La Francia dice: costruiamo un’altra centrale nucleare.

Acqua, fiume, tondo, posto perfetto.
Ancor di più, ecco dove.

Esatto, lì. Che se fa bùm è meglio.
Il momento dell’estasi di fronte alle macchine-per-fare-cose. Il miracolo della mietitrebbiatrice, non è questione di età.
Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più libagna dei sèrchioli, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbia un qualche tipo di senso immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.
Entra tutto ed escono solo i chicchi già puliti, dal sedere della macchina poca roba, la digestione dell’apparecchio è un vero mistero. Che mi estasia, poi di notte è ancora più suggestivo. E non è come una volta che le beccavi in strada e stavi in coda a due all’ora, oggi sfiorano pure velocità mai viste. Ruspa vince ancora ma mietitrebbia è sempre in alta classifica.
Tutti i 59 secondi di…
25 aprile | approccio primaverile | banda dei vigili | Bernina express | calma piatta ferrarese | centro ittiologico | dna | festa dentro una panda | fustigazione | la finestra sul cortile | mietitrebbiatrice | neve marzolina | non aprite quella porta | nuvole vulcaniche | segnaletica stradale e umarèll | signora e neve | stazione di Amburgo | tabellone dresdense | tevere notturno | videocitofono | vista berlinese | vittoria ai referenda |
E poi arriva quel magnifico momento in cui, dopo più di tremila chilometri, è ora di cambiare.
Ma cambiare per modo di dire, è solo la versione nuova. Fosse così per tante cose della vita, sai che roba? Avessi testa, gambe e cuore nuovi di trinca ancora da consumare che bello sarebbe…
Chi almeno una volta non ha parlato della madeleine [mad.lɛn] o in modo più colto della petite madeleine alludendo con il sopracciglio alzato e una leggera scossa della testa a quello là, a Proust, alla faccenda dei ricordi giovanili scatenati dal dolcetto, «Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii», alzi la mano. Nessuno, infatti. Si allude, si rimanda a quello là, ci si fa un cenno di intesa che tanto si sa di chi e cosa si parla e bon, andiamo in pace.
Ma è falso, nove volte su dieci, è una cosa che si dice ma chi – per davvero – l’ha letto? Nessuno, pochi, qualcuno raro. Io ci ho provato e per poco non sono morto, cinque righe di descrizione mi son faticose, mica potevo farcela. E che noia, posso dirlo? Lo dico? Che noia. «Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca ad esso trovare la verità». La stessa narrazione dei sentimenti e delle emozioni che fanno trasalire, signore, libera me domine. Posso dirlo di nuovo? Chebballeprust. Una delle cose che col passar del tempo sparirà, amen, qualcuno oggi lo legge? Non credo, immagino di no, forse qualche stantio programma scolastico provinciale francese? Non so.
Comunque. C’è una cosa che mi interessa. La tradizione fa risalire la madeleine [mad.lɛn] alla cucina di Madeleine Paulmier, cuoca del XVIII secolo al servizio di, senti senti, Stanisław Leszczyński. Che sarebbe un nome ignoto se non lo avessi conosciuto a Nancy qualche settimana fa, l’ho raccontato qui. E siccome l’ardito polacco Leszczyński era, lo ricordo, suocero di Luigi XV di Francia, gli fece assaggiare il dolcetto che la sua cuoca a palazzo faceva e lui, il re, pare l’abbia nominato madeleine [mad.lɛn] per questo.
Che soddisfazione, ora potrò e lo farò per sempre fare un cenno della testa, parlando della madeleine [mad.lɛn], e rimandare non al Proust ma al Leszczyński, alla sua storia avventurosa e, se son fortunato, raccontarla.
Ma non subito comprensibili:
Ma più ci penso e più il senso diventa chiaro.
Ultima tappa, svoltolone verso sud in direzione Monaco. Di Baviera, ovvio, l’altro è per i pettegolezzi e i film scollacciati. Le due grandi direttrici del treno per l’Italia dalla Germania sono o da Francoforte, via Basilea fino a Milano, o dal Brennero, scendendo a Verona. Entrambe hanno punti panoramici notevoli, quella a est è più breve e, per la mia esperienza, meno soggetta a rotture o ritardi. Quindi entro da lì. Ritorno.
Lunedì il dottore della gambaculo mi ha incastrato, perché ha capito che fosse per me, ciao. Quindi torno, ed è un peccato perché ora che ho preso il ritmo potrei andare avanti a gironzolare per anni. Il bilancio è ampiamente positivo, ho visto nuovi posti magnifici, Vienne, Bourges, Troyes, Reims, Nancy, Metz, Karlsruhe, Würzburg, Coburg, ne ho rivisti altri che mi piacciono molto, Lione, Strasburgo, Monaco, tutto sommato ho passato poco tempo in treno e molto a spasso. Ho camminato a ora centonovantanove chilometri in tredici giorni, certo spesso chiamando a raccolta parecchi santi, ma non male stanti le condizioni, al dottore ne dirò molti molti meno, mah, qualche chilometro al giorno.
La parte d’Europa che ho visto, la Francia orientale e la Germania sudoccidentale, è oggi alle prese con una pandemia che nessuno immaginava e che oggi, alla seconda estate, mi pare penetrata più a fondo di quanto potremmo dire. Niente feste dentro o attorno alle città, ne ho visto una sola a Metz e piuttosto tiepida, niente bancarelle in giro, tranne qualche bratwurst o libri, niente fiere, niente luna park. Pochi turisti o, meglio, nessun pullman e presumibilmente solo turismo interno o quasi, ho sempre trovato facilmente dove dormire e con grande scelta, ho sempre mangiato in posti semivuoti o quasi. Comodo, per carità. Nei centri storici ho sempre trovato persone a passeggio o in giro, nei parchi principalmente, ma nessun classico dell’estate, come gruppi a tirar tardi in piazza o sugli scalini di qualcosa o ragazzi e ragazze a far gruppone.
Appreso il meccanismo delle mascherine, dentro fuori, e ora anche quello del pass, è possibile fare molto, osservando alcune cautele. Ma anche le cose fattibili sono contingentate, ad esempio in molti musei sono ora obbligatorie le visite guidate e a gruppi molto ridotti, a volte cinque o sei persone. Non è raro vedere code, specie fuori dalle farmacie, ora più frequentate anche per i test rapidi, e quasi tutti gli alimentari ora lavorano più che altro da asporto. La relazione con gli esercenti avviene ovunque attraverso un pannello trasparente e indossando delle mascherine, per cui si tende a tagliar corto, a volte ci si sente appena.
