venga su, sior Doge, a provare il mio cannocchiale

Il 14 luglio 1902 crollò il campanile di San Marco. El parón de casa.
Considerando la posizione, andò piuttosto bene: il campanile, cadendo, distrusse completamente la loggetta alla sua base, un angolo della libreria del Sansovino e null’altro. Andò bene, essendo un cannolone di oltre novantasei metri. La ragione del crollo fu, tra altre, la rimozione delle zanche di ferro all’interno per la costruzione di un ascensore.
Il sindaco Grimani, durante il discorso in occasione della posa della prima pietra, il 25 aprile 1903, disse la frase poi diventata celebre: «Come era, dove era».

Il campanile risaliva, nella sua forma definitiva, al 1513 e ispirò molti altri campanili e torri, parecchi negli Stati uniti. L’ascensore, poi, lo fecero trent’anni dopo.

Non esistono foto del crollo, nonostante esistano alcune immagini che lo rappresentano, di poco successive al fatto.

minidiario scritto un po’ così delle cose recidive, ovvero perseverare nella pandemia: luglio, le carte in regola, delta alfa pi kappa, risollevo il turismo, i futuri costumi sessuali

Doppia vaccinazione, fatta. Green pass, cioè la carta che dovrebbe permettere di viaggiare in Europa ed entrare in posti (concerti? discoteche? cene eleganti?) che se non ce l’hai, no, ottenuta. Su carta, via Immuni – ah, allora esiste – e IO, l’app per i rapporti con la PA. Quanta grazia, eccellenza. Qui a sinistra la mia carta, valida dal primo luglio come tutte, e sono furbaccini quelli che le postano serenamente sui social senza oscurarne almeno il qrcode. Immagino ce ne sia un certo mercatino sotterraneo, a seconda dei vantaggi che la carta darà.
I dati? Buoni, in calo costante e sensibile contagi, ricoveri, decessi. Anzi no, i contagi non più: da qualche giorno si segnala l’arresto della discesa del numero complessivo, la curva si è stabilizzata. Questo dovrebbe essere dovuto alle varianti, Delta, Delta+, Alfa e buonanotte, che si stanno diffondendo e diventando predominanti. Pare, però, che ai contagi non corrispondano ricoveri o, peggio, decessi, almeno non nella stessa proporzione. In Gran Bretagna, la cui situazione è avanzata rispetto ai contagi da variante Delta, dal 19 luglio decadranno tutte le restrizioni, comprese mascherine e distanziamento, e sì che nelle ultime settimane tutte le notizie provenienti da là davano in aumento vertiginoso i contagi, dovuti presumibilmente alla scelta di privilegiare le prime dosi e la diffusione dei vaccini. Evidentemente, la situazione non prende pieghe preoccupanti, oppure sono completamente pazzi. Al momento, credito alla prima ipotesi.
A proposito di restrizioni, dal 28 giugno non è più obbligatorio indossare la mascherina all’aperto, se non in condizioni di assembramento. È una cosa che apprezzo molto, capitandomi spesso di camminare per una città tutto il giorno, ed è una certa soddisfazione vedere e mostrare i propri brutti musi in pubblico. Per svariate ragioni, compresi i rari ma non impossibili colpi di fulmine. Tocca però tornare a lavarsi i denti, pulirsi il moccio dal naso, tagliarsi la barba o decolorarsi i baffetti, a seconda. L’anno scorso la liberazione dalle mascherine era arrivata il 15 luglio, abbiamo guadagnato qualcosa, qualsiasi cosa sia.
Da parte mia, in assenza della figura titolare, sto cercando di fare la vita del turista giapponese: Roma, Firenze, Venezia, Bologna, ancora Venezia, tutto in meno di venti giorni. E poi alcune tappe minori, Parma, Sabbioneta. Il tutto con grande soddisfazione – ne dirò più estesamente, fa ancora parte del mio piano-pandemia, fare le cose che normalmente non si fanno per troppo afflusso – perché, mancando i pullman e gli occupanti, è tutto più facile e comodo: si vede un tavolino libero, ci si siede e con soddisfazione inenarrabile ci si gode la cortesia degli osti e degli albergatori, per nulla avvezzi, specie a Firenze e a Venezia, abituati a sdegnare addirittura il servizio al tavolo. Oppure, dentro agli Uffizi senza riuscire a fare nemmeno un minuto di coda, volendolo.
Durerà, questo stato di cose? Oppure no? Difficile dirlo. E come sarà il post-pandemia? Ci sarà un grande, collettivo periodo di baldoria? Alla fine del 1665 Samuel Pepys, noto politico e scrittore inglese, scrisse: «l’epidemia si è ridotta quasi a zero» ma, soprattutto: «non ho mai vissuto così gioiosamente». E non sapeva che l’anno dopo Londra sarebbe bruciata, ma non c’entra. Pepys registrava le manifestazioni di gioia delle persone per strada, scampate al pericolo, le danze e gli abbracci, la felicità per la libertà riacquisita. Qualcuno, a questo proposito, ha citato anche i Roaring Twenties, cioè gli anni Venti dopo la prima guerra mondiale e l’epidemia di spagnola, periodo di grande espansione non solo economica, caratterizzati da una certa sguaiatezza nei modi, esuberanza eccessiva, forse, ma è indimostrabile, dovuti alle restrizioni e alle sofferenze del decennio precedente.
Naturalmente il paragone è improprio, ma non è difficile immaginare l’aumento delle interazioni sociali, dell’aggregazione e la maggiore ricerca di piacere e divertimento quando l’attuale pandemia sarà un ricordo. L’epidemiologo Christakis ha detto al Guardian che «durante le epidemie si diventa più religiosi, le persone rinunciano di più ai piaceri, risparmiano i soldi» – e la prima parte di questa frase mi spiegherebbe molte cose degli ultimi mesi – e sempre secondo lui, passata la buriana, aumenteranno le interazioni sociali, il senso di religiosità tornerà a ritirarsi – ne faccio speranza – e potrebbero diffondersi anche abitudini sessuali più libere. Spero anche qui.
Al momento, è difficile dire: ci sono gli Europei di calcio, e siamo in semifinale, è estate e le vacanze sono di fatto un obbiettivo possibile, fa caldo, gira qualche deludente tormentone canoro, oggi è mancata Raffella Carrà, la Lega continua a ostruire il ddl Zan, insomma il paese è distratto, completamente, al limite del rinciulimento, classico estivo. Forse è anche questo un modo di reagire, che non condivido, mi pare molto simile all’atteggiamento precedente alla pandemia.
A me, al momento, basterebbe che molti di noi, alcuni perché non siamo certo tutti uguali e non ci siamo comportati allo stesso modo, seguissero il consiglio scritto vicino a una porta veneziana, sintetica esortazione che contiene già tutto ciò che serve. Forza. E vaccinatevi, checcazzo.


