La prima pagina della Wiener Zeitung, che chiude oggi dopo 320 anni, 10 imperatori e molte altre cose. Quello là va contato nei presidenti.
Il giornale più antico del mondo pubblicato continuativamente. La proprietà è dello Stato austriaco e per parecchio il giornale si è retto in piedi grazie a una legge ad hoc che rendeva obbligatoria la pubblicazione di annunci di interesse pubblico, di fatto garantendo la maggior parte degli introiti del giornale. Da aprile la legge è stata abrogata e così la Wiener Zeitung resterà solo sul web. Nei primi decenni della sua esistenza, il giornale si occupò esclusivamente di notizie relative alla corte austriaca e si chiamava WiennerischeDiarium. Una delle testate che ora aspira al titolo di giornale più vecchio del mondo è la Gazzetta di Mantova, fondata nel 1664 ma con altro nome, vale?, e poi chiusa a più riprese sia in epoca napoleonica che fascista. Difficile stabilire un criterio.
Molto molto molto più dispiaciuto (non più, perché di là non ce n’è, solo dispiaciuto) per la scomparsa di Francesco Nuti, memorabile con i Giancattivi. E oggi ingiustamente oscurato.
Lui, Benvenuti e Cenci costituirono un gruppo comico surreale di cabaré davvero spassoso, li ho molto amati in Ad ovest di Paperino, film che ogni tanto riguardo e me la rido. Lui, Nuti, fece poi cose sue, film e canzoni, con grande successo ma io preferivo la vena malincomica, come si diceva, di Benvenuti. Ma era bello averlo in giro, il Nuti. Sfortunato, sfortunatissimo, poi. “Scusi, mi da’ TuttoSport?”. “Ma se si da tutto a te a noi che ci resta?”.
Ha scritto ieri Alexis Petridis sul Guardian a proposito di Andy Rourke: “Rourke era dotato come bassista tanto quanto Marr lo era come chitarrista. Ascoltate attentamente i dischi degli Smiths, le prove sono tutte lì. Rourke aveva sviluppato uno stile complesso ma fluido, come diceva lui, per ‘compensare per eccesso’ il fatto che la band avesse un solo chitarrista. Nel brano Heaven knows I’m miserable now del 1984 o in The headmaster ritual dell’anno successivo, il suo basso e la chitarra di Marr s’intrecciano con una destrezza sorprendente. Su This charming man Rourke lavora in tandem perfetto con uno dei riff di chitarra più famosi nella storia del rock alternativo, trascinando la canzone”. Anche senza ascoltare attentamente. Accidenti.
Ma porcocane, Michela Murgia, che brutta notizia. Una persona intelligente, un’intellettuale per davvero che si interroga e non si tira indietro quando deve, una persona sensibile e interessata al contesto umano e materiale in cui vive, una donna che ha vissuto e vive molte vite, scrittrice, studiosa di teologia, operatrice in call center e così via, politicamente dalla parte giusta, ma porcocane. Noi, io, abbiamo bisogno di persone così, e anche i melonisti salvinisti menefreghisti, anche se pensano di no e sono incapaci di compassione. Michela Murgia, nome e cognome perché non ti conosco di persona, donna che sono sempre stato contento ci fossi anche se non ti seguivo da vicino e non sono mica d’accordo con te in buona parte delle cose, oh, che anche in questa occasione hai detto cose intelligenti e di cui c’è gran bisogno – no alle metafore di lotta e combattimento nelle malattie, per esempio -, Michela Murgia, ti auguro tutto il bene di cui sono capace, qualsiasi sia il tuo percorso sperando ovviamente nel meglio, e se mi verrà in mente qualcosa per essere più utile, lo farò.
«Può esserti utile sapere come riconosco io il fascismo quando lo incontro: ogni volta che in nome della meta non si può discutere la direzione, in nome della direzione non si può discutere la forza e in nome della forza non si può discutere la volontà, lì c’è un fascismo in azione. In democrazia il cosa ottieni non vale mai più del come lo hai ottenuto e il perché di una scelta non deve mai farti dimenticare del per chi la stai compiendo. Se i rapporti si invertono qualunque soggetto collettivo diventa un fascismo, persino il partito di sinistra, il gruppo parrocchiale e il circolo della bocciofila». (Da un post sul profilo ufficiale FB, 2 settembre 2017)
Per citarne una, a noi le teste così servono. Pensanti.
