Accidenti, è mancato Giuliano Montaldo e non c’è età così veneranda che renda la cosa accettabile. Partigiano, attore e poi ovviamente regista, lo ricordo senz’altro per la trilogia sul potere, Gott mit uns (1970), Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973), militare, giudiziario e religioso, L’Agnese va a morire (1976), che sequenza formidabile. E il suo Marco Polo, sceneggiatone colossale del 1982, ricordo la trepidazione alla messa in onda in prima serata.
C’è una storia che si racconta a proposito di Sacco e Vanzetti, mi piace pensarla vera. L’ho già scritta e la riporto:
Gian Maria Volontè interpretò Bartolomeo Vanzetti nel film di Montaldo del 1971 e, quando si trattò di recitare il lungo monologo in propria difesa («la società nella quale ci costringete a vivere e che noi vogliamo distruggere, è tutta costruita sulla violenza: mendicare la vita per un tozzo di pane è violenza; la miseria, la fame a cui sono costretti milioni di uomini è violenza; il denaro è violenza; la guerra; e persino la paura di morire che abbiamo tutti ogni giorno, a pensarci bene, è violenza»), Volontè si preparò a lungo. Quando si dichiarò pronto, cominciò a recitare l’intera scena, come era solito fare. Si racconta che dovette interrompersi e ricominciare perché una comparsa, che interpretava un poliziotto alle spalle di Nicola Sacco, scoppiò a piangere per il pathos e la carica dell’interpretazione di Volontè e ci volle un bel po’ perché si riprendesse. Potere delle parole (e del magnifico Volontè).
Me commuove davvero anche a me. E Montaldo, onesto e dritto, con l’idea che il cinema sia popolare e vada fatto e condiviso con le persone, la sua «insofferenza dell’intolleranza» di cui tanto abbiamo bisogno ancora, la militanza costante. Scrisse la sua autobiografia, Un marziano genovese a Roma, in cui se Zeman non c’entra nulla il pensiero è a Flaiano. Su RaiPlay non si trovano i suoi titoli formidabili ma alcune cose ci sono, tra cui il documentario sulla sua lunga relazione con la moglie, Vera & Giuliano.
Un ultimo racconto, è lo stesso Montaldo che lo fa durante un’intervista, parlando delle riprese di L’Agnese va a morire e della protagonista, Ingrid Thulin:
«Quando all’inizio del film bisognava scegliere la bicicletta di Agnese, la Thulin volle venire con me a sceglierla, perché aveva imparato che la bicicletta era come un’altra parte del corpo di una donna romagnola. Andammo a Lugo, dove esisteva un luogo in cui venivano ammassatati gli oggetti ritrovati. Vecchi oggetti, vecchi a tal punto che vi erano anche alcune biciclette del tempo di guerra. La Thulin ad un certo punto vide una bicicletta da donna, pesante, nera, e disse: “voglio quella”. Era arrugginita, disastrata e io cercai subito di dissuaderla: “meglio quell’altra, che è messa meglio”. Pensavo anche al fatto che sarebbero occorsi dei soldi per metterla a posto, in un film con pochi soldi si sta sempre attenti a tutto, ma Ingrid ribadì: “No, voglio quella lì”. Ebbene, il meccanico, nello smontare la bicicletta, ha trovato, dentro il telaio dove si inserisce la sella, un messaggio che una staffetta partigiana stava portando a qualcuno. Quella era proprio la bicicletta di una staffetta partigiana, forse caduta per mano dei tedeschi. Ho ancora un brivido a pensarci».
La scrittona il giorno dei funerali di Sinéad O’Connor è una bella dichiarazione.
Non solo voi. Letta la sua autobiografia, Rememberings, intelligente e a tratti divertente com’era lei. Fuori da certi schemi del successo musicale, come scrisse il Guardian: «full of heart, humour and remarkable generosity», direi che la frase che più la rappresenta per ciò in cui credeva e per ciò che fece potrebbe essere, parlando del fatto della foto del papa al SNL: «I feel that having a No. 1 record derailed my career and my tearing the photo put me back on the right track». Gran perdita, per quanto mi riguarda, sono contento di averlo letto. Avendola scritta durante il lockdown – quante autobiografie cominciate per quello? E quanto dischi, romanzi, diari? Sarebbe bello farne sunto e qualche ragionamento -, strazia il pensiero che erano vicine disgrazie personali e che i suoi propositi futuri, lo scrive alla fine, un disco, un tour, imparare a fare alcune cose nuove, sarebbero rimasti purtroppo propositi.
