portare gli xenomorfi in chiesa

A una decina di chilometri da Glasgow c’è una graziosa cittadina, Paisley, sulle rive del White Cart Water.
La graziosa cittadina ha una graziosa chiesa parrocchiale, l’ovvia Paisley Abbey, che nel dodicesimo secolo sorse su un convento cluniacense per poi diventare, un paio di secoli dopo, una chiesa riformata.

La graziosa chiesa parrocchiale nella graziosa cittadina ogni tanto necessita, come tutte, di qualche restauro, grazioso se possibile. Nel 1990 l’ultimo corposo e complessivo. Vuoi perché son scozzesi, vuoi perché sono nerd, vuoi perché due soldi in più li avevano, vuoi perché i piccoli paesi un’attrattiva turistica se la devono pure inventare, vuoi che diavolo ne so, alla fine, una decina di doccioni dell’ancor graziosa chiesa parrocchiale li hanno rifatti così:

Esatto, l’alieno bavoso di Alien. Sperando non sbavi quella saliva micidiale che tutto corrodeva. Son giochini, è chiaro, ricordo l’astronauta e il drago col gelato di Salamanca e la bicicletta modernista di Barcellona e chissà quanti altri, son giochini. Ma i giochini sono belli, servono e sono meglio dei non-giochini, se mantengono misura e modo. E qui lo fu, direi, tutto sommato. Finché i cosi non si stufano, escono e fanno strage dei paisleyani.

colpa di un altro (che son sempre io ma «fosse per me»)

Negli ultimi venticinque anni, il Partito democratico ha governato per 13,5 anni; anche Forza Italia per 13,5 anni; la Lega per 11,5 anni; Fratelli d’Italia per 5,5 anni; il Movimento 5 stelle per 4,5 anni; Sinistra italiana per 3,5 anni. Con alcune inevitabili approssimazioni, unioni e scissioni, il conto è di Alessandro Gilioli.

Ci sono tutti, e non poco, e la colpa di quelli di prima? Di chi ha fatto il buco? Chi sono i ‘prima’? Il colpo di genio, non lo dico io, non è il rimando ma è la catena stessa di colpe, a risalire all’inizio dei tempi, dal dentista al meccanico al governatore. Lo dice Mattia Torre in uno dei suoi brani brillanti, eccolo interpretato da Mastandrea:

Lo riporto, il testo, è molto bello:

È tipico di questo paese: è sempre colpa di un altro. È sempre colpa di quello che veniva prima, di quello che ha fatto il lavoro prima. Che se cambi dentista quello ti visita e fa la faccia angosciata che tu vorresti morire e ti dice: «Guardi, io non parlo mai male dei colleghi, ma qui le hanno combinato un disastro. Tiè, guarda qua che roba». Che tu non hai proprio la scienza per contraddirlo e neanche per dubitare di quello che dice e comunque il problema non si pone perché hai i ferri in bocca e non puoi parlare per cui abbozzi e ti sottometti muto, impotente.
E paghi 1200 euro.
Stessa cosa se ti si rompe il motorino e lo porti da un meccanico che non conoscevi: quello guarda il motore e si mette a ridere; cioè ride proprio: «Chi ce l’ha messe, le mani, qui, eh? Un delinquente ti c’ha messo le mani. Guarda qua che roba», dice la stessa frase del dentista. Stessa cosa con l’idraulico che ti dice che quello di prima ha creato – forse, chissà, apposta – tutta una situazione terribile di calcare per cui è tutto da rifare, stessa cosa con il muratore, che accusa chi ha fatto il lavoro prima di aver usato materiali scadenti e in disuso per risparmiare sulle spese. Quello di prima? Un vero delinquente.
Stessa cosa con il governo appena insediato, che trova un buco di mille miliardi di debito lasciato dal governo precedente, e al precedente governo non gli sta bene che si dica cosi, allora accusa il precedente ancora, che a sua volta accusa il precedente, fino a risalire a un governo talmente indietro nel tempo che sono ormai tutti morti, e che pure, nelle tombe, bofonchiano che la colpa è di quelli di prima.
E tutto il paese va avanti così, in un susseguirsi di truffe di cui è responsabile sempre quello di prima, o quello prima ancora, e comunque mai di chi la fa in quel momento, e questa è una piccola magia tutta italiana, milioni di cittadini e nessuno ha una sola responsabilità… [questa] grande catena di Sant’Antonio è quasi una festa, per tutti tranne per chi viene fregato e si guarda indietro con un vago senso di malinconia, di disagio, perché è impossibile capire da dove la fregatura provenga, forse da altre epoche, da tempi lontanissimi in cui si girava scalzi e si moriva di vecchiaia a trent’anni, ma poi subito gli torna il buonumore, perché una sòla, così come la ricevi, la puoi anche restituire: grandi professionisti noi siamo in questo gioco al ribasso dove vince il più audace e sfacciato «ma si figuri» «fosse per me» «lei l’avrà capito che se dipendeva da me, altroché».
Che significa? Cosa dicono? Non ha importanza. Perché nel frattempo si è sviluppata un’intera comunità di persone fintamente affrante per i disastri commessi da altri, ma subito pronte, se ben retribuite, a riparare il danno. «Ma il danno è grave, eh?» «Non mi faccia mettere le mani avanti.» «Noi qui ci proviamo, non è detto che si risolve.» «Noi proviamo, ma noi non li facciamo i miracoli.» Quando in realtà il miracolo d’ingegno è la catena stessa, per cui già da domani altri interverranno sulla lavatrice, sul motorino, sul premolare o sul governo del paese e ancora una volta diranno: «Qui signori è tutto da rifare, colpa di altri, noi ci proviamo. E speriamo bene».