Caro C. sono al tuo concerto. Riconosco il tocco, la scelta saggia: posto centrale ma a lato, con spazio per le gambe. Non troppo vicino ma nemmeno lontano. Solo chi ne ha fatti tanti sa. E sempre sempre vicino a un’uscita, questa è proprio tua. Ne abbiamo fatti un po’ insieme, di concerti, questo lo considero tale.
Mi fa sempre sorridere che ti sia appassionato a questa musica pestona, parrebbe incongruo e, invece, la dice lunga sulla tua apertura di interessi e del tuo sguardo, anche in questo.
Sono fisicamente al tuo posto, stavolta, metaforicamente e moralmente anche, il fatto è ricco di significati e mi dice molte cose su di te, su di me, sul tempo e come lo usiamo, sulla cura e l’attenzione verso gli altri, sulle fortune che ho. E non è più il fatto di un concerto, non solo, diventa tutto più ampio e il pensiero corre a quel gran mescolotto che si allarga anche oltre i propri confini e che chiamiamo, in fondo e in qualche modo, vita.
Caro C., tutto il resto è una cosa tra te e me. Ma siccome non ti dispiaceva fare qualche giro da queste parti, specie per i miei minidiari, e commentare le mie cose con affetto e partecipazione, mi viene naturale dirne qualcosa qui. Bell’affronto, eh, i Dream theater che ti vengono sotto casa dopo tanti giri per inseguirli, vero? Ma saranno ben vigliacchi. Beh, quella sera a Villafranca d’estate comunque era stata proprio una meraviglia, quindi bene così. E che ridere la dormita al circo Massimo mentre Waters sproloquiava a non finire, belli scomodi per terra. Che belle cose abbiamo fatto, che fortuna. Ogni volta in cui sarò in giro per un concerto ci sarà sempre un bicchiere levato alla tua salute. Il pensiero no, quello è costante, ovvio che sarà anche lì. E i minidiari che devo ancora scrivere saranno un po’ dedicati anche a te, come se mi leggessi e se ti venisse in mente qualche spunto di cui poi avremmo parlato o di cui avresti scritto. Non solo a te perché, lo sai, c’è anche F. che segue. Oh, comunque c’è Satriani ad aprile, finalmente dopo tutti i rinvii, che dobbiamo ancora vedere. Ma ci vediamo prima, tante volte. E in qualche modo ci parleremo, come abbiamo fatto sempre. Non andare via.
Ragazzino, ero in un camper negli anni Ottanta, su una strada assolata come sempre accadeva nelle nostre lunghe estati girovaghe. Ero seduto davanti, allora si poteva, e si passava il tempo giocando, cantando, ridendo, commentando ciò che la strada offriva. E poi, se c’era l’autoradio o magari un mangianastri portatile, si ascoltava qualche cassetta o radio occasionale. In quel giorno d’estate, il nostro amico E. prima mi parlò di un gruppo, accennò un ritornello, “doo-doo-doo-da-doo”, e poi mi raccontò la canzone perché non avevamo l’autoradio. La cantammo a lungo, a pezzi, quel che sapevo l’avevo imparato lì. Una volta a casa, poi, parecchio dopo, mi prestò il disco e io mi innamorai. Era la mia musica, non che capissi granché, ma lo spirito positivo che percepivo, l’ottimismo e l’entusiasmo per le persone, le relazioni, il mondo, l’atteggiamento giocoso anche nei confronti delle cose serie e dolorose, la consapevolezza, quella tristezza produttiva e quella malinconia sottile che permettono la comprensione della vita, le melodie cantate con piacere, lo stare insieme, la politica attiva e le prese di posizione, quello volevo fosse il mio mondo. E così è stato.
Era Suite: Judy Blue Eyes di Crosby, Stills and Nash con quel cantato alla fine tutti insieme e io bam! conquistato per sempre. Poi arrivarono Marrakesh Express, altra folgorazione, Teach Your Children, The Lee Shore, Carry On, Right Between the Eyes, Love the One You’re With, Southern Cross, Cathedral, Guinnevere, Wooden Ships, Lady of the Islands, You don’t have to cry e potrei andare avanti parecchio, fino alla mia preferita di sempre: Helplessly Hoping. Da lì si spalancarono mondi, gli stessi Stills e Crosby, anche Nash, dai, con Our house, i Buffalo Springfield, Neil Young, la west coast, i Jefferson Airplane, Cat Stevens con lo stesso spirito positivo, e così via. Una vita, la loro, la mia, la nostra. Che meraviglia.