Ma porcocane, Michela Murgia. Nessuno dice mai sono malata sto morendo, si dice sempre che ci si sta curando, che si è guariti. Cambiano gli sguardi delle persone, cambiano le osservazioni, in rete poco di buono da aspettarsi, specie per una come lei oggetto di odio di tanti e di affetto, spero, di molti di più. Lo sapevamo, ce l’aveva detto ai primi di maggio, ma questo non toglie nulla al dispiacere e al senso, grazie, di perdita. Ha detto a Cazzullo: «Si è creata una certa aspettativa, se non schiatto in breve tempo sembra maleducazione…». Che tempra. Come ha sempre fatto, e come un’intellettuale qual era fa, ha utilizzato ciò che le accadeva per trarne una norma, una linea sulla quale riflettere e partire per modificare le cose che non vanno, il matrimonio per esempio, controvoglia, «non saremmo ricorsi a uno strumento patriarcale e limitato se avessimo potuto garantirci i diritti a vicenda», deciso per quell’assurdità italiana per cui in articulo mortis solo i consanguinei e la moglie o il marito possono dare indicazioni sulla condotta terapeutica, altrimenti son carte bollate da morirne, mentre sarebbe così utile e umano che lo potessero fare anche le persone d’elezione, scelte prima. Molti lamentano la resa pubblica della malattia e anche in questo caso bisognerebbe imparare a non giudicare: lei era, ripeto, un’intellettuale e rendeva pubblica la propria vita per forzare certi legacci di società patriarcale, bigotta e talvolta fascista che ancora ci portiamo dietro e dentro, ciascun faccia come crede ma la si pianti di esprimere giudizi su chiunque. Di cose, Michela Murgia ne ha dette tante e, spesso e in maggioranza, cose intelligenti di cui abbiamo un gran bisogno. È stata padrona di sé ed è importante, per quanto lo si possa essere quando a cinquant’anni ti comunicano una diagnosi nefasta, ha avuto il tempo per salutare e per mettere alcune cose a posto, spero che questi mesi di vita malata pubblica, di paura di notte, siano serviti anche a farle arrivare l’amore e l’affetto delle migliaia di persone che l’apprezzavano, a far sì che la comunità di persone come lei sensibili le si sia stretta attorno. A noi, qua, resta la perdita, ed è grave perché non sostituibile e il peso specifico della testa pensante che ora ci manca è parecchio, si fa e si farà sentire. Aveva detto di recente: «Il nostro vissuto personale oggi è più politico che mai, e se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione». Ed è in quello che io ho imparato di più da lei, come persona e come maschio, parlando di genere, ma il suo riferimento è anche al fascismo dei rapporti, alle sopraffazioni nelle relazioni, allo svilimento dei modi a favore degli obbiettivi. Ecco, a me come a moltissimi quest’eredità è presente, c’è e molti di noi, i migliori, la porteranno ad altri, mescolandola a tutti gli altri contributi delle altre teste pensanti che ci sono e ci sono state. E ci saranno, perdio, perché ci saranno eccome, anche grazie a lei, Michela Murgia.
Il mistero del Canada prosegue, come possa aver contribuito in maniera così significativa alla storia della musica. Tra gli altri, e tra i migliori, Robbie Robertson, scomparso oggi.
Grande nella Band, sia come gruppo di Dylan nella svolta elettrica che da soli – lui, Danko, Helm, Hudson e Manuel erano tutti musicisti e compositori eccellenti con grande predominanza di Robertson -, i loro primi quattro album – in tre anni! Solo i CCR alla pari – sono fenomenali, che botto esordire con Music from Big Pink!, per poi proseguire con i strepitosi The Band, Stage Fright, Cahoots, testi mai banali. E grande poi nella musica per il cinema, con Scorsese più che altro, da The Last Waltz in poi, forse il primo documentario musicale che vidi. Meno, per me, la sua produzione solista e ammiccante agli indiani d’America, evidentemente avere alle spalle, pur come primo attore, una band così solida dava i suoi frutti, ricchi e succulenti. Before the Flood è senz’altro, con Alchemy e Made in Japan, uno dei live che ho ascoltato di più. Adesso The weight, che meravigliosa soprattutto in apertura, poi The night they drove old Dixie down, ballatona, la mia preferita Up on Cripple Creek che sfiora quasi il funk e avanti, The shape I’m in e quante meraviglie, un brindisi a Robertson.
