«non scherziamo. Dovevamo votare su un tema etico, non politico»

E poi arriva quel giorno, per me oggi, in cui uno si trova d’accordo con Luca Zaia.

Lo so, sono sconcertato anch’io. Oggi il consiglio della Regione Veneto ha votato – male – sulla legge di iniziativa popolare sul suicidio medicalmente assistito, ovvero per stabilizzare e delineare i contenuti della sentenza nata dal caso dj Fabo. È stato un pareggio, e qui la colpa non è solo della destra integralista ma è distribuita con quei fardelli dei cattolici dell’accidenti che ci portiamo dietro anche a sinistra, il che porta la cosa su un binario morto. Il progetto di legge torna in commissione Sanità e lì pare destinato a finire in un cassetto. Vorrei ricordare esplicitamente il voto contrario della consigliera del Pd Anna Maria Bigon, determinante.
Zaia ha spinto molto per l’approvazione, mesi in cui le minacce dei comitati pro vita sono state davvero pesanti e vergognose, e in un momento non facile per la sua posizione personale, in fine mandato, sostenendo una parte progressista della Lega che si occupa anche di diritti in ottica di etica e non di politica, minoranza purtroppo rispetto ai degenerati salviniani. Gliene va dato atto e io lo faccio oggi, stavolta sono d’accordo con Luca Zaia: «Io sono per il rispetto della scelta individuale. Rispetto tutti ma vorrei essere libero di scegliere se dovesse capitare a me di trovarmi in una certa situazione». Già. E: «Sì, perché al di là di tanti bei discorsi di principio, c’è la vita che bussa alla nostra porta. Noi amministratori siamo chiamati a dare risposte ai cittadini, anche o soprattutto di fronte a situazioni così delicate».

oh no, Hutch

Hutch, David Soul, ha pigliato su la chitarra, la pistola e l’auto scassata ed è andato.

Un dispiacere, ricordo alcune mattine di luglio in cui studiavo per l’orale della maturità guardandoli. Qualche anno fa era circolata una foto di Soul in carrozzina, non esattamente il ritratto della salute, spinto premurosamente da Glaser, sarebbe Starsky. Beh, troviamoci gli amici così perché se no non ha senso.

la vida es eterna en cinco minutos

Arrestato l’ex ufficiale cileno Pedro Barrientos, accusato dell’omicidio di Victor Jara. Barrientos si era trasferito negli Stati Uniti nel 1990, era accusato da tempo di aver torturato e ucciso Jara e altri dissidenti nei giorni tremendi dello Stadio Nazionale di Santiago ed era già stato condannato per questo. Altri otto ufficiali militari in pensione erano già stati condannati per la morte del cantautore.
Un’occasione, un’altra, per rimettere su Te recuerdo Amanda, piangere la perdita e auspicare che perdano la chiave della cella di Barrientos.

Sarà più grave uccidere un cantante e un poeta? Come disse Moravia, ne nascono rari, quindi sì.

un altro pezzo che se ne va

Pessime notizie per bandcamp, la piattaforma musicale più sensibile ai ricavi degli artisti. Prima è stata venduta a Epic Games, colosso dei videogiochi, dalla serie Unreal al Fortnite di oggi. Già non è che si capisca e si poteva sospettare la perdita di indipendenza con questa acquisizione, nonostante magari il miglioramento con i servizi di backend. Ma è durata diciotto mesi, Epic ha licenziato 830 dipendenti e ha venduto bandcamp la settimana scorsa a Songtradr che, quantomeno, ne condivide l’ambito, sebbene sia del tutto orientata sulle licenze e la monetizzazione della musica. Difficile non ne vengano influenzate le politiche di bandcamp, a domanda specifica gli acquisitori hanno svicolato. Il che non è bene su tutta la linea.

Inoltre, scrive «Pitchfork», Songtradr non ha ancora riconosciuto l’associazione dei lavoratori e non ha ancora offerto a tutti i dipendenti una posizione all’interno della «nuova» bandcamp, soprattutto. Il sindacato interno, bandcamp united, è in agitazione e ha pubblicato un comunicato piuttosto preoccupato.
Non bene no. Aspetto che qualcuno a un certo punto mi dica che la mia bella collezione me la posso infilare in saccoccia e andare a quel paese, di solito, purtroppo, funziona così.

a dottò, me scusi, ma ‘sto Volonté me commuove davvero

Accidenti, è mancato Giuliano Montaldo e non c’è età così veneranda che renda la cosa accettabile. Partigiano, attore e poi ovviamente regista, lo ricordo senz’altro per la trilogia sul potere, Gott mit uns (1970), Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973), militare, giudiziario e religioso, L’Agnese va a morire (1976), che sequenza formidabile. E il suo Marco Polo, sceneggiatone colossale del 1982, ricordo la trepidazione alla messa in onda in prima serata.