Ieri David Crosby se n’è andato verso una costa ancor più lontana, la sua croce del sud, spero piena di quel sole, di quella musica e di quell’impegno che tanto gli piacevano, e sì, anche di tutto ciò che faceva stare insieme le persone a parlare, cantare, volersi bene, aspirare alla giustizia sociale. E alla pace. Sto sentendo ora la sua voce cristallina in Suite: Judy Blue Eyes che emerge dai cori, che meraviglia, ogni volta è una grande compagnia, molte le suggestioni, la mia mente corre fantasiosa ancora adesso. Chiaro, erano Crosby, Stills and Nash, da allora ogni volta che ne ho desiderio metto su un loro disco, oggi accendo spozzifai, l’emozione è forte e la spinta emotiva non diminuisce. Ma Crosby, Stills and Nash io non li ho mai visti – un altro concerto mancato, lo so – e non li conoscevo di persona, ho accolto le loro canzoni e li apprezzo, direi che sono loro riconoscente, senz’altro, ma non troppo di più. Ma chi mi spalancò quel mondo, quelle idee, quel comune sentire di cui parlavo all’inizio, chi mi ha mostrato un’umanità di cui ho sentito subito di voler far parte è stato il nostro amico E., quel giorno e mille altre volte. Ecco, è lui il mio Crosby, Stills and Nash, il mio Crosbystillsandnash, è lui che incarna tutto ciò, ancora oggi. E anche oggi, quando ci siamo scambiati il dispiacere per la scomparsa di David Crosby, sono stato contento di condividere con lui questo comune sentire e di avere dentro di me, da parte mia, tutta la gratitudine per avermi accompagnato in quel pezzo di mondo e di storia, per essere stato ed essere tuttora il mio Crosbystillsandnash.
Mi è sempre piaciuto, Gianluca Vialli. Fin dai tempi della Sampdoria, lo ricordo eccome, agganciava un lancio da trenta metri andandoselo a prendere, faceva altri quindici metri a sportellate con qualche difensore, poi guadagnava quel mezzo metro in velocità che gli permetteva di sparare in rete, spesso sul primo palo. Poi tutti a dire che il lancio illuminante era di Mancini, per carità, capitava, ma il grosso lo faceva lui. Ricciolo, simpatico, guascone, spesso irresistibile, era il nove di quel gruppone di giovinastri di Vicini, bravi. Alla Juve diventò capitano, più grosso e autorevole, sollevò la coppa per davvero, fece anche cose in acrobazia da ricordarsele. Poi andò in Inghilterra e lo perdemmo di vista, a un certo punto fece anche quella cosa stramba e tutta inglese del giocatore-allenatore. Mi è sempre piaciuto, Gianluca Vialli. Ma non solo per il fòball. Mi è piaciuto perché quando si è ammalato non ha usato la retorica, idiota, del guerriero e della lotta, e sì che ne aveva anche la formazione, ma ha affrontato la malattia come si deve, con intelligenza, fatica e sofferenza, parlandone come di una compagna di viaggio da cui non ci si riesce a liberare e si può sperare di avere del tempo. La metafora della lotta è sciocca perché non aiuta e comporta moltissimi impliciti che peggiorano la comprensione del problema, Vialli era più intelligente e capace, ha rilasciato alcune interviste di grande saggezza e con approccio realista, consapevole ma mai abbandonato. Mi è sempre piaciuto, Gianluca Vialli. Molto come calciatore ma ancor più come persona.
Il portiere non ha ancora fatto in tempo a girare la testa che la palla è di là di oltre un metro e lui, Pelè, dall’altra.
17 giugno 1970, Brasile-Uruguay 3-1, curiosamente Pelè stavolta non segnò. Non è stato il più grande di tutti solo per il talento calcistico – e lo era comunque, destro, sinistro, testa – ma perché lo era nell’animo, partecipe dell’umanità, consapevole del proprio ruolo e artefice in prima persona della ricaduta positiva delle proprie azioni.
Oggi è morto Mario Fiorentini, partigiano animatore del GAP di Roma. Fu lui a intuire la possibilità dell’attentato di via Rasella ai danni della colonna di SS, non vi partecipò perché aveva parenti che abitavano in zona ed essere riconosciuto avrebbe compromesso l’intera operazione.
Centotre anni, i conti son fatti: aveva ventiquattro anni, era tra i vecchi di quel gruppo di cui facevano parte anche, per dirne due, Carla Capponi e Rosario Bentivegna. Ora non resta più nessuno in vita, resta la memoria che un Feltri qualsiasi può tentare di insozzare se non stiamo accorti. Per questo siamo qui, anche oggi.
facciamo 'sta cosa
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