Perché così era: donna coraggiosa. Oltre a tutto il resto.
Dieci pezzi, dunque per ricordarla, i links a youtube spariranno in breve, come al solito, ma si potranno ritrovare facilmente. Grazie a Ed Power.
Mandinka ai Grammys del 1989, qui. Presentata da Billy Cristal con l’appropriata considerazione: «With her very first album, The Lion and the Cobra, she has served notice that this is no ordinary talent». Lei irresistibile, fece una delle sue esibizioni emozionanti e potenti in cui tratteneva a mala pena l’energia, da cui alcuni suoi movimenti e balli apparentemente un po’ goffi, non si teneva.
Nothing Compares 2 You a Top of the Pops nel 1990, qui. Almeno una volta il suo più grande successo commerciale va messo. Commerciale, appunto, lei che non volle mai essere una popstar, «I had no desire for fame», disse più volte, e Top of the Pops è l’emblema di ciò che non volle. Smise di cantarla a un certo punto e persino io, umile adepto del culto, non l’ho mai apprezzata. Però averne, dò comunque via molto del resto per questa.
I Am Stretched On Your Grave, 1990, qui. Dal suo secondo album, bellissimo, il pezzo è una rielaborazione del poema irlandese del diciassettesimo secolo Táim Sínte ar do Thuama, appoggiato su un loop mutuato da Funky Drummer di James Brown e con l’aggiunta del violinista dei Waterboys. O’Connor rilesse il pezzo alla luce della morte della madre in un incidente stradale nel 1985 e non è che sia del tutto encomiastico e di lamentoso dolore.
War al Saturday Night Live nel 1992, qui. Ne ho parlato ieri, lo sanno tutti, è il momento in cui cambiò i versi finali della canzone di Marley e stracciò la foto di GPII dicendo: «fight the real enemy». Come racconta lei nella sua bella autobiografia, al primo sbigottimento del pubblico, quindi il silenzio, seguì subito una reazione ostile e alla discesa dal palco, nel retro, non c’era più nessuno, tutte le porte chiuse. Persino il suo manager si negò al telefono per tre giorni: «And when I walk backstage, literally not a human being is in sight. All doors have closed. Everyone has vanished. Including my manager, who locks himself in his room for three days and unplugs his phone». Siccome, poi, ovviamente era negli Stati Uniti, l’ostilità del paese divenne costante e lei non ebbe più occasioni particolari là.
Ship Ahoy con i Marxman, 1993, qui. I Marxman erano un quartetto hip hop irlandese-caraibico e fin dal nome fu chiaro che erano sulla stessa lunghezza d’onda, di rifiuto all’estabilishment e di lotta al potere costituito. Appena si presentò l’occasione, le era piaciuto il loro singolo Sad Affair, fecero qualcosa insieme, Ship Ahoy appunto.
Thank You For Hearing Me, 1994, qui. Questa versione mette in risalto la base ritmica e il basso e, in sostanza, il groove da trip-hop leggero che contraddistingue il pezzo. Come ha confermato nell’autobiografia e come si sa, è stato scritto pensando a Peter Gabriel ed è evidentemente espressione di profonda riconoscenza, anche nella parte finale del breaking my heart e tearing me apart. Era il suo pezzo preferito da fare in concerto perché: «it just could take you, like a mantra, to these stratospheres of almost hypnosis» e così va ascoltato.
Empire con i Bomb The Bass, 1995, qui. Appena successivo, testimonia l’interesse di O’Connor per il trip-hop in quegli anni. Prodotto da Tim Simenon, lei duetta con il poeta Benjamin Zephaniah cantando «Vampire, you feed on the life of a pure heart, Vampire, you suck the life of goodness» riferendosi direttamente all’Inghilterra e al colonialismo del suo impero. Anche qui, un discorso ampiamente avanti per i tempi, lei tra gli altri vedeva bene quali fossero le questioni da affrontare.