Se anche sui mezzi pubblici ormai si è superata la pratica di vendere un biglietto ogni due, ciascuno tende a praticare il distanziamento in modo spontaneo, isolandosi, e di fatto rendendo praticamente impossibile ogni interazione casuale tra passeggeri. Difficile anche interpretare lo stato d’animo della persona che si ha seduta davanti, dai soli occhi. Ciò che una volta accadeva a ogni viaggio o quasi, iniziare una conversazione, qualche battuta, scambi di sguardi a volte, oggi è tutto azzerato. Si evita qualsiasi contatto fisico, figuriamoci i contatti occasionali di ogni genere con estranei in luoghi pubblici di passaggio.
Non ho quasi mai visto gruppi. Niente giocatori al campetto, niente gruppi di escursionisti, niente gruppi di amici a cena o tavolatone, niente piccole band a suonare per strada, niente, che so?, addii al celibato di ubriachi, niente partite al parco, niente picnic collettivi, niente concerti o spettacoli. Nuclei familiari, coppie, al massimo gruppi di tre e tutti distanziati tra di loro. Qualche suonatore di chitarra isolato per strada, più frisbee che pallone.
Se ovviamente ci metterò un minuto a smettere la mascherina e a dimenticarmene, non so quanto mi ci vorrà a recuperare il senso di intimità con gli estranei, non so nemmeno se accadrà. Già il mio era labile prima. Non so se le cose torneranno quelle di prima, nessuno lo sa, tra l’altro riflettevo sul fatto che se una volta potevo affidarmi agli incontri casuali in viaggio per incontrare persone e scambiare idee, oggi dovrei individuare e contattare prima, via rete, chi sarei intenzionato a incontrare in un determinato luogo, per stabilire prima un appuntamento. Per carità, era una pratica comune anche prima tra viaggiatori ma non era l’unica. A volte, arrivando in qualche città nuova, era sufficiente andare in alcuni luoghi di aggregazione riconosciuti, feste, luoghi specifici, persino sedi di partito, per dire, per stabilire dei contatti. In posti come la Baviera era sufficiente entrare in uno o due in un ristorante pieno che un posto al tavolo d’altri si trovava sempre. E la conversazione pure.
Oggi no, niente di questo è possibile. Avendo una casa, un divano, un TV color da ottanta pollici e sette abbonamenti streaming, la cosa si tende a sentirla di meno. Ma essendo in giro, tutto diventa più palese e concreto, il distanziamento è diventato abitudine, non so dire quanto conscia o meno. Ed è impossibile dire ora quanto ci sia, collettivamente, entrato dentro. Anche se, abbastanza ovvio, nelle grandi città è un pochino diverso, a Monaco o a Lione il distanziamento si percepisce meno, il vuoto è meno evidente, è chiaro, tutto pare più simile a prima.
Quella che ho visto è anche una delle parti più ricche d’Europa. E, per carità, nessun segno di crisi grave ma, non c’è dubbio, alcuni problemi sono evidenti da un po’ e la pandemia ne ha di certo accelerato i processi. A parte le difficoltà del comparto turistico, legate perlopiù agli ultimi due anni, i negozi chiusi, gli appartamenti sfitti o in vendita, la riconversione di ampie zone non più produttive, la scarsa mobilità sociale, la disparità sempre più marcata tra le fasce sociali, la mancanza di lavoro, l’integrazione, la crisi di un modello statale presente in tutte le fasi della vita del cittadino, insomma senza farla lunga tutte le difficoltà che colleghiamo alla crisi del 2008 esistono e sono per buona parte ancora da affrontare. Anche qui, nelle zone centrali e più avanzate dell’Europa. È però incontestabile vedere che grandi passi avanti, per quanto forse ancora insufficienti, sono stati fatti nella cura ambientale, ottimi progressi dal punto di vista della qualità diffusa della vita, del funzionamento dei servizi pubblici, anche se sempre più appaltati a privati, del recupero e della messa a disposizione del patrimonio culturale, di un benessere un po’ più diffuso, anche se sperequato.
È fuori discussione che l’Europa unita, oggi, nasce e si sviluppa dal confronto e dalla collaborazione tra Francia e Germania. Può non piacere ma è un fatto, come raccontavo qualche giorno fa si stanno sperimentando già forme di governo comune sovranazionale, il dibattito e la sperimentazione sulle energie è vivace perché su due fronti opposti, la conversione dell’industria più rapida, la politica volta più all’apertura che alla chiusura.
Mi è difficile valutare da qui la qualità del dibattito politico francese o tedesco, non ne ho i mezzi né avuto il tempo, ma è certamente più facile valutare quanto distante e intorcolato su sé stesso sia quello italiano. È innanzitutto un dibattito quotidiano e perenne, cosa sconosciuta altrove, che genera una spinta alla sovraesposizione a tutti i costi della classe politica e degli opinionisti davvero tossica e insalubre per la politica stessa, oltre che per la sanità del dibattito e degli ascoltatori. Noi stessi tendiamo a rilanciare gli argomenti, a farne discussione, a dare respiro a ciò che non dovrebbe averne. C’è poi poca distinzione tra il politico valido, l’argomento coerente su solide basi e l’intervento d’occasione per guadagnare le prime pagine, o tra il tecnico competente e l’influencer, di fatto poi tutta la discussione risulta essere senza capo né coda, inconcludente. Peraltro in modo isterico, nel senso che a un certo punto un argomento diventa centrale e urgentissimo, se ne dibatte alla morte per giorni e poi sparisce di punti in bianco dall’agenda, per non riapparire più. Ciò che pare da qui è un paese chiuso in sé stesso, preso a discutere argomenti propri, dal reddito di cittadinanza al ponte di Messina a quota 100 a masterchef, e che è poco interessato a ciò che avviene fuori e a partecipare a un dibattito più alto, più ampio. Non arriva eco, qui, di ciò che avviene in Italia, è comunemente ritenuto, a torto o ragione, un paese immobile, fermo a ciò che lo ha caratterizzato decenni fa, fatto di piccole cose. Oggi Draghi è noto per meriti europei, ma Conte, uno e due, nessuno sa chi sia né ne ricorda alcun contributo. Qui si parla molto di come affrontare l’atteggiamento della Cina nei confronti del mondo, la politica dell’investimento continuo in infrastrutture per garantirsi approdi e materie prime ovunque, da noi io ricordo una fregnaccia tremenda di Di Maio che vendeva al pubblico un accordo inesistente. Poi per carità, con tutte le lentezze e indecisioni del caso, nulla da ridire, ma qui la sensazione è di essere un pochino più al centro delle cose, per quanto un centro anch’esso periferico rispetto allo sviluppo attuale.
