la testa dura come quella di un, le gambe forti come quelle di un, il corno robusto come quello di un, tutto insieme nell’animale più forte di tutti

Agli albori della paleontologia, agli albori dell’idea stessa che sulla terra avessero camminato creature preistoriche poi scomparse prima dell’uomo, agli albori stessi delle scienze naturali in senso moderno, a Magdeburgo nel 1663 venne ritrovata una caverna ricolma di resti ossei di animali sconosciuti. Consultato a tal proposito, il naturalista Otto von Guericke fece quella che ancora oggi è la ricostruzione paleontologica più attendibile dell’Unicorno di Magdeburgo.

Ineccepibile. Quando sono triste, io penso all’Unicorno, lo immagino correre leggiadro e possente al tempo stesso e mi torna il buonumore. Ecco un’accurata ricostruzione contemporanea dell’animale con carni e pelle e pelo.

Poiché nel 1663 nemmeno il rinoceronte era ancora stato descritto nella letteratura scientifica, perché il cranio dell’Unicorno proprio quello è, fu difficile per gli scienziati del tempo sbrogliare la matassa. Oggi no, secondo Thijs van Kolfschoten dell’Università di Leida si tratta dell’insieme di un cranio di rinoceronte, appunto, delle gambe di un mammut primigenio e del corno di un narvalo. L’eccezionalità, e il mistero ancora da svelare, è che tali resti si trovassero nello stesso posto, escludendo che un rinoceronte e un mammut scorrazzassero per il mare a cavallo di un enorme narvalo.
Il Museum für Naturkunde di Magdeburg, come è giusto, non solo tiene viva la storia, ha anche ricostruito un modello dell’Unicorno a grandezza naturale – la prima foto – e ne fa, giustamente, anche bandiera e souvenir.

Che la via della scienza sia irta di ostacoli, false vie, vicoli ciechi e direzioni errate è un fatto noto ai più, che vi siano trappole così sostanziose forse lo sospettiamo meno, chissà quali unicorni sono oggi esposti nei nostri musei cui i nostri posteri guarderanno con lo stesso sguardo con cui io oggi guardo a Magdeburgo. Chissà. Nel frattempo corri, Unicorno, corri libero e bello e aggraziato e leggiadro. Corri.

ho un amico grafico che ne capisce

Tre copertine di dischi. Da Vatican Shadow, il nome!, un’esortazione alla de-escalation sulle armi chimiche, dopo le precedenti prove sui tunnel di Saddam e non ricordo più cosa.

L’ultima uscita dei Prison ricolloca invece, in modo perfettamente comprensibile, la posa più famosa del turismo italiano nella campagna americana o inglese con l’immancabile staccionata, celebrata in modo immortale dai Monty Python.

Ciliegie spaziali fluttuanti, invece, per i Gaadge, la cui musica qualcuno sintetizza così: “Big sounds with a decent touch of grunge and shoegaze at times”.

Tuttebelle.

il cinquantaquattresimo dodici dicembre

La faccenda è un po’ passata in cavalleria, torna a ondate, oggi è solo nelle pagine milanesi del Corriere come fosse storia locale. Meglio il posizionamento di Repubblica, in alto, che propone un giusto approfondimento, “La strage di piazza Fontana spiegata a chi non c’era“, peccato sia in abbonamento e arrivederci allo scopo di spiegare qualcosa a qualcuno. Che non è certo abbonato, pirlette.
Non sono mai sicuro di cosa sia bene, alla fine che la stagione in cui si mettevano le bombe in banche e stazioni e in cui si sparava alle manifestazioni sia definitivamente passata e che, di conseguenza, la si ricordi meno, non è del tutto un male, mi dico. Certo, il fascismo, la memoria, per carità, noi stessi però conosciamo e ricordiamo sommariamente le vicende della Resistenza e degli eccidi fascisti e nazisti e non è detto che si partecipi come si dovrebbe e, allora, cosa pretendere dai ventenni di oggi? Che conoscano le dinamiche di Portella della Ginestra? E così indietro, fino alle guerre puniche. E Bixio? E Bava Beccaris? Che eran meno giuste quelle cause? No ma chiaramente non voglio mescolare tutto nel calderone, poi sorgono le repliche fastidiose (e i marò? e il PD?), vorrei dire che la memoria trascende inevitabilmente le durate delle vite umane, o delle fasi di esse, e piano piano tramonta; diventa necessario scegliere le cause e le battaglie, tenerne vive alcune più di altre. Piazza Fontana, per molte ragioni, è una che varrebbe la pena tenere viva.

a fitting – albeit somewhat sentimental – finale to a remarkable career?

Speriamo di no, “The Old Oak” di Loach è molto bello.