She Moved Through The Fair, 1996, qui. Ripresa per il Michael Collins di Neil Jordan, O’Connor rivitalizzò il pezzo tradizionale al punto da diventare un’interpretazione difficilmente superabile. Inserisco questa versione perché si sente con chiarezza quanto lei fosse eccezionale dal vivo, come e meglio della sala di incisione, in cui non veniva aggiunto alcunché. Le sfumature sono numerosissime, i toni pure, nessuna aggiunta o virtuosismo inutile, andrebbe insegnata alle cantanti di oggi.
A Prayer For England dei Massive Attack, 2003, qui. In questo disco, la collaborazione fu su tre pezzi e nonostante sia considerato un album minore dei MA, direi che sia sottovalutato. Questo pezzo è sulla violenza infantile, «Let not another child be slain, Let not another search be made in vain» e anche qui è impossibile non cogliere la sensibilità di O’Connor che deriva, evidentemente, da vicende personali.
The Skye Boat Song, 2023, qui. Pezzo ripreso nella sigla della serie Outlander, O’Connor reinterpreta il brano tradizionale scozzese variando tra l’intimo e l’epico. «She is talented beyond measure. Hers is a voice of the ages – one which pierces heart and soul» disse qualche mese fa il produttore, a ragione.
Che bella quando sorrideva alla fine dei pezzi, quasi timida abbassando lo sguardo. E come invece puntava dritto senza mollare quando diceva qualcosa. Ma come si fa a non volerle bene?
Anche se non inattesa, la notizia della morte di Sinéad O’Connor mi spezza il cuore. O forse perché proprio non inattesa, anche quello.
Neanche tanto in là al liceo, a un certo punto apparve una ragazza che cantava un pezzo forte, movimentato, schitarrato il giusto, bella voce e grandissima presenza: Mandinka. Lei, bellissima e selvaggia, poco più grande di me. Ma poco. Si vedeva che era una che faceva da sola, una donna indipendente, forte, chiara e dritta al punto. I don’t know no shame / I feel no pain / I can’t see the flame. E io niente, rapito. A cantar tutto il disco, perché The Lion and the Cobra era, è molto bello. Il suo primo, Troy, Drink Before the War, Want Your (Hands on Me), Just Like U Said It Would B, Jackie, le so ancora oggi. No, dico, ma sentire Never Get Old da 3:02, ancora mi emoziono. E se l’era scritto da sola o quasi, testi e musiche, suonato un po’, cantato tutto, con quella testa rasata, i lineamenti favolosi e quell’aria da tenera dura che mi rapì il cuore allora e ancora l’ha con sé. Tre anni dopo pubblicò quella gran dichiarazione di intenti che è I Do Not Want What I Haven’t Got. E no, non quella lagna di Nothing Compares 2 U che era ovvio l’avesse scritta qualcun altro ma Jump in the River, favolosa, And if you said jump in a river I would / Because it would probably be a good idea, e poi You Cause as Much Sorrow, The Last Day of Our Acquaintance, Feel So Different, Black Boys on Mopeds e soprattutto The Emperor’s New Clothes, che la so ancora tutta nell’inglese di Orzinuovi. A piedi nudi sul finto palchetto, una follia per i tempi di oltre cinque minuti. Niente, io sempre più rincitrullito, era lei, era lei. Perdio, I Do Not Want What I Haven’t Got tutta cantata senza accompagnamento. Comprai persino un disco degli In Tua Nua, perché ovviamente c’era lei, solo quello. Poi venne un disco di standards, Am I Not Your Girl?, comprai la cassetta originale, era chiaramente amore, a parte un paio di canzoni note le altre non le conoscevo, mi aprì qualche finestra su altri mondi. Era pur sempre un disco di cover e lei aveva la voce per quelle fino a un certo punto, ma la presi come si deve, cioè un colpo di testa di una che fa quel che vuole. Brava. E io col walkman bello alto. Poi venne una favolosa versione di The Foggy Dew con i Chieftains, Irlanda su Irlanda, e Blood of Eden con Peter Gabriel e io andai in Irlanda nel 1992 un po’ anche per lei, per i cieli, le scogliere, la musica, tutte le cose che piacciono a tutti e poi anche per lei. Il 1992 fu proprio l’anno: prima fece incazzare quel pirla