Finita la tirata della sociologia da sottoscala, c’è poi c’è il mistero dei telefoni, ogni volta. In quindici giorni ho sentito suonare tre volte un telefono, e una era il mio. Non solo, avrò visto cinque volte qualcuno parlare al telefono in pubblico, una volta ero sempre io, e quasi sempre all’aperto, raramente in un luogo chiuso – escono – e mai in treno o in pullman. Mistero. Hanno meno da dirsi di noi? Sono meno impegnati? Sono inconsapevoli delle urgenze? Forse non hanno i telefoni mobili? Ma anche l’uso del telefono stesso, intendo navigare o giocare o altro, in molte occasioni ero l’unico a usarlo, perché scrivevo il minidiario. In questo secondo uso, chiaramente, c’è qualche differenza generazionale, i più giovani lo usano di più. Ma per le telefonate è lo stesso. Se si vede una persona parlare al telefono camminando per strada, o è italiana o spagnola, non si scappa. Resta un buon mistero che eviterò di risolvere di fronte a una buona birra.
Sono a Monaco e vedo i primi italiani da quindici giorni a questa parte. Sì, siamo riconoscibili, anche se pensiamo di no. Ho appena visitato la Residenz, sontuosa, e domani tornerò al museo della scienza, colossale e consigliato. Ma domani è svago, niente minidiario, è l’ultimo giorno. Per cui, chiudo qui.
Grazie a chi ha avuto la pazienza e la costanza di seguirmi, grazie a chi me l’ha detto e a chi mi ha fatto i complimenti, che apprezzo di cuore, e soprattutto a chi mi ha detto di essersi almeno un po’ divertito, quello era lo scopo. Grazie a chi, pochi, ha rotto la quarta parete e ha partecipato, è una cosa che nei blog si è persa ed è un peccato, secondo me. Comunque, io sono qui, più o meno sempre, se riesco a breve riparto.
In generale, i riscontri a questo tipo di racconti sono davvero rari, e così è stato anche stavolta. Chiaramente, da parte mia c’è un po’ di rammarico, nel senso che non ricevo quasi nulla in direzione contraria, ovvero non c’è scambio, quindi che di là ci siano zero o milioni di lettori per me non cambia, da questo punto di vista. Ma è così, io mi sono divertito e, quindi, grazie a chi è arrivato fin qui, nonostante tutto.
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Ieri sera, mentre uscivo da un posto, un tizio abbastanza giovane mi ha apostrofato con un tono leggermente superiore al necessario, dicendo una cosa che io ho recepito così: “kvhnnchfk kjffdfdvnbv mask kbbbvhhgbv’. Più o meno. Io la mascherina la indossavo, uscendo da un luogo chiuso, lui no perché già all’aperto. Lì per lì non ho capito se mi stesse facendo una battuta complice sulla noia delle mascherine o se, invece, fosse un negazionista e ce l’avesse, chissà perché, con me e il mio dispositivo di protezione individuale. Mah. Gli ho fatto un mezzo sorriso (ma da dentro la mascherina, mi sono reso conto poi) e ciao.
Stamattina, ripensando al fatto che ieri alla Residenz mi hanno fatto acquistare la ffp2, ho cercato un attimo e ho scoperto, mea culpa, che in effetti in Germania è obbligatoria non solo la mascherina ma dev’essere anche una ffp2. Che io ho solo da ieri. Osservo. Nove persone su dieci ce l’hanno, sono stato in difetto finora. E se il tizio di ieri ce l’avesse con me per la mia mascherina chirurgica? Impossibile saperlo, ormai. Spero di rivederlo al fight club martedì sera.
Prendo il treno per Norimberga, scendo a Bamberga, che ha quel meraviglioso municipio affrescato sul fiume, cambio e vado in Alta Franconia, a Coburgo. Esatto, se vi dilettate di dinastie, quella.
Oggi principi senza vescovi. Cerco di farla breve ma son secoli. I Wettin sono una casata che ha governato la Sassonia per otto secoli e il loro principe elettore è spesso stato il più potente di tutti e sette. Come nel caso di Lutero, quando fu bandito dalla dieta di Augusta, fu ospitato qui, nella fortezza di famiglia per poter completare tranquillo la traduzione della Bibbia in tedesco, alla base della riforma protestante. Nemmeno l’imperatore, ed era Carlo V!, poteva mettersi contro il principe di Sassonia. O non gli conveniva, diciamo. Comunque, a metà del Cinquecento, Coburgo divenne la capitale del ducato di Sassonia-Coburgo ed è così che un ramo della famiglia, sono un milione, diventò celebre in Europa con il nome del ducato, più precisamente i Sassonia-Coburgo-Gotha. Un grande castello, una fortezza imprendibile, anche qui, e necessità di intessere relazioni ed alleanze per consolidare il potere acquisito. E così fu, con una tale abilità che elementi della famiglia divennero reali del Belgio, Leopoldo I e lo sono tutt’ora, di Bulgaria fino al 1946, principi consorti del Portogallo e imperatrice consorte del Messico e così via. Ma il vero colpo politico fu il matrimonio tra il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha e la regina Vittoria d’Inghilterra, poi imperatrice. Erano cugini, la madre di lei era una Sassonia-Coburgo-Saalfeld, appunto. I loro nove figli furono tutti accasati in case reali europee, persino in Russia, portando i Wettin ovunque. Tant’è che, appunto, regnano ancora in Inghilterra, Belgio e Svezia, con Carlo XVI Gustavo di Svezia, figlio di Sibilla di Sassonia-Coburgo-Gotha. È nel 1919 che in Inghilterra hanno cambiato nome in Windsor, pettegolezzo, da Hannover e Sassonia-Coburgo, dopo i pessimi risultati dei tedeschi nella prima guerra mondiale. Fatto bene, visto poi.