Ovviamente è colpa di qualcun altro, prima. Noi ci proviamo ma, insomma, non si garantisce. Eppure anche prima erano gli stessi, loro medesimi, è un prima che non contempla sé stessi, un prima astratto che sempre funziona nel riandare a un dove e a un chi che non hanno mai fine.

mettiamo un punto fermo (o della lunghezza dei libri)

Canone e premessa imprescindibile: qualunque cosa può essere spiegata in un saggio di non più di cento pagine (iddio benedica ancora i saggi PBE Einaudi, vedi Roland Barthes, Critica e verità, sessantaquattro, 64! pagine) e qualunque storia può essere raccontata in non più delle centosessanta pagine de Lo straniero di Camus.
Tutto il resto è un di più. Augh, ho parlato.

Ma noi no, noi grazie al compiuter, al fatto che non tocca più riscrivere tutto con la macchina, al fatto che si copia e incolla, al fatto che ci si mette meno che a scrivere a mano, noi no: tra i volumi vincitori del premio Strega, nel decennio 1970-1979 la media era di 220 pagine, 292 negli anni Ottanta. Nei Novanta si raggiunge la media delle 317 pagine, dal 2000 al 2009 si va a 337 pagine e avanti con le 471 pagine del decennio successivo. Crescita costante e senza freni, santoddio guarda questo, ma che dovrà dire uno in quattrocento pagine? Chissei, Proust? Per non citare i due più verbosi di sempre, M. Il figlio del secolo (848 pagine) e La scuola cattolica (1.294 pagine), qualcuno abbia pietà di noi. Di me, almeno.
La tendenza è confermata ovunque, il Booker Prize, analizzato dalla critica britannica Leaf Arbuthnot: 248 pagine nel 1970, 294 nel 1980, 372 nel 2000, 530 nel 2019. Il che ha suscitato un vivace dibattito all’interno del premio stesso. E sì che la controtendenza di video e social invece sembrerebbe portare alla riduzione, non all’ammasso di concetti.

Marketing con prodotto un tanto al chilo, mancanza di editor (vedi il grande Vittorini, a breve prometto racconto la storia del Sergente nella neve) in grado di tagliare e farsi valere, facilità tecnica come accennato, ristampe più visibili alla lettura (Il nome della rosa cresce invariabilmente a ogni edizione, curioso) e così via, le spiegazioni possono essere parecchie e presumibilmente concomitanti. Segnalo un bell’articolo al riguardo su Treccani.it di Giacomo Natali da cui ho tratto i dati e qualche conclusione.
Lo dico? Sì, oramai scelgo le mie letture guardando il numero di pagine. Se l’argomento è la storia dell’universo posso arrivare a leggere anche duecento pagine, se l’argomento è un giallo a camera chiusa o le vocette di Meloni allora mi spiace, mi ritiro poco dopo le ottanta. Che sarebbero già tante.