reazionario e mafioso di Sinatra, che avrà pure avuto una gran voce ma tale resta, e poi al Saturday Night Live modificò gli ultimi versi di War di Marley e stracciò in favore di telecamera la foto di Giovanni Paolo II al grido di «fight the real enemy». Il riferimento era ovviamente ai reati di molestie sessuali che la Chiesa copriva da decenni e che una donna irlandese finita nelle Case Magdalene conosceva benissimo. Io, secco. Aveva ragione da vendere, santoddio, e un gesto del genere servì eccome per sollevare la questione e il dibattito. Fu, naturalmente, massacrata in ogni dove da quegli ipocriti stronzi che poi nel privato delle case e delle canoniche facevano le cose più immorali e indegne, furono devastati i suoi affetti, le sue opere, il suo lavoro e la sua vita privata. Ci vollero nove anni, nove!, da allora perché Giovanni Paolo II riconoscesse gli abusi sessuali all’interno della Chiesa, maledetti, Madonna non perse occasione per guadagnare visibilità alle sue spalle, ipocrita pure lei con quel tanto di nome. Lei sì, oscena. Sinéad O’Connor disse poco tempo dopo: «Everyone wants a pop star, see? But I am a protest singer. I just had stuff to get off my chest. I had no desire for fame» e io la elessi a mia guida. Se mi avesse detto di lasciare tutto e andare a guidare una tribù di Ubangi nel deserto, probabilmente l’avrei fatto. Giovane, spregiudicata, bella, decisa, soprattutto nel giusto, era come mi sentivo io nello stesso momento. C’è quel momento, noto, in cui al concerto in tributo per Dylan tutto il pubblicò la fischiò rumorosamente e lei, dopo un ovvio momento di sconcerto iniziale, recitò War a gran voce di fronte a un pubblico ostile e poi, giustamente, scoppiò a piangere. Molto per una donna di nemmeno trent’anni. Poi pubblicò Universal Mother, di cui di sicuro Red Football, sacrosanta rivendicazione contro la violenza infantile e femminile, Fire on Babylon, l’importante Famine e il saluto a Cobain con All Apologies – l’unica canzone dei Nirvana che mi piaccia per davvero – furono gli aspetti salienti. Nel frattempo, aveva lasciato crescere i capelli e dio come avrei voluto che non fosse così sola nelle sue battaglie. Nel 1997, finalmente, riuscii a vederla dal vivo, alla festa dell’Unità di Correggio, allora importante appuntamento musicale oltre che politico. Fece due concerti, uno ufficiale prima e uno dopo con la chitarra seduta tra noi perché ne aveva voglia, l’ho raccontato qui, aveva appena pubblicato Gospel Oak e This is a rebel song mi colpiva. E in concerto era come su disco, anzi meglio, era proprio così, un talento smisurato. Riuscii a scambiare due parole maldestre, il cui senso era grossomodo io ti amo e quel che fai è giusto grazie tieni duro ti amo fammi venire con te. Una cosa del genere, non più strutturata ma perdio sentita e sincera. Poi passò parecchio tempo prima di un nuovo disco, Faith and Courage, di cui ricordo senz’altro No Man’s Woman con cui facevo lunghe passeggiate nella pineta di Cecina, al tempo, e la donna decisa e sicura di sé, come è giusto che sia e come ciascuno deve essere libero di essere, lasciò il posto alla donna incerta, sentimentalmente improvvida, sempre però chiara negli interventi, vedi la lettera pubblica a quella rinciulita di Miley Cyrus, ma insicura per sé e alla ricerca, alla fine, di affetto e comprensione che non riceveva. Seguirono solitudini, conversioni assurde, lutti familiari di grande dolore, alcune manifestazioni di pericolo negli ultimi anni, alcuni dischi di cui uno peraltro buono e riconosciuto, I’m Not Bossy, I’m the Boss, quasi dieci anni fa, ma con un messaggio e un’estetica ormai compromessi, innaturali, tatuaggi un po’ a caso, una tristezza di fondo impossibile da non percepire. «Sono stata una persona molto travagliata», disse di sé poco tempo fa e mi colpì che parlasse di sé al passato ma mica perché si fosse risolta, poi sparì alcuni giorni e si temette il peggio, poi ebbe periodi bui in cui non ebbe paura di parlare