Se a qualcuno oltre a me è capitato di vedere Victoria, la serie tv dedicata appunto alla regina Vittoria, con una brillante Jenna Coleman come regina ma con un ancora più brillante Alberto (Tom Hughes, è una serie molto ben fatta, se piace il genere, a livello di the crown), allora colui o colei sa che non solo fu un matrimonio molto felice ma anche proficuo per l’Inghilterra, perché Alberto fu un sincero innovatore entusiasta delle novità del tempo, dal treno alla libertà di stampa all’equità negli stipendi, amante dell’arte, fu promotore dell’esposizione universale di Londra del 1851, piena di innovazioni tecnologiche, tra cui il cesso. Il water closet da casa, dentro. Come il nostro. Fece il principe consorte, ruolo non facile, sopportò un certo fastidio antitedesco diffuso in Gran Bretagna e quando capì che sarebbe morto giovane, quarantenne, invitò Vittoria a non fermarsi, a continuare a innovare, a non portare il lutto e a non costruire mausolei in suo onore ma vie di comunicazione. Lei fece tutto il contrario, quarant’anni di lutto, mausolei e statue, ed ecco l’età vittoriana in tutto il suo costume lugubrino.
Uff, ce l’ho quasi fatta. Chiaro che Alberto sia la figura più rappresentata qui a Coburgo, anche il castello nell’Ottocento ha preso forme simili al gotico inglese e nella piazza davanti fu costruito un teatro che pare di essere a Londra. Io sto prendendo un cappuccione alla pasticceria principe Alberto e un po’ tutta la faccenda qui si regge sulla storia della famiglia. Collateralmente, siccome per alcuni decenni il pittore di corte del principe di Sassonia fu Lucas Cranach il vecchio, a me è capitata la buona sorte di vederne credo un’ottantina tutti in una volta sola. Bel colpo.
Coburgo è una città medio-piccola, graziosa, in una conca tra le colline boscose, è piuttosto accogliente e ha una certa consuetudine con il turismo, sebbene perlopiù interno. Infatti, e la cosa mi stupisce, l’inglese non è patrimonio diffuso, anzi, spesso faccio bella figura io il che è abbastanza raro. La visita al palazzo di Ehrenburg dei Sassonia-Coburgo, guidata in modo obbligatorio, si è svolta tutta in tedesco, e non ne sono previste in altre lingue, per cui dopo la quindicesima volta in cui ho sorriso alla guida con espressione di chi ben comprende, ho smesso e ho cominciato a guardare in giro per fatti miei, non temendo più di risultare maleducato. Un bel palazzone, imponente, con una magnifica sala barocca dei Giganti, ma diciamocelo: non bisogna guardare gli stucchi da troppo vicino o gli intarsi o i quadri, perché senza andare ai re un palazzo Colonna di Roma, dal punto di vista della perfezione delle decorazioni, è davvero molto molto distante da qui, inarrivabile. Non a caso quando qui volevano fare le cose fatte bene, tra Cinque e Settecento, chiamavano qualche italiano, la questione era, serenamente e senza rancore, impari. Poi diventò di moda lo stile Impero con Napoleone e, allora, buonanotte, chiamavano tizi da Parigi.
Sebbene non sia una buona idea per i miei arti inferiori, ascendo l’ennesima fortezza, questa ancora più inespugnabile di quella di ieri. E infatti così fu. Nel 1635, dopo cinque mesi di assedio durante la guerra dei trent’anni, il generale Guillaume de Lamboy, al comando degli assedianti, si presentò al portone con una lettera del duca di Sassonia, che ingiungeva di consegnargli la fortezza. Così fecero. Ovviamente la lettera era falsa come un de Chirico d’autore e come si dice? Ne uccide più la penna che la spada, e anche stavolta il detto disse il vero.
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Le piccole gioie della vita, sorseggiare un cappuccino da tre quarti di litro la mattina presto osservando la pioggia fuori dalla stazione di Karlsruhe, mentre nelle cuffie suonano Huligani dangereux e They are all in love, decidendo se andare di qua o di là. Di là. Poi parte 9 to 5 cantata da Dolly Parton, che racconta ovviamente del lavoro d’ufficio, e a me pare tutto così distante e così difficile passare una giornata intera seduto su una sedia. Eppure l’altro me lo fa.
Non ho menzionato ieri sera, preso dall’entusiasmo per il Carlstello, la magnifica usanza bavariana di lasciare sul cuscino gli orsetti gommosi, invece di quei cioccolatini sdolcinati o del niente che spesso c’è. La Haribo è di Monaco, lo ricordo, la sua influenza è quindi grande, iddio li benedica. Gli orsetti, essendo frutta, sono un ottimo alimento, come si sa vanno in letargo nel colon e costituiscono la base della colazione dei campioni. Che non è, svelo un grande segreto, il pasto più importante della giornata.
La mia colazione si completa con un buttercroissant, allo scopo di annegare l’antidolorifico, e con il treno per Amburgo. Ma io non vado fin là, anche se Amburgo vale sempre il viaggio, cambio molto prima.
In Germania in questi giorni si sta assistendo, come in molti paesi, al rallentamento del ritmo della campagna vaccinale, nonostante le percentuali raggiunte non siano ancora quelle auspicate. Si comincia a parlare, per la prima volta, dell’introduzione di obblighi vaccinali per determinate categorie, a partire da ottobre, mettendo dunque da parte l’approccio usato finora, la cosiddetta ‘spinta gentile’. La spinta bella forte nel burrone, altro che gentile, questi sono de coccio.
Una cosa che qui ancora fanno, dall’anno scorso, è far compilare il modulo per il tracciamento a ogni ingresso, che sia museo o birreria, non so se come consuetudine o se abbiano, ne dubito, una procedura complessiva che funziona. Sarà, son tedeschi, che hanno lì i moduli.
Nei Lander in cui mi sto muovendo io, Renania-Palatinato, Baden-Württemberg e Baviera, per secoli la consuetudine del governo è stata quella dei vescovi-principi. Ovvero, un vescovo cui, oltre al potere spirituale, è affidato anche quello temporale, su una giurisdizione che non coincide per forza con quella della diocesi. La figura era molto diffusa in tutto il sacro romano impero e non solo. Il modello, dunque, delle città da qui a Vienna è più o meno sempre lo stesso: duomone, palazzo vescovile di rappresentanza a fianco, palazzo in città per le delizie (giardino all’italiana, alcove a go-go per amanti, stanze per figli), fortezza ben munita su colle sovrastante. Perché al primo accenno di casino, ciao. Ora: io non ho alcuna simpatia né per i principi né, tantomeno, per i vescovi. Quando poi le due figure coincidono il mio grado di apprezzamento va alle stelle, li gradisco molto. In questo senso, una cosa di cui sono grato a Napoleone è aver spazzato via tutto questo, rinnovando in tutta Europa la classe dirigente, modernizzando gli apparati statali ed eliminando privilegi feudali davvero anacronistici. Certo, poi faceva ricreare i cavalli nelle chiese ma si sa, le rivoluzioni pranzi di gala eccetera. Non si sottolinea mai abbastanza, secondo me, quanta polvere la rivoluzione prima e le campagne napoleoniche e risorgimentali poi abbiano tolto dal vecchio continente, ideologicamente e concretamente. Gli stessi indipendentisti americani scrissero la loro costituzione dicendo a gran voce ‘basta prìncipi’, riferendosi ovviamente a noi.