Direi come tutto Loach ma non sono così ferrato. I primi trenta secondi sono folgoranti, il racconto per fotografie che poi prosegue nella seconda sala del pub, la speranza persa e poi ritrovata e poi di nuovo persa e riguadagnata, le giuste piccole miserie delle nostre vite che ci fanno accogliere, o meno, chi ci sta attorno, due protagonisti notevoli, proprio un bel film sull’integrazione, l’immigrazione e la vita di tutti i giorni. Era molto facile scivolare ovunque e, invece, Loach non lo fa mai, un film convincente e coinvolgente, girato peraltro come se si entrasse in una casa e si vedesse svolgere una storia, non come fosse raccontata in un film. Eccessivi come sempre i Cahiers du Cinéma, vabbè, dopo “Io, capitano”, “C’è ancora domani”, “Killers of the flower moon”, Loach appunto, questa è davvero una magnifica stagione di cinema. E manca ancora Rohrwacher.

novembre 1994

Tra le tante fotografie che non ho mai stampato, ne saltano fuori talvolta alcune dell’alluvione del Po del 1994.

In realtà furono Tanaro, Orco e Dora Baltea, gonfi della pioggia di quei giorni ed esondati ovunque, a ingrossare enormemente il Po che uscì in modo disastroso dagli argini in Piemonte e Lombardia per chilometri e chilometri, parecchi morti. Questa foto la scattai nel pavese, poco dopo il ponte della Becca alla confluenza col Ticino, altissimo anch’esso, era acqua a perdita d’occhio, arrivò a pochi metri da casa nostra e sommerse borghi e parti di città. Si temette per tutti i ponti, molti crollarono. Ricordo le settimane successive, fuori dai paesi i cumuli di rottami, mobili e oggetti da buttare, conservo ancora una sveglia presa dal mucchio a San Zenone al Po.

Pogues dilemma

Meglio questo?

O questo?

Accidenti, Shane MacGowan. Secondo e terzo disco dei Pogues, rispettivamente 1985 e 1988, furono doppietta fenomenale. Se il primo era completamente immerso nelle atmosfere del folk irlandese, il secondo allargava un poco gli orizzonti e contribuì, infatti, al successo più diffuso della band – Fairytale of New York con Kirsty MacColl francamente scassò anche parecchio -, pur perdendo la bassista Cait O’Riordan e dando la possibilità ad altri che non fossero MacGowan, Finer, Chevron, Woods, di scrivere qualche pezzo. I testi, i testi. Di sicuro, un periodo caratterizzato dalla grazia e dal tocco magico, non ne sbagliavano una. Come Sinéad O’Connor nei primi due dischi, i Dire Straits in tutta la carriera tranne l’ultimo o Marco Paolini tra Il Vajont e Ustica, ma è un altro discorso e sarebbe lungo.
Questi due dischi contribuirono alla fascinazione collettiva e personale per l’Irlanda, culturalmente di grande successo negli anni Ottanta e poi divisa che non si sapeva mai se dire Derry o Londonderry – la prima, ovvio, mica siamo filo-oppressori – e le bombe dell’IRA esplodevano dappertutto. E fu inevitabile andare e girarla un po’ su e giù fischiettando Chieftains, Clannad, Dubliners, Boomtown Rats, Van Morrison, Cranberries, U2 e tutta quella splendida musica che veniva da là allora.
Quando i Pogues cacciarono MacGowan per un evidente problema con l’alcool – ce l’avevano tutti nella band e anche nel paese, direi, era solo un problema di quantità inaudita e di incapacità a svolgere un lavoro -, lui disse solo: «Perché ci avete messo tanto?». Eh beh, è questo che vale.

il nuovo santo patrono degli scellerati

Per carità, subire una rapina non è bello ed è lecito cercare di evitare di rimetterci le penne. Ma, per citare il Gramellini di oggi, «se insegui i rapinatori ad arma sguainata (peraltro illegalmente detenuta) mentre sono ormai usciti dalla tua gioielleria, non è legittima difesa. Se spari cinque colpi all’interno dell’auto in cui si sono rifugiati, non è legittima difesa. Se insegui uno dei banditi già ferito a morte mentre cerca di scappare e, vedendolo cadere a terra, lo prendi a calci in testa e alla schiena, poi gli punti addosso la pistola ormai scarica (ma tu non lo sai) e premi ancora il grilletto, non è legittima difesa».
Il gioielliere cuneese Mario Roggero, autore di tutto quanto qua sopra ovvero l’omicidio di due banditi, non solo continua pervicacemente a difendere sé stesso ma da oggi si rivolge al suo nuovo santo patrono: «mi rivolgerò a Vannacci» dice lo stolto insipiente.

Bene, così da oggi i disgraziati possono smettere di inviare preci a Frate Asino, San Giuseppe da Copertino che aveva il cervello così leggero da volare, patrono degli studenti che nulla nulla sanno e che possono ormai sperare solo nella scienza infusa, e rivolgersi al patrono generale. Anzi, ora il patrono capo di stato maggiore delle forze operative terrestri in aspettativa per ragioni familiari. Ora pro eis.