palo, palo, frasca

Ascolto Night Passage dei Weather Report, poi arriva la cinque, Rockin’ in Rhythm, ed oltre a essere un ottimo pezzo mi ricorda qualcosa. Fischietto per farmi venire in mente il prima e il dopo, riascolto, nel frattempo cerco qualcosa in più e scopro che è di Duke Ellington con Harry Carney e Irving Mills del 1931. In particolare, c’è un passaggio che mi rimanda ad altro, qui a 1:53. Fischietto fischietto canticchio e poi mi viene in mente, finalmente: Grande figlio di puttana degli Stadio (e Dalla). Alla fine, da 4:25 con lo stesso tipo di suono, direi praticamente citazione. Ci sono riuscito senza gugol e lavorando allo stesso tempo, bravo me, ammesso che qualcuno abbia mai notato questa cosa. Penso francamente di essere il primo, inutile cercare in rete.

“una ЯicostЯuzione lucida e allo stesso tempo accoЯata del funzionamento della giustizia italiana”

Scopro con grande interesse che il mio riferimento politico e, se posso dire, umano ha pubblicato un nuovo libro. Beh, mollo Diderot, Calamandrei, Lussu, Petrarca che avevo sul comodino e mi ci precipito.

Appassionante, comincio subito. Delle influencer, tra l’altro, vediamo che è questa distinzione di genere che fa il mio faro. Ma nel frattempo mi chiedo non è che mi sarò perso qualche suo libro? Non è che mi son distratto? Così dò un’occhiata alle sue ultime pubblicazioni, 2022 e 2021, da quando pubblica con Piemme. Ecco:

Sarà che un indizio non fa nulla, due nemmeno, ma tre signori della corte è evidente. L’elemento della ‘Я’ vannacciana al contrario è proprio distintivo e non solo: è anche nella stessa identica posizione nelle tre copertine e, non bastasse, è la penultima lettera di una parola da sei lettere. Ahah, il grafico di Piemme o è un grandissimo scansafatiche o è cirillico o è un vero genio.

A questo punto, con la collaborazione del gentile signor E., mi sento di suggerire alcuni elementi per i prossimi libri: nostЯo, vostЯo, destЯo, mastЯo, rostЯo, feltЯo, filtЯo, peltЯo. E fino al 2032 siamo a posto.

minidiario di navigazione di un grande fiume: appendice

Finito il minidiario mi è ovviamente scoppiata dentro l’egittomania, la nilomania, l’akhenatonmania. Come sempre, per quello l’avverbio, sarà che vivo di entusiasmi e passioni e, dunque, ora sono avido di letture.
Perché non farne condivisione, mi dico, come con tutto ciò che faccio? Anche solo per non tenermi il lavoro per me solo, avanti, dunque.

Il numero monografico di Meridiani sul Nilo dello scorso dicembre, per cominciare. Più strutturato, il saggione Nilo. L’Egitto antico raccontato dal suo grande fiume di Toby Wilkinson, egittologo e docente di Cambridge, lo sto leggendo ora con piacere. Sempre suo, l’importante L’antico Egitto. Storia di un impero millenario e segnalo infine il classico La civiltà egizia di Alan Gardiner. Molto interessante il resoconto di viaggio di Emilia B. Edwards Mille miglia sul Nilo, che nel 1873 trascorse quattro mesi in barca lungo il Nilo per poi contribuire significativamente allo studio dell’antico Egitto. Non ristampato di recente, chi può ripieghi sulla versione inglese A Thousand Miles Up the Nile.

Romanzi, anche se non sono molto ferrato. Molto Nagib Mahfuz, a partire dal La trilogia del Cairo e Il nostro quartiere. In ordine sparso, poi, Incontro in Egitto di Penelope Lively; Denise Pardo, La casa sul Nilo; La verità perduta, romanzo di Bruno Tacconi che ha come protagonista la rivoluzione di Akhenaton; Sono corso verso il Nilo di ‘Ala Al-Aswani, sui giorni di piazza Tahrir.

E il grande Belzoni? Eccolo: Marco Zatterin, Il gigante del Nilo. Storia e avventure del Grande Belzoni e Gaia Servadio, L’italiano più famoso del mondo. Vita e avventure di Giovanni Battista Belzoni anche se a dire il vero il secondo è noiosetto.