Anche a Strasburgo era così, per dire, lo stemma attuale della città, bianco e rosso, è il risultato dell’inversione dei colori dello stemma del vescovo che aveva governato la città, per chiarire la caduta e il passaggio di potere. Per fare un cenno contemporaneo, il papa è l’esempio più evidente di vescovo-principe ai giorni nostri, i due poteri uniti, anche se a noi arriva principalmente quello spirituale, per i non addetti alle cose vaticane. Ma c’è anche quello temporale, oh eccome!, basta seguire le vicende degli ultimissimi mesi che riguardano i cardinali Pell e Becciu e il dibattito processuale, molto interessante, sul concetto di teocrazia e sul diritto papale di cambiare a piacimento ogni categoria di legge, anche quelle che regolano i procedimenti penali. Vabbè, ci siamo capiti, non vorrei divagare oltre.
Varco il fiume, cambio a Francoforte e vado in una delle città più esemplari da questo punto di vista, intendo dei vescovi-principi, Würzburg.
Principato eccelsiastico, fu feudo per secoli della famiglia degli Schönborn, uno dei quali all’inizio del Seicento fu prima chierico, poi prevosto e poi principe-vescovo di Würzburg, per poi diventare arcivescovo di Magonza. La dinastia è secolare e piazza vescovi, cardinali e principi in ogni dove, sfruttando la contiguità tra regione cattolica e potere che in buona parte d’Europa governa da secoli. Certe cariche vengono trasmesse in maniera ereditaria all’interno delle famiglie di questo tipo ancora oggi, l’arcivescovo di Vienna è uno Schönborn, cardinale, toson d’oro, amico e figlio spirituale di Ratzinger, ha sfiorato il soglio un paio di volte ma grazie a dio non ce l’ha fatta, viste le improvvide affermazioni, tra le altre, su disegno intelligente e le critiche alla ‘teoria’ – dice lui – darwinista e all’abdicazione dell’intelligenza. Lui intende i darwinisti ma io penso alla sua.
Seguendo il Meno, esco dalla fossa renana per la Bassa Franconia, oggi c’è brutto tempo e complici i boschi fitti fitti pare di essere più in alto e a novembre. Poi cambia, Würzburg è a circa duecento metri sul livello del mare, è media, centomila abitanti, attorno sono tutti vigneti e ha tutte le cose che dicevo prima, legate alla figura del vescovo-principe. Persino davanti alla stazione c’è una fontana con inclusa statua di un vescovone. Li riconoscete perché sono quelli con la spada, ossia il potere terreno. Io punto la residenza, barocca, perché ha un paio di soffittoni enormi affrescati dai Tiepolo, un paio anche loro, padre e figlio. Oh, roba da manuale di storia dell’arte, mica piccolezze locali.
Prima di entrare, oltre al pass e al biglietto, mi viene richiesto di indossare una mascherina ffp2. Non possedendola, è stato possibile acquistarla in biglietteria. Questa mi è nuova, fossimo in Italia sospetterei subito di un appalto truccato per smerciare le mascherine eccedenti di Irene Pivetti.
La residenz è un palazzone barocco abbastanza grande costituito per la grande maggioranza da una lunga teoria di salotti e salottini stuccati d’oro o, novità del luogo, d’argento su sfondo nero, roba sobria, e qua e là una camera da letto di buone proporzioni. Ma ciò che sconvolge è lo scalone monumentale: il soffitto è tutto affrescato per quasi 670 metri quadrati – il più grande affresco da soffitto al mondo – dall’Omaggio del mondo al principe vescovo di Tiepolo, grandiosa rappresentazione dell’Europa, glorificata al centro assieme alla diocesi di Würzburg come centro di tutte le arti. Ai lati tutti gli altri continenti, caratterizzati da animali e copricapo tipici. È di grande bellezza, oltre a tutto, perché Tiepolo non riempie gli spazi ma lascia ampi scorci di cielo, senza appesantire l’insieme. E il cielo è un meraviglioso cielo all’alba o al tramonto, azzurro-rosa tenue. Anche il soffitto della kaisersaal è tutto affrescato da Tiepolo con la Storia della diocesi di Würzburg, con la rappresentazione di alcuni episodi remoti della storia locale, e anche questa è una saletta imperiale da quattrocento metri quadri. Ora, oltre all’aspetto estetico indiscutibile della faccenda, che già basta, è difficile anche solo intuire la difficoltà tecnica di una tale realizzazione. Provate a disegnare una robaccia su un foglio sdraiati, poi provate a farlo a 23 metri di altezza su un’impalcatura ballerina per più di mille metri quadri e per di più ad affresco e poi, magari, ne riparliamo. Oltre a tutto con il problema della velocità e della giornata, tipici dell’affresco. Tiepolo ci mise quattordici mesi, lasciando anche un paio di pale d’altare e qualche quadretto d’occasione, evidentemente nel tempo libero.
Io una fotina di sfroso l’ho fatta e la metto ma non ha molto a che vedere col reale, solo per dare un’idea.
Ecco, poi Würzburg è proprio graziosa, la somiglianza con Heidelberg e, non volevo dirlo ma tocca proprio farlo, Salisburgo, impressionanti. Lo è anche la fortezza inespugnabile che sovrasta la città, prima residenza dei perfidi vescovi. I quali, poi, sono tutti intombati in fila nel pavimento della cappella che nemmeno in lady Hawke c’è tanta tracotanza di potere vescovile. Poi arrivò Gustavo Adolfo dalla Svezia e dimostrò l’espugnabilità della fortezza e bon, era tempo di trasferirsi in città e gestire le sorti cittadine con la politica.