Le altre puntate del minidiario scritto un po’ così delle cose recidive:
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la musica delle stagioni, primavera 2021

Pochi giorni fa c’è stato l’equistizio per cui dalla primavera siamo piombati in estate e, con il cambio di stagione, è il momento del cambio di pleilista: pubblico quella della primavera, inizio a lavorare a quella dell’estate.
L’avvio, ma son cose che si sanno solo dopo, è intriso di voci femminee e tenui, abbastanza oscillanti tra folk-pop-rock, a seconda, poi tra le nuove uscite e gli umori che variano man mano che la stagione procede, le cose cambiano. Che faccio? Escono un EP dei Counting Crows, il nuovo disco delle Sleater-Kinney, quello di Liz Phair o di Jade Bird, tutti con singoli più che buoni, e faccio finta di nulla e non inserisco? Ovviamente no, quindi la compila prende un po’ una strada sghimbescia rispetto ai rigori iniziali. Beh, funziona così. Non è che poi uno, io, è integro e omogeneo per tutti i tre mesi della stagione.
Spero che, se vi è qualcuno che ascolta, trovi cose buone. Il merito non è ovviamente mio, io assemblo e basta.

Poi ci sono le pleiliste passate, le tredici stagioni precedenti, altro che serie tv finite alla seconda o terza.

Eccole, tutte: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore)| autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore)| primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) |

Spero qualcuno si diverta, se no io, che già peraltro lo faccio.


L’indice delle compile

minidiario scritto un po’ così delle cose recidive, ovvero perseverare nella pandemia: maggio, il vaccino, le riaperture, il mio scetticismo, la prima di molte cose, piccoli progetti, è il momento dell’onestà verso sé stessi

Vaccinato. La prima dose, almeno. Nessun effetto fisico concreto, nemmeno mal di braccio, dal punto di vista degli anticorpi è davvero difficile dire. Dal punto di vista del morale, invece, una bella iniezione metaforica, è l’effetto tangibile di una reazione collettiva, mondiale, la medicina per la malattia che diventa realtà, l’atto che segna la risposta, civile, non quella istintiva e medievale del chiudersi in casa e sperare. Ed è lo Stato che si manifesta, che prende tutti i propri cittadini e li vaccina, un processo che, finalmente dopo tanta tanta troppa Regione Lombardia, rassicura e fortifica il mio bistrattato senso dello Stato. Gli stessi volontari, medici, operatori della protezione civile, persone qualunque, sono gentili e precisi, nessuna reazione scomposta anche al milionesimo invito agli accompagnatori a rimanere fuori. E mi rasserena il vaccino collettivo, non tanto il mio, bensì il fatto che si sia tutti più tutelati. Chiaro, al netto degli sciagurati che, ancora, non hanno capito.