Venendo a cose più serie, fondamentali i contributi di Edda Bresciani, direttrice del museo egizio di Torino e grande egittologa: il meraviglioso Letteratura e poesia dell’antico Egitto, raccolta di testi originali pure in economica ora, e Testi religiosi dell’antico Egitto, di grande rilevanza e in cui consiglio l’Inno al Sole di Akhenaton. Dello stesso argomento, i testi raccolti da Sergio Donadoni per UTET, Testi religiosi egizi. Sempre di Bresciani, ma qui si va sul ricercato, Arte medica e cosmetica alla corte dei Faraoni con Mario Del Tacca e soprattutto, attenzione: elementari, Nozioni elementari di grammatica demotica. Affascinante La porta dei sogni. Interpreti e sognatori nell’Egitto antico. Anche la raccolta di antichi testi egizi di Wilkinson è da segnalare, Writings from Ancient Egypt, non credo sia tradotto, c’è l’edizione Penguin.

Ancora di Wilkinson, direi Il mondo di Tutankhamon. L’antico Egitto in 100 oggetti, anche se Tutankhamon è uno specchietto per le allodole occidentali. A fianco di esso, il buon saggio La vita quotidiana degli Egizi e dei loro dèi di Dimitri Meeks, Christine Favard-Meeks e La vita quotidiana in Egitto ai tempi di Ramses di Pierre Montet. Un buon saggio relativamente aggiornato sull’Egitto contemporaneo è invece Egitto. Democrazia militare di Giuseppe Acconcia, corrispondente per «Al Ahram», «The Independent», «il Manifesto».

Tra la saggistica di peso, di grande interesse Un solo Dio e molti dèi. Monoteismo e politeismo nell’antico Egitto e La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto di Jan Assmann; il poderoso The Dawn Of Conscience di James Henry Breasted, scaricabile liberamente da qui; Il pensiero dell’Egitto antico di Jean Fallot, la rappresentazione egizia della vita e della morte, restituita alla propria dimensione non concettuale. Niente male, no?


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: sette, un’alba su mille, templi dei morti e templi dei vivi, camminare sulla via dei re, vivere come una volta solo i signori

Un tempio funerario bellissimo, moderno, anche questo razionalista se non venisse da ridere, clamoroso. Colpisce del tutto la nostra immaginazione contemporanea, è pronto per ospitare la nostra attuale fantascienza – da Stargate a Star Wars è quasi tutta egizia -, incastonato in una quinta naturale di rocce dello stesso colore che aspettano solo di cambiarlo a seconda della luce del sole. È il tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari, XVI secolo avanti cristo, seconda donna a essere sovrana riconosciuta dell’Egitto. Pensavate di conoscere la funzione e la natura del superlativo? Ebbene no, il luogo è noto come Djeser-Djeseru che, tradotto, sarebbe una cosa tipo: la sublime sublimità. Come andare oltre? Come fare meglio?

Arriviamo alle sei del mattino, il sole sta sorgendo alle nostre spalle – ovvio, siamo sulla riva dei morti – e in pochi minuti tutto cambia e si tinge di arancione e giallo, non c’è anima viva, siamo arrivati addirittura prima dei venditori di scarabei. La fotografia senza figure umane è una rarità senza ritocco. Ma non basta: tra noi e il sole si alzano decine di mongolfiere, è un momento commovente per tanta bellezza, non posso non postare una foto, non parrebbe vero.

Ma tutto questo entusiasmo ed ebbrezza di colori non possono essere sereni, in questo tempio sono successe cose tremende non molti anni fa, non posso non pensare al terrore di chi, inseguito, non ha trovato luogo in cui nascondersi.
Nemmeno una targa, un pensiero, qualcosa. Non sia mai che si turbi la tranquillità dei turisti, se non per vendere loro qualcosa. Alle otto siamo già da un’altra parte ma il pensiero non mi abbandona. Vedo finalmente i colossi di Memnone (Mèmnone, non Memnòne, come ho sempre detto io), noti in antichità perché uno dei due, danneggiato da un terremoto e fratturato, emetteva da una larga fessura un suono come di bronzo percosso, causato forse dal riscaldamento della roccia. La fantasia dei viaggiatori antichi greci e romani descrisse il suono come il saluto dell’eroe alla madre Eos, dea dell’aurora. Che bellezza, così la descrive Filostrato nella sua Vita di Apollonio di Tiana. Poi arrivò Settimio Severo, a Egitto ormai provincia romana, la fece restaurare e saluti al suono all’aurora del colosso.