E ora la storia giusta con cui chiudere oggi. Come tutte le città tedesche con il fiume, e quindi i ponti, e nella parte occidentale della Germania, anche Würzburg fu pesantemente bombardata. Sia per fiaccare il morale sia perché la diagonale sui ponti non era sempre precisa, gli alleati non badavano troppo alla mira, puntando più sulla quantità di esplosivo. Così, il 16 marzo 1945 su Würzburg si rovesciarono non so quante tonnellate di bombe, distruggendo l’ottanta per cento degli edifici del centro. Anche la residenz, certo. I soffitti di Tiepolo si salvarono miracolosamente ma crollò il tetto che stava loro sopra. Il soldato John d. Skilton, storico dell’arte e prima curatore della National Gallery di Washington, si rese immediatamente conto che i soffitti non avrebbero resistito alle intemperie dei mesi successivi e decise di intervenire. Spesso a sue spese e con tutte le difficoltà che si potevano avere nella primavera del 1945, riuscì a radunare falegnami, muratori e soprattutto a trovare le materie prime, requisendo cartone catramato, per realizzare in molti mesi una copertura di fortuna dei due soffitti, così da preservarli per tempi migliori. Che sono questi, i nostri, nei quali possiamo vedere gli affreschi e godere di tanta bellezza senza doverne rimpiangere la sciagurata perdita. Non fosse stato per John d. Skilton, io di certo oggi non avrei raccontato ciò che ho raccontato e, anzi, nemmeno sarei venuto qui. Il soldato Skilton, come li chiamiamo oggi un monuments man, era cittadino onorario di Würzburg e degno del ringraziamento di ciascuno di noi. Compreso il fornaio all’angolo, che oggi vende panini grazie ai vescovoni e a Tiepolo. Stasera, per quanto mi riguarda, un brindisi a Skilton.
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Mi preparo al salto del Reno, vado di là. Una volta, mondi profondamente diversi, forse ancora oggi per certe visioni generali, quasi del tutto identici se visti da vicino, son pochi chilometri, la cucina si assomiglia, le case pure. Non so i dialetti, le lingue no. Infatti, di là so a malapena dire di non gettare oggetti dai finestrini per cui si torna all’inglese e agli ordini un po’ tirati a caso al ristorante.
Ma son due paesi diversi, regole, abitudini diverse. In Francia, per esempio, se cammini sulla pista ciclabile ti evitano e al massimo sbuffano, in Germania sei a un pelo dalla fucilazione su pubblica piazza e ti vengono pure addosso. Anche le tariffe dello stesso treno sono diverse, per SNCF e DB. Politiche di viaggio diverse.
Sì sente che il confine, comunque, è vicino, compaiono con frequenza certi tizi (e tizie) grandi e grossi e con dei fucili automatici grossi così, che girano per le stazioni e sui treni che scavallano. Se son blu, son tedeschi, i francesi son camuffati. Non che facciano controlli o altro, si fan solo vedere. E non è un bel vedere, a parer mio.
Faccio un ultimo giro per Strasburgo mentre mi preparo al salto, mi spiace andare via. La mia verifica personale della città è andata bene, in centro c’è anche un negozio che affitta travestimenti e vende scherzi, di più non potrei volere da una città. Faccio un giro in libreria, compro la cartina dell’Alsazia e della Lorena – lo so, ma ho anch’io la mia età e resto fermo a certi vizi – e dò un’occhiata ai libri, alla Librairie Kléber, come le altre volte. Per stare alle cose nostre, l’unica novità letteraria italiana, che non stia cioè negli scaffali della letteratura consacrata, è Elena Ferrante e la fascetta mi fa molto ridere.
Niente Italia nell’attualità politica o nelle biografie (spiace, Meloni) o nella saggistica in vista, credo di non dire nulla di inaspettato o di offensivo se dico che siamo un paese abbastanza marginale. Te credo, se poi il nostro ministro degli esteri segue la crisi afghana dalla spiaggia e qui si interrogano su come portare via le persone da là. Ma tranquilli, siamo pur sempre importanti per il cibo, urrà, come si può apprezzare da questo volumone in bella vista appena entrati. A posto, allora.
Passato il Reno, un controllore di DB affiancato da un militare armato fino ai denti controlla con attenzione i pass sanitari o i certificati e fotografa tutti i documenti, verificando anche qualcosa che non capisco. E sì che in Germania non hanno grossissimi problemi di contagi o, anzi, forse è proprio per quello che controllano con attenzione. Ovviamente c’è un problema con una donna nera con bambino, il biglietto ce l’ha, non capisco se il punto sia sanitario ma controllore e soldato paiono calmi e leali, lei non sembra spaventata ma in qualche maniera la fanno scendere. Il treno risale il fiumone e prende la linea che ho fatto tante volte, per Francoforte, Wiesbaden, Magonza, Mannheim, Heidelberg, Worms. Non sono però mai stato a Karlsruhe, lì in mezzo e, dunque, è lì che vado. Ma non è che ci vado perché manca all’album e basta, c’è una cosa che voglio vedere: la città in sé. Karlsruhe è una delle ultime città ideali costruite su un’idea e la forma della città è tutta da vedere.
Fino al 1715, la presenza umana in zona si era limitata a un paio di fornaci romane per la cottura dei mattoni e poco altro, mica per pigrizia ma perché qui si è in piena fossa renana, il che fa certamente sì che sia una delle zone più calde della Tedeschia ma anche che vi sia un’umidità d’estate che la stessa pro loco definisce ‘opprimente’. I certi chiamati Romanes non ci hanno pensato un attimo a evitare la zona, e anche l’homo heidelbergensis è andato più su. Nonostante ciò, nel 1715 Carlo III Guglielmo, margravio di Baden-Durlach, decise di costruire qui il suo palazzo e, di conseguenza, una città. Sognò un sole, raccontò, che irradiava raggi da ogni direzione e questo lo ispirò: fece costruire un palazzo con al centro una torre dalla quale si dipartono trentadue strade, a sud, e viali a nord nel bosco, per tutta la circonferenza del perimetro. Magari accludo incisione del 1721 che si capisce meglio.
Ma non si fraintenda tutta la faccenda del sole e dei raggi, non è tutto culto personale del margravio. Certo, è dal principe che certe illuminazioni provengono, ma Carlo III propugnò valori come la libertà personale, la libertà economica, l’uguaglianza davanti alla legge, la partecipazione politica che avrebbero caratterizzato epoche ancora da venire, si fece anche promotore di una costituzione avanzata che tutelava la libertà e la dignità dell’individuo. Mica poco. Certo, poi tutto qui era un po’ a sua misura, tutto si chiama Carl-qualcosa, d’accordo, c’è il Carl-lago davanti al Carl-bosco, e la Carl-piramide e appunto Karlsruhe. Mi ricorda quella vignetta di Quino in cui tutti gli abitanti della città hanno la faccia del fondatore, di cui si vede la statua.