che sorpresa

Nel frattempo, dall’ultimo minidiario i dati dei contagi sono scesi, e di molto. Calati i ricoverati, i contagiati, i morti. Quale sia il motivo è difficile dire, alcuni virologi azzardano, qualche medico afferma che sia presto per l’effetto dei vaccini, probabilmente come altre volte un misto di ragioni concomitanti. Ne conseguono, come l’anno scorso, rapide riaperture. Ero scettico, lo ammetto, ritenevo che le riaperture fossero affrettate, sotto la spinta di una certa destra desiderosa di allettare i propri elettori sacrificando, non sarebbe stata la prima volta, la salute pubblica. E invece no, dal 4 maggio si sono succeduti diversi gradi di allentamento delle restrizioni, per arrivare a oggi, la vigilia della riacquistata possibilità di mangiare all’interno dei ristoranti. Il coprifuoco è stato spostato alle 23, tre regioni sono diventate bianche, ossia mantengono solo l’obbligo di mascherina e distanziamento. E le prospettive per le altre regioni sono buone. Io sono andato al ristorante, anzi: la prima settimana ci sono andato quasi tutte le sere, per provarmi che era vero. E per stare con gli amici, seppur a tavoli da quattro. Ho preso un treno, il primo da novembre, scoprendo di essere ancora capace di farlo. Sono andato un fine settimana a Roma, non per fare il turista ma qualche giro l’ho fatto, ed è stato ovviamente piacevole. C’è persino qualche turista in più rispetto a ottobre, e questo dà alla città un aspetto un poco più vivace. Ho partecipato a un’assemblea condominiale in presenza, per non farmi mancare nulla, sono stato in negozi chiusi da molti mesi, ho pranzato all’aperto con amici e colleghi, a quattro a quattro, ho visto sfumare i biglietti per gli Internazionali d’Italia, ne ho comprati altri per concerti di quest’estate. Vita normale o quasi, insomma. Un po’ con il freno tirato, come molti.

La copertina di Gürbüz Doğan Ekşioğlu per il New Yorker

Il 15 la seconda dose, poi i quattordici giorni prescritti e il green pass, ovvero il certificato vaccinale per poter girare liberamente, sarà mio. Allora sì.

In questi mesi ho imparato molto sulla regione in cui vivo, sui miei corregionali. Ingenuo, pensavo che errori e malafede si mescolassero ma che con pazienza e buoni argomenti si potesse, quasi sempre, mettere in evidenza i comportamenti più corretti e utili e, in definitiva, sconfiggere l’egoismo e l’indifferenza. Non è così, ho capito tardivamente. È proprio uno stile, una filosofia (argh) di vita differente. Ma divergente tanto. Ed è così che i Fontana di turno, le Morattigallera, sono ancora lì, ci resteranno, e la regione rimarrà in mano loro anche tra due anni: perché hanno fatto e fanno quello che la maggioranza vuole. Fanno: qualche giorno fa la giunta regionale ha aumentato la dotazione per ricoveri e prestazioni ambulatoriali private, portandoli a quasi 7 miliardi e mezzo per il 2021. Nel 2019 erano poco più di due. Ora le strutture private accreditate in Lombardia sono circa cento, contro le centotrenta pubbliche, e questa iniezione – ancora, le iniezioni – di soldi rafforzerà ancor di più la presenza privata, costringendo alla chiusura i piccoli presidi pubblici sul territorio. Il tutto sbattuto in faccia dopo sedici mesi di disastri nel corso della pandemia, nei quali le strutture pubbliche hanno perlopiù portato il peso dell’emergenza. E nemmeno con una ragione utilitaristica: il privato costa almeno il 20% in più del pubblico, è un dato oggettivo e incontrovertibile.
Ed è quasi il momento di essere onesti con sé stessi, tirare una riga e decidere cosa portarsi in avanti e cosa lasciare indietro. E poi, se possibile, farlo. Perché la pandemia non ha portato nulla di nuovo, non ha generato alcunché ma, mettendo pressione su ogni aspetto della nostra vita, suscitando e accelerando processi già in atto ma meno visibili, ha messo in chiaro alcune cose. E ora bisogna trarne delle conclusioni: su noi stessi, sulle persone cui ci accompagniamo, sui nostri lavori e le occupazioni, sulla nostra salute, sulla fiducia che nutriamo e in chi la riponiamo, sui rischi che siamo disponibili a correre, sul grado di sicurezza consapevole di cui abbiamo bisogno. Riassumendo, per capirci, forse su quella cosa che chiamerei ‘vita’ ma che si potrebbe, a ragione, anche chiamare – approssimando – ‘felicità’.