di disagio mentale e del suicidio di uno dei figli e io, qui da lontano da sempre ma sempre innamorato, dispiaciuto del suo dolore. E sempre con The Lion and the Cobra e I Do Not Want What I Haven’t Got sul piatto, nella testa quella sera a Correggio e quella foto strappata. Poi, oggi, è successo. E mi fa schifo che il Corriere titoli: «È morta Sinead O’Connor, la cantante di Nothing Compares 2 U aveva 56 anni», che è proprio quello che non era e che aveva deciso di non cantare più, anche se ci mise un gran coraggio a mettere il bel faccione, bianco e pulito, nel mezzo dell’inquadratura per tutta la canzone. Il Guardian nel 2021, recensendo la biografia di O’Connor, scrisse che era «full of heart, humour and remarkable generosity» e parlava di lei, Sinéad O’Connor, non del testo, e io non potrei essere più d’accordo. Tanto tanto cuore, grande generosità, che poi si sbaglia per eccesso, capita di continuo anche a me, ma vivaddio, averne di cuore e generosità invece dei miserabili dei tornaconti personali e della parola sempre in meno, averne, averne. Anche ora scambio tutto per una Sinéad in più. Ciao Sinéad, addio, che dove stai andando tu possa essere ancora travagliata e piena di cuore, di prese di posizione, di convinzioni, di battaglie da compiere. Non ti auguro la tranquillità come non la auguro a me, non ti auguro la pace, figuriamoci, né il riposo, ti auguro di continuare a essere quello che sei stata, la donna decisa, la donna bella e coraggiosa, senza tutto il dolore dopo, quello della solitudine e della malattia, come hai detto. Selvaggia, indomabile e piena di contraddizioni, come tutte le persone di cuore sono. Non è giusto sia andata così e non da oggi e ciò che fa male è che, come dicevo all’inizio, non era inatteso. Che cazzo, Sinéad, quanto tempo è passato e quei bei tempi che non lo sono mai stati davvero, sapere però che hai detto che è stato l’enorme successo di Nothing Compares 2 U a mettere realmente in crisi la tua carriera, mentre l’aver strappato la foto del papa ti ha fatto tornare «sulla giusta strada» è una delle cose bellissime che ricorderò di te. Perché hai ragione.
E proverò a essere coraggioso come lo sei stata tu. Fanculo, miserabili.
Che batosta oggi. Il tempo, in senso meteorologico, ci ha castigato. Collettivamente e, per quanto riguarda me, individualmente. Certo, ad altri è andata peggio. Si ricomincia, si rimette a posto, si ripara, si mette qualcosa al posto di ciò che non c’è più, ma questo non toglie il magone che adesso sta lì e non va né su né giù.
1’38” in 22 chilometri a Pogacar e 2’51” a Van Aert? Peraltro due mostri a loro volta e pure in formissima? E qui il dilemma: che faccio, continuo a guardare il Tour? Continuo, continuiamo, a credere a quel che vediamo? Che poi io lo sostengo da sempre: aprite tutto, largo ai bombatoni, ciascuno a proprio rischio e avanti con lo spettacolo oltre ogni limite. E poi facciamo il campionato dei normali, se qualcuno ha proprio voglia di correre e guardare.
La prima pagina della Wiener Zeitung, che chiude oggi dopo 320 anni, 10 imperatori e molte altre cose. Quello là va contato nei presidenti.
Il giornale più antico del mondo pubblicato continuativamente. La proprietà è dello Stato austriaco e per parecchio il giornale si è retto in piedi grazie a una legge ad hoc che rendeva obbligatoria la pubblicazione di annunci di interesse pubblico, di fatto garantendo la maggior parte degli introiti del giornale. Da aprile la legge è stata abrogata e così la Wiener Zeitung resterà solo sul web. Nei primi decenni della sua esistenza, il giornale si occupò esclusivamente di notizie relative alla corte austriaca e si chiamava WiennerischeDiarium. Una delle testate che ora aspira al titolo di giornale più vecchio del mondo è la Gazzetta di Mantova, fondata nel 1664 ma con altro nome, vale?, e poi chiusa a più riprese sia in epoca napoleonica che fascista. Difficile stabilire un criterio.
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