Certo, una volta visto il Carlstello e le geometrie attorno non è che ci sia poi moltissimo da vedere, in fin dei conti tre secoli fa qui era davvero tutta campagna, signora mia, ma la città non è irrilevante di suo: sede di tutti i dipartimenti della giustizia federale tedesca, è un polo tecnologico importante, la prima email tedesca partì da qui, c’è persino il KIT (Karlsruher Institut für Technologie) ed è riconosciuto il ruolo della città nella spinta all’integrazione europea. Anacronisticamente, in centro tra la Carl-stazione e il Carlstello c’è un enorme Carl-zoo, come se ne facevano tanti una volta nei parchi dei monumenti cittadini. Mah, sembra una cosa così datata, è pur vero che è pieno pieno di bambini contenti ma insomma, dalla recinzione vedo un pezzo pieno di bambi e di giraffe e non è che metta tutta questa allegria.
Mi scrive l’albergo ma di solito non leggo nulla, tanto sono comunicazioni standard. Quando ci arrivo, è tutto spento, non c’è nessuno, nessuna luce, suono il campanello e niente. Vabbè, mica sono uno che si agita, valuto alcune opzioni tra cui leggere la loro comunicazione: a causa del Covid, blablabla, check-in automatico, blablabla. Mi accorgo di avere a fianco una specie di bancomat che mi guarda, seleziono una lingua non-tedesco e non-ubanji primordiale, ella desidera prima fare una scansione del mio documento, agevolo, e poi da sola collega il documento alla prenotazione, mi magnetizza una chiave e me la consegna, con ricevuta. Beh, grazie, macchina. Entro ed è deserto. Potrei, che so, dare via le camere gratis, farmi cinquanta caffè al bar, correre per le scale urlando, invitare degli amici, Carlo, Carlo e Carlo. Ma poi non faccio niente, se no sarei sempre il solito italiano. Ma son proprio solo nell’otello.
Poi vado a cena e tutto è come lo avevo lasciato: vai all’ora che vuoi, birra che non devi dire altro, piatto del birraio, insalata allato, siediti dove ti pare, trenta secondi netti e tutto è come deve.
Non lo so, amici, perché son stato lontano così tanto, sono un pazzo, amici, non lo farò mai più, mai più.
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Primo giorno con cielo nuvolosetto, vado a Strasburgo. D’altronde, essendo stato in Lorena era un po’ d’obbligo andare in Alsazia. Non per me, per loro, per non fare differenze, per non scontentare nessuno.
E poi è un buon passaggio per il di là, ciò che sta a est del Reno.
Ma prima, questo.
È la sala d’aspetto della stazione di Metz. Ci sono seduto ora, mentre scrivo queste due cose, in comoda poltrona. Ci sarebbero anche i tavoli, illuminati e con prese elettriche a iosa.
Sia chiaro, non è che tutte le stazioni francesi siano così, non lo sono, ma è l’approccio generale a essere radicalmente diverso: qui la stazione ti accoglie, si presume giustamente che, magari, ci dovrai passare del tempo, quindi ci sono posti per sedersi, servizi, comodità, va detto che non sempre c’è un bar o un’edicola ma quasi. Ed è un posto pulito e soprattutto aperto, chiunque vi può entrare e accomodarsi, anche senza biglietto. Un signore cui con evidenza manca la casa sta mangiando un panino tranquillo in una poltrona in fondo, come è giusto che sia. Oh, intendiamoci, un paio di tizi grandi e grossi di SNCF Sécurité che girano per la stazione ci sono ma non fanno discriminazioni per aspetto o censo, puntano chi fa casino. Se ne può discutere, certo, non è che da noi i poliziotti non ci siano.
Se, come sto facendo io, fate un veloce paragone con la stazione della vostra città o che frequentate, l’aggettivo che viene in mente è, direi, ‘impietoso’ nella maggior parte dei casi. Ora, non sarò certo io a fare l’apologia dei franzosi o, men che meno, dei tedeschi, non ci penso proprio. Invidio loro, però, un certo qual funzionamento di base, le cose elementari del vivere civile, né di destra né di sinistra, che dovrebbero essere ovvie ma che da noi non lo sono. Stazioni, appunto, mezzi pubblici, parchi, piazze, panchine, informazioni, servizi pubblici, pulizia delle strade, manutenzioni, gente che si ferma alle strisce, piste ciclabili vere, parcheggio non selvaggio, cose così, niente di difficile. Poi, magari, se in Germania sbagli una firma su una pratica ti deportano, certo, ma a servizi di base tra loro e i francesi sono un bel po’ più avanti di noi. E io, confesso, li invidio parecchio.
Strasburgo, dicevo. Un’altra cosa, prima. Anche la Francia ha puntato sull’alta velocità, per cui i TGV sono belli e comodi, il costo più o meno simile ai nostri. Il trasporto locale è demandato ai dipartimenti, diciamo alle regioni, per cui la maggior parte delle volte capitano dei regionali belli e nuovi, talvolta scadenti e decisamente da ravvivare. Ci sono poi gli intercity, loro li hanno ancora, che essendo sovradipartimentali fanno mediamente schifo. Sono i nostri vecchi intercity, intendo i vagoni, esattamente ancora quelli, con le tendine luride. Esistono però gli intercity privati: costano meno, ma parecchio, sono piuttosto belli, fanno tratte dirette e non sono presenti in tutto il paese. Cioè tutto quel segmento che da noi è sparito e, lo ricordo bene, che qualcuno ha provato a riproporre, prontamente ucciso in culla da Trenitalia. Vado a memoria, qualche anno fa un imprenditore piemontese aveva presentato un progetto per una linea intercity tra Torino e Milano, mi pare, il cui biglietto era una cosa tipo sei, sette euro, e vaneggiava addirittura di un minimarket sul vagone per i pendolari tardivi. Naturalmente Trenitalia pose tante e tali condizioni, il treno avrebbe dovuto metterci più di un’ora e mezza, fare almeno sei fermate, il biglietto costare più di quindici euro, nessuna corsa in determinati orari, che l’imprenditore abbandonò il progetto. Poi, in cabina elettorale, tutti liberisti, eh? Nel frattempo, qui fuori è così.