C’è una storia che si racconta a proposito di Sacco e Vanzetti, mi piace pensarla vera. L’ho già scritta e la riporto:

Gian Maria Volontè interpretò Bartolomeo Vanzetti nel film di Montaldo del 1971 e, quando si trattò di recitare il lungo monologo in propria difesa («la società nella quale ci costringete a vivere e che noi vogliamo distruggere, è tutta costruita sulla violenza: mendicare la vita per un tozzo di pane è violenza; la miseria, la fame a cui sono costretti milioni di uomini è violenza; il denaro è violenza; la guerra; e persino la paura di morire che abbiamo tutti ogni giorno, a pensarci bene, è violenza»), Volontè si preparò a lungo. Quando si dichiarò pronto, cominciò a recitare l’intera scena, come era solito fare.
Si racconta che dovette interrompersi e ricominciare perché una comparsa, che interpretava un poliziotto alle spalle di Nicola Sacco, scoppiò a piangere per il pathos e la carica dell’interpretazione di Volontè e ci volle un bel po’ perché si riprendesse. Potere delle parole (e del magnifico Volontè).

Me commuove davvero anche a me. E Montaldo, onesto e dritto, con l’idea che il cinema sia popolare e vada fatto e condiviso con le persone, la sua «insofferenza dell’intolleranza» di cui tanto abbiamo bisogno ancora, la militanza costante. Scrisse la sua autobiografia, Un marziano genovese a Roma, in cui se Zeman non c’entra nulla il pensiero è a Flaiano. Su RaiPlay non si trovano i suoi titoli formidabili ma alcune cose ci sono, tra cui il documentario sulla sua lunga relazione con la moglie, Vera & Giuliano.

Un ultimo racconto, è lo stesso Montaldo che lo fa durante un’intervista, parlando delle riprese di L’Agnese va a morire e della protagonista, Ingrid Thulin:

«Quando all’inizio del film bisognava scegliere la bicicletta di Agnese, la Thulin volle venire con me a sceglierla, perché aveva imparato che la bicicletta era come un’altra parte del corpo di una donna romagnola. Andammo a Lugo, dove esisteva un luogo in cui venivano ammassatati gli oggetti ritrovati. Vecchi oggetti, vecchi a tal punto che vi erano anche alcune biciclette del tempo di guerra. La Thulin ad un certo punto vide una bicicletta da donna, pesante, nera, e disse: “voglio quella”. Era arrugginita, disastrata e io cercai subito di dissuaderla: “meglio quell’altra, che è messa meglio”. Pensavo anche al fatto che sarebbero occorsi dei soldi per metterla a posto, in un film con pochi soldi si sta sempre attenti a tutto, ma Ingrid ribadì: “No, voglio quella lì”. Ebbene, il meccanico, nello smontare la bicicletta, ha trovato, dentro il telaio dove si inserisce la sella, un messaggio che una staffetta partigiana stava portando a qualcuno. Quella era proprio la bicicletta di una staffetta partigiana, forse caduta per mano dei tedeschi. Ho ancora un brivido a pensarci».

put me back on the right track

La scrittona il giorno dei funerali di Sinéad O’Connor è una bella dichiarazione.

Non solo voi. Letta la sua autobiografia, Rememberings, intelligente e a tratti divertente com’era lei. Fuori da certi schemi del successo musicale, come scrisse il Guardian: «full of heart, humour and remarkable generosity», direi che la frase che più la rappresenta per ciò in cui credeva e per ciò che fece potrebbe essere, parlando del fatto della foto del papa al SNL: «I feel that having a No. 1 record derailed my career and my tearing the photo put me back on the right track». Gran perdita, per quanto mi riguarda, sono contento di averlo letto. Avendola scritta durante il lockdown – quante autobiografie cominciate per quello? E quanto dischi, romanzi, diari? Sarebbe bello farne sunto e qualche ragionamento -, strazia il pensiero che erano vicine disgrazie personali e che i suoi propositi futuri, lo scrive alla fine, un disco, un tour, imparare a fare alcune cose nuove, sarebbero rimasti purtroppo propositi.