Tornando al di qua del fiume, cioè tra i vivi, l’Egitto antico prorompe con l’enorme complesso di Karnak, ovvero quattro enormi templi e una pletora infinita di edifici che coprono oltre trecentomila metri quadri e circa i duemila anni in cui la Tebe egizia fu il centro di governo del paese. Un esempio calzante che mi è venuto in mente è quello dei fori romani: ogni nuovo regnante aggiungeva un foro, una cosetta qui, una cosina là. Addossando, spostando, integrando, così che poi diventi pressoché impossibile distinguere certe fasi successive. Esattamente come i fori, fino alla fine del secolo scorso tutto il complesso era interrato e inesplorato da millenni, poco comprensibile e terreno di pascolo, di superfetazioni abitative, di città che sono cresciute sopra le altre pietre, facendone fondamenta.

Gli stessi viaggiatori, in ogni epoca, hanno lasciato le loro tracce, nomi, scritte, date, motti, pensieri. Non si arrampicarono, non tutti almeno, scrissero – anzi, incisero – là dove il terreno rendeva la cosa comoda. Persino le incisioni degli studiosi della spedizione napoleonica sono perfettamente visibili, non si gridi allo scempio al turista al Colosseo, passato il giusto tempo diventano anch’esse testimonianze storiche. Certo, con moderazione.
Da Karnak si srotola per quasi tre chilometri la via reale, bordata di sfingi ogni tre metri a destra e a sinistra – ecco perché ve ne sono in ogni museo del mondo – che porta al tempio di Luxor. Illuminata la sera, è la fotografia su qualsiasi depliant turistico. La percorro a piedi da solo, mi immagino una processione nella festa di Opet, in cui le statue delle divinità Amon, Mut e Khonsu venivano poste a bordo di una barca sacra e portate in spalla dai sacerdoti da Karnak a Luxor. Inutile dire quanto le barche per le processioni e la rappresentazione del tempio in esse contenuto assomiglino, anche qui, all’arca dell’alleanza. Incontro a metà un bel branco di cani randagi, una decina. Sono dappertutto in Egitto, meglio lasciar stare quando ci sono femmine con i cuccioli, in generale non costituiscono un pericolo. Però, insomma, va’ a sapere, faccio i conti di dove potrei darmela a gambe, poi faccio l’indifferente e loro pure. Percorro il viale da solo, è un bel momento, ho aspettato al tramonto, verso la fine incontro M., compagna di barca, che fa la stessa cosa, buongustaia.

Compiuto il mio dovere, contemplata e percorsa la via, sei templi in giornata e alla fine del viaggio, a questo punto l’unica cosa giusta da fare è fare il turista coloniale, andare al Winter Palace, grandioso albergo inglese del periodo d’oro, appena appena fané, recarmi al bar biblioteca, sprofondarmi in una poltrona e in compagnia del nonno di Kissinger, del padre di Livingstone-I-suppose, di Al-Gore, di Agatha Christie che scrive il suo Poirot sul Nilo e di altri improbabili occupanti disimpegnarmi in un three-flight – tre assaggi di vini bianchi egiziani, pure gradevoloni – e in fantasie d’altri tempi che, ne sono certo, resteranno nella mia pur fallace ma tanto contenta memoria.


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minidiario scritto un po’ così di navigazione di un grande fiume: sei, cose egiziane, prezzi, carni, pistole e sorpassi

Un euro, trentatre lire egiziane. Un caffè cento lire, tre euro, se ne prendi due otto. Cambio variabile e come sempre nei paesi – so che pare brutto dirlo ma così è – del terzo mondo vigono prezzi per gli indigeni e prezzi per gli stranieri. Il pagamento in euro è sempre apprezzato, specie appunto al tasso di cambio variabile dell’angolo della strada e ancor più apprezzato il cambio tra euro in monete ed euro in carta, non cambiandoli le banche. Le mance poi sono un’altra variabile senza regole precise, nei templi ci sono figure inofficiali che indicano cose notevoli o segnalano le photo opportunities, oppure sono vestite con turbanti e le costituiscono essi stessi, o ti porgono la carta igienica nei bagni o schiacciano il distributore di sapone al tuo posto, insomma che vuoi fare? Non dare? Ovvio che regni la sproporzione, a volte ho cinquanta lire a volte cinque euro, senza senso.