La mia amabile compagnia telefonica mi ha appena avvisato, dopo solo nove giorni, che sono in Francia e che posso effettuare telefonate alle stesse condizioni di casa. E mandare anche SMS. Grazie, tempestivi, proprio ora che esco.
Strasburgo è una delle città in cui vivrei subito, senza condizioni (sono qui per verificare ancora, le altre sono Monaco di Baviera e, con qualche riserva in più, Lione). Primo perché è una città magnifica, ricca di storia e moderna, vivace culturalmente, è sede per dire di ‘arte’, il canale culturale franco-tedesco, miscuglio e via di mezzo tra francesi e tedeschi ed espressione diretta dell’Unione Europea con il parlamento, tradizionale con i quartieri sui canali e con le case a graticcio e i palazzi rinascimentali, oltre a una cattedrale gotica colossale, contemporanea nelle istituzioni e nei settori produttivi. Si sta inoltre ragionando (cioè, stanno, mica noi) su una possibile amministrazione sovranazionale congiunta per la zona di Strasburgo e, di là, dell’Ortenau, il primo Eurodistrict. Se non è emozionante questo, non so. Poi perché è in una posizione comoda, al centro di parecchie linee veloci, per cui è possibile raggiungere con facilità buona parte dei luoghi d’Europa. Mica poco, tutto insieme. Dico questo per dire che ci sono già stato più volte e ogni volta ci torno volentieri, guardandomi attorno per individuare la casa in cui mi piacerebbe stare. Per cui, per il minidiario di oggi, per parlare dei canali, dell’europarlamento, di Goethe che si distrasse talmente il posto è bello, di tutto quanto, rimando a quanto ho scritto nel 2008, confermo tutto. Per chi ne avesse voglia, è qui, l’8 e il 9.
Io ne approfitterò oggi, a seconda anche di quello che accadrà poi, per raccontare alcune cose generali che non ho raccontato finora. Così, folklore e costume personale di piccolo cabotaggio. Chi non vuole, abbandoni qui, non mi offendo.
La questione della lingua.
Mi sono imposto, stavolta, di parlare francese. Che è una lingua che non possiedo nemmeno a livello superiore ma a quello delle medie, quindi male, ma che ci vorrà mai? Mica devo tenere conferenze contro la dittatura sanitaria o sul gotico radiante. E così è stato, ho recuperato le quindici frasi fondamentali, le cento parole imprescindibili e via, anche quando ci avrei messo cinque secondi a spiegarmi in inglese – e qui lo parlano tutti, pure meglio di me – niente, coriaceo, francese. A parte un giovane uomo a Reims che si è smarronato a fronte delle mie costruzioni incerte (ma secondo me era inverso per fatti suoi), è sempre andata bene. E ho imparato un centinaio di parole nuove, fino a guttes pour les yeux, quindi a questo ritmo dovrei riuscire a sostenere una conversazione decente in cinque anni. E ad avere una pronuncia che somigli meno a quella di un bonobo ubriaco di Réunion.
A margine della questione, era tempo che desideravo stare in un posto in cui non afferrassi la lingua, così da non captare nemmeno per caso le conversazioni altrui e azzerare il rumore di fondo su vaccini, green pass, leghisti e meloniani. Tra l’altro, così sembrano tutte bravissime persone.
La scrittura. Peggio delle ragazzine.
Complice l’evoluzione dei telefoni, ora è possibile con una certa comodità gestire dal telefono non solo le fotografie, il ritaglio, la diminuzione di peso, ma anche l’inserimento e la pubblicazione dei post su un blog, come accade a me. E, di conseguenza, anche la scrittura. Per la prima volta, quindi, invece di cercare una panchina a un certo punto della giornata e sedermi concentrato col portatile a scrivere tutto quanto, ho scritto man mano sul telefono, risistemando e pubblicando a sera inoltrata in camera col più comodo notebook. Ma il grosso l’ho fatto col telefono. Confesso. Come le autrici tipo quella di After, Anna Todd, bestseller scritto tutto col telefono, quadrilogia lunghissima, ecco: anch’io. Dopo averle derise, sono diventato come loro. Anzi, nemmeno, io di copie ne vendo zero. Il vantaggio per me è stato diluire il lavoro durante il giorno e poter scrivere man mano che mi venivano in mente le cose, lo svantaggio è stato certamente una qual perdita di sintesi, coerenza e omogeneità. Che dire? È comodo, altroché, e poi mi son portato due chili in meno in giro tutto il giorno, ordine del dottore. Ora digito velocissimo, come gli adolescenti.
I luoghi della scrittura.
Eh, potendo scrivere ovunque, ho scritto in treno, sotto le piante, sulle rive dei fiumi, in pullman, al bar, al museo, in stazione, in coda per un negozio, sui gradoni dei teatri romani e così via. Mai, mai, mai a letto, il mio papà avrebbe fieramente disapprovato. Ho scritto anche, lo confesso, occasionalmente durante qualche blanda crisi mistica sul fondo di qualche chiesa, ma solo se vuota. Perché, non vorrei essere irrispettoso, sono freschissime e si sta una meraviglia. Eh, lo so.
Di telefoni, frutta e calamite parlerò un’altra volta, altrimenti qui viene fuori una geremiade. Piuttosto, più importante. Mi son fatto la mia camminata di mezz’ora, un piccolo pellegrinaggio, al parlamento europeo.
Dieci anni fa si entrava liberamente, bombaroli stronzi. Comunque, dopo un piccolo controllo entro e faccio il giro dei visitatori. Ovviamente è deserto, è agosto, e io mi scuso mentalmente con tutti quelli che incontro per Tajani. Poi arrivo all’aula, quella delle plenarie, ci danno un’audioguida ma io non ascolto per davvero e penso a tutta quella merda nazista, a Praga, a Budapest, a piazza Fontana, al maggio francese, a Simone Weil ai cancelli di Auschwitz, a Ventotene, alla Resistenza, ai compagni cechi che uccisero Heydrich, alla guerra nell’ex-Jugoslavia, ai colonnelli greci, all’Algeria, alle olimpiadi di Monaco, alle BR e alla RAF, a Willy Brandt in ginocchio.
E a pensare di essere arrivati qui, lo confesso, mi sono commosso. Commosso per davvero. Sono orgoglioso di vivere in quest’epoca di unione, in cui un’idea è divenuta realtà, il mio animo è sinceramente grato alle donne e agli uomini che dopo tante tragedie e difficoltà ci hanno portato qui. All’Europa unita.
Veniteci. E portateci i figli, i nipoti, gli amici. E fanculo, inglesi.
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