in democrazia il cosa ottieni non vale mai più del come lo hai ottenuto

Ma porcocane, Michela Murgia.
Nessuno dice mai sono malata sto morendo, si dice sempre che ci si sta curando, che si è guariti. Cambiano gli sguardi delle persone, cambiano le osservazioni, in rete poco di buono da aspettarsi, specie per una come lei oggetto di odio di tanti e di affetto, spero, di molti di più. Lo sapevamo, ce l’aveva detto ai primi di maggio, ma questo non toglie nulla al dispiacere e al senso, grazie, di perdita. Ha detto a Cazzullo: «Si è creata una certa aspettativa, se non schiatto in breve tempo sembra maleducazione…». Che tempra. Come ha sempre fatto, e come un’intellettuale qual era fa, ha utilizzato ciò che le accadeva per trarne una norma, una linea sulla quale riflettere e partire per modificare le cose che non vanno, il matrimonio per esempio, controvoglia, «non saremmo ricorsi a uno strumento patriarcale e limitato se avessimo potuto garantirci i diritti a vicenda», deciso per quell’assurdità italiana per cui in articulo mortis solo i consanguinei e la moglie o il marito possono dare indicazioni sulla condotta terapeutica, altrimenti son carte bollate da morirne, mentre sarebbe così utile e umano che lo potessero fare anche le persone d’elezione, scelte prima. Molti lamentano la resa pubblica della malattia e anche in questo caso bisognerebbe imparare a non giudicare: lei era, ripeto, un’intellettuale e rendeva pubblica la propria vita per forzare certi legacci di società patriarcale, bigotta e talvolta fascista che ancora ci portiamo dietro e dentro, ciascun faccia come crede ma la si pianti di esprimere giudizi su chiunque.
Di cose, Michela Murgia ne ha dette tante e, spesso e in maggioranza, cose intelligenti di cui abbiamo un gran bisogno. È stata padrona di sé ed è importante, per quanto lo si possa essere quando a cinquant’anni ti comunicano una diagnosi nefasta, ha avuto il tempo per salutare e per mettere alcune cose a posto, spero che questi mesi di vita malata pubblica, di paura di notte, siano serviti anche a farle arrivare l’amore e l’affetto delle migliaia di persone che l’apprezzavano, a far sì che la comunità di persone come lei sensibili le si sia stretta attorno. A noi, qua, resta la perdita, ed è grave perché non sostituibile e il peso specifico della testa pensante che ora ci manca è parecchio, si fa e si farà sentire. Aveva detto di recente: «Il nostro vissuto personale oggi è più politico che mai, e se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione». Ed è in quello che io ho imparato di più da lei, come persona e come maschio, parlando di genere, ma il suo riferimento è anche al fascismo dei rapporti, alle sopraffazioni nelle relazioni, allo svilimento dei modi a favore degli obbiettivi. Ecco, a me come a moltissimi quest’eredità è presente, c’è e molti di noi, i migliori, la porteranno ad altri, mescolandola a tutti gli altri contributi delle altre teste pensanti che ci sono e ci sono state. E ci saranno, perdio, perché ci saranno eccome, anche grazie a lei, Michela Murgia.

that’s when that little love of mine / dips her doughnut in my tea

Il mistero del Canada prosegue, come possa aver contribuito in maniera così significativa alla storia della musica. Tra gli altri, e tra i migliori, Robbie Robertson, scomparso oggi.

Grande nella Band, sia come gruppo di Dylan nella svolta elettrica che da soli – lui, Danko, Helm, Hudson e Manuel erano tutti musicisti e compositori eccellenti con grande predominanza di Robertson -, i loro primi quattro album – in tre anni! Solo i CCR alla pari – sono fenomenali, che botto esordire con Music from Big Pink!, per poi proseguire con i strepitosi The Band, Stage Fright, Cahoots, testi mai banali. E grande poi nella musica per il cinema, con Scorsese più che altro, da The Last Waltz in poi, forse il primo documentario musicale che vidi. Meno, per me, la sua produzione solista e ammiccante agli indiani d’America, evidentemente avere alle spalle, pur come primo attore, una band così solida dava i suoi frutti, ricchi e succulenti. Before the Flood è senz’altro, con Alchemy e Made in Japan, uno dei live che ho ascoltato di più. Adesso The weight, che meravigliosa soprattutto in apertura, poi The night they drove old Dixie down, ballatona, la mia preferita Up on Cripple Creek che sfiora quasi il funk e avanti, The shape I’m in e quante meraviglie, un brindisi a Robertson.