In viaggio verso nord per vedere due luoghi, Abydos e il tempio di Seti I e il complesso di Dendera con il tempio di Hathor. Il primo è un tempio in stile del tutto razionalista tremilacinquecento anni prima del razionalismo e probabilmente quello con la più alta qualità artistica di tutto il circondario, il secondo uno dei templi meglio conservati con alcune rappresentazioni significative dello zodiaco e del cielo e una delle sacrestie – eh già – più belle. Di fatto, è sempre un’occasione per vedere pezzi di paese che è, davvero e senza incertezze, un paese molto povero. Se un affitto al Cairo può variare tra trenta e tremila euro al mese, c’è di tutto, le giovani coppie con qualche possibilità scelgono case nelle città nuove nel deserto, che costano meno. Chi vive fuori dalle città, se è fortunato vive nella striscia irrigata dal Nilo e, quindi, ha cibo e possibilità, se lo è meno allora vive lungo qualche canale derivato, non sempre dotato d’acqua, in piccoli villaggi con case di cemento armato interrotte al primo piano, case di mattoni secchi o baracche di fango essiccato misto a paglia. Rifiuti. I ragazzini salutano sempre, ricambiano e sorridono, invece di tirarci un sasso in testa come dovrebbero, e hanno l’aria di non aver mai visto una scuola, nonostante ci parlino di periodo di vacanza. Un bel po’ di uomini hanno l’aria di non lavorare affatto.

Nel frattempo, strade, ferrovie, canali, condominii e poi ancora un po’ di strade. Non sempre finite, non sempre in corso, talvolta non si capisce bene se si prosegua o no. Fuori dal Cairo il codice della strada non esiste, i sorpassi sono leciti in ogni direzione e il contromano non è biasimevole. La moto in tre quasi una regola, avessi un’azienda produttrice di caschi non tenterei il mercato egiziano. Calessini per turisti, carretti con gli asini, motorette con cassone a tre ruote ovunque, pickups con uomini seduti dietro che ormai fa tanto Isis nelle nostre testine. Persone amorevoli e persone sfibranti, c’è da dire che l’indifferenza non esiste e io, tutto sommato e nonostante una certa fatica talvolta, lo preferisco. In centro a Luxor, nome moderno occidentale, greca Tebe e saildiavolo il nome in egiziano antico, c’è una magnifica libreria sostenuta da due enormi colonne di granito, chiaramente del tempio, che ha in catalogo l’intera produzione in lingua anglosassone riguardante l’Egitto, dall’introduzione della stampa agli anni Ottanta. Di fianco, il mercato per i turisti, bancarelle straripanti di piramidi di pietra e alabastro, sfingi, Anubi, Tutmosis, scarabei, sciarpe, tuniche, incensi, olii e avanti con tutto l’armamentario. Al mercato loro ci si arriva, costa un quarto, ma pochi osano mangiare frutta o verdura fresca, men che meno carne macellata da poco sul pavimento di un garage o pesce in cassette al sole da un po’. Magari il pesce no ma il resto lo provo, che il dio egiziano delle viscere mi protegga anche stavolta.

Le entrate ai musei, ai templi, alle tombe sono costosissime, parlo di svariate decine di euro, sarà la solita tariffa differenziata per turisti e gruppi, e ogni luogo visitabile ha un metal detector all’entrata che suona invariabilmente ma importa poco e un macchinario per controllare l’interno delle borse che un annoiato militare egiziano guarda a volte distrattamente a volte per nulla. Ce n’è ragione, sia chiaro, probabilmente al di sotto della scimitarra non costituisce titolo di preoccupazione. E poi sembra l’ennesimo provvedimento che tutela a vario titolo i turisti tanto quanto chi ci lavora quanto chi ne ha responsabilità. Durante le visite, ora mi è più chiaro il meccanismo che non avevo colto qualche giorno fa, ci viene immancabilmente appioppato un poliziotto-militare, ovvero una persona apparentemente priva o di competenze specifiche o del fisico adatto, ma sai mai, dotata però di pistolona o fucilone che dovrebbe, condiz., occuparsi della nostra incolumità. Dato però che non vi sono ragioni per temere per essa, di fatto è una protezione di tipo mafioso che il regime impone, bisogna pagare il militare che poi si fa gli affari propri tutto il giorno seguendoci a distanza. Di fatto, è contribuzione diretta al mantenimento di quella pletora di persone armate che oggi costituiscono la forza e la mano armata del regime e un domani contribuiranno a fare la pelle al dittatore, quando avranno un’opzione migliore.


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