovrò fare? Soprattutto, come mi sento?

Certo, facile mesi fa dire saggiamente che «non è questione di ammalarsi o no, l’importante è non farlo ora» e poi blaterare a iosa di «immunità di gregge», concetto che presuppone peraltro che ci si ammali quasi tutti, poi scontrarsi con una positività, seppur di riflesso, è tutta un’altra cosa. Perché qui c’entro io, potrei essere una unità nei numeri del ministero di domani o dopo, potrei essere un caso asintomatico o con sintomi lievi o una cosa più seria. Oppure no, non essere niente, magari non l’ho preso, magari ho schivato lo sputazzo fatale.

C’è una sola cosa da fare, oltre alla reclusione: il tampone. Signori, contribuisco al numero anch’io, a breve sarò un piùuno. Consulto rapidamente ospedali e centri privati – dirlo in Lombardia non ha molto senso, in effetti – e trovo disponibilità per questo pomeriggio. Presa. Modalità drive-in, cioè mentre guardi un film un infermiere a tradimento ti infila un tampone nel naso giù giù fino alle parti molli. Non registro nemmeno la cifra che mi chiedono perché in questo momento potrei pagare qualsiasi cifra – e lo sanno! – e sottoscrivere qualsiasi dichiarazione pur di sbrogliare rapidamente la faccenda. Prenoto anche per altre tre persone vicine, entrate anche loro in contatto con l’untore. Avanti, piùquattro. Lasci, lasci, melius abundare.

Mentre attendo per la mia prima e unica uscita dalla reclusione, mi chiedo che fare: avvisare le persone con cui sono entrato in contatto? O è prematuro, meglio aspettare il risultato per non agitare nessuno? Intanto faccio i conti e, surprais, le scorse sono state le due settimane più sociali della mia intera vita: cene in casa e fuori, partite al palazzetto, visite a musei, viaggi romani, incontri di lavoro, permanenze in ufficio, appuntamenti in banca, dentista, gommista, tagliando, idraulico, lavori collettivi in campagna, treni, ferramenta, consulente del lavoro, persino pranzo con un’amica che non vedevo da tempo. Ottimo.
Piacevolmente stupito, e un po’ orgoglioso, della mia ricca vita sociale, comincio a chiamare le persone più vicine, almeno quelle sul luogo di lavoro e gli amici più stretti, per metterli sul chi vive, sai mai. Siccome sono ancora potenzialmente negativo, reagiscono tutti bene, perché non devono fare nulla. I vaffanculo fioccheranno nel caso io sia positivo, ci sarà tempo. Sono comprensivi e di ampie vedute, «ma certooo, mica è colpa tuaaa, adesso è meglio indagareeee, non ti preoccupareee», tanto in isolamento per ora ci sto io.

Poi arriva l’ora del tampone. Come mi vesto? Sono passate le quattro, in smoking, ovvio, mica siamo dei selvaggi. Vado in macchina e mi metto in coda per il drive-in, seguito in auto dalle altre persone per cui ho prenotato, in modo surreale non ci possiamo salutare. La coda è quella qui sotto, in realtà sono trenta persone ma trenta macchine diventano quasi duecento metri. Bene anche la collocazione, il cartello indica la direzione per l’obitorio, mi sta bene, meglio così che un tampone nel salone delle feste.

Fortuna che ho un giornale e la mezz’ora di attesa passa veloce, nemmeno ci tamponiamo mentre facciamo il tampone, poi una infermiera si occupa della mia identità e l’altra di esplorare le mie cavità nasali fino al piloro: se non soffri non è fatto bene. E che sia, perdio.
Ventiquattro-quarantott’ore per il risultato, mi dicono, e io torno a casa nella mia reclusione personale. Ora non ho sintomi, sto benone, sarebbe meglio io fossi negativo ma se dovessi farmi il covid in questa maniera, mi sta benissimo, lo si faccia, a questo punto. La macchina sanitaria ora è in funzione, posso osservarla da vicino e sentirmene parte, piuttosto passiva ma parte. Io posso solo aspettare e tenere il mio minidiario, entrambe cose che faccio prontamente.

Se leggete da qui il mio essere a rischio e non vi ho avvertito a voce, la frittata è fatta e non vi ho considerato nella stretta cerchia, posso solo scusarmene a questo punto. Vi avrei avvertito in caso di positività, era per non farvi allarmare. Se non mi avete visto negli ultimi tempi, allora siamo a posto, amici come prima e spero che il minidiario dia qualche minima soddisfazione a chi sta là fuori e corre sereno e giojoso pei prati. Avete tutta la mia invidia e tutti i miei andéadaviàlcul.
Per quanto riguarda me, invece, da adesso ho solo un approccio: pensa negativo, trivigante, pensa negativo.

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