Le altre puntate del minidiario scritto un po’ così delle cose recidive:
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59 secondi di… fustigazione

Il concetto teologico del fine-pena-mai per la nostra salvezza.
Per l’ennesima puntata di “59 secondi di…”, la rubrica più micragnosa del vascello, un altro episodio fatto di soli cinquantanove secondi di qualsiasi cosa venga in mente, che abbia o meno un qualche significato intrinseco e che abbia un qualche tipo di senso immortalare. Preferibilmente con i mezzi più ridotti possibile.

Perché è pur vero che il figliodiddio è condannato alla fustigazione perenne in nome della salvezza di tutti gli uomini (e anche le donne), sciàcc (arrivare almeno al secondo 18), e lì un presupposto di contenuto c’è, ma anche i due poveri romani a sinistra, uno al fuoco per l’eternità – e già non gli è andata male – e l’altro a bere dal calice fino alla fine dei tempi. Senza scopo, se non quello di essere a corredo dell’avvenimento. Che è un po’ la nostra sorte, nessuno escluso.


Tutti i 59 secondi di…
25 aprile | approccio primaverile | banda dei vigili | Bernina express | calma piatta ferrarese | centro ittiologico | dna | festa dentro una panda | fustigazione | la finestra sul cortile | neve marzolina | non aprite quella porta | nuvole vulcaniche | segnaletica stradale e umarèll | signora e neve | stazione di Amburgo | tabellone dresdense | tevere notturno | videocitofono | vista berlinese | vittoria ai referenda |

vittoria o sconfitta? Punti di vista

Ei fu, il cinque maggio, ma non avevo fatto i conti: duecento anni tondi.
La visione storiografica e comune su Napoleone, oggi, non hanno ancora trovato una posizione stabile, mi pare, di sicuro poco si tramanda dell’entusiasmo che quel giovane militare portò in Europa, minacciando regni incartapecoriti che le rivoluzioni ancora non avevano toccato. Piuttosto, uno dei temi prediletti dai responsabili della cultura di certe pagine cartacee e online è se Napoleone avesse un pene molto piccolo oppure no.

Lancia il Fatto, riprende Libero, commenta Historicaleye e così via. È ovvio: che fosse gran condottiero è fuori di dubbio ma se poco dotato, dice il lettore comune rassicurandosi, allora non ne vale la pena, resto Mario Rossi e l’invidia, appunto, svanisce. E ogni anno è così, ogni benedetto anno. E non da oggi, la questione del pene di Napoleone nasce fin da subito, si racconta che il medico incaricato dell’autopsia o il clerico Vignali abbiano provveduto all’asportazione dell’immemore pisellino, variamente vendendolo o tramandandolo ai familiari nei secoli. Ne esistono anche foto varie, in eleganti astucci personalizzati. Il discorso, in Italia, oggi è questo. L’Inghilterra, invece, come ogni anno invia alcune fregate per celebrare la vittoria di Trafalgar in occasione del cinque maggio e la Francia, per non lasciar campo libero, invia qualche barcolina di contrasto. Il clima da Brexit non aiuta, in questo.
Cosa di meglio dunque, ieri sera, che andare per colline ascoltando in cuffia un Barbero militare sulla battaglia di Waterloo? Poco, in effetti, ed è abbastanza appassionante cercare di capire come la cavalleria possa entrare – il termine tecnico è quello – in un quadrato di fanteria armato di baionette. Non può, ci gira attorno senza sparare. E poi la cruda verità, mai abbastanza ricordata: senza l’arrivo dei prussiani – con tempismo perfetto – alle spalle delle guarnigioni napoleoniche col cavolo che il Duca di Wellington sarebbe passato alla storia come vincitore. E qui una cosa interessante, riporto sempre dalle notazioni del saggio professore: se è normale che gli inglesi si riferiscano alla locuzione ‘una Waterloo’ come a una vittoria, perché per noi, non direttamente coinvolti, è invece sinonimo di sconfitta? C’è un’evidente tendenza filonapoleonica nel nostro atteggiamento che, probabilmente, vien fin da allora, per i motivi cui ho accennato sopra. Non diamo il nome di Waterloo alle nostre vie e in effetti è una cosa che va considerata, perlomeno. Punti di vista, appunto. Ricordo la visita al museo di Breslavia dedicato alla battaglia di Raclawice del 1794 (Muzeum Panorama Racławicka), in cui curiosamente non riuscivo a capire perché la battaglia, famoso episodio dell’insurrezione di Kościuszko per difendere l’indipendenza polacca terminato con una tremenda sconfitta, sia ricordata come la più grande vittoria polacca sui russi. Mistero. Ma l’orgoglio, specie se nazionale, va un po’ dove gli pare e preferisce. Punti di vista, appunto, come accade anche nei contrasti quotidiani, familiari o lavorativi, o alle anche elezioni politiche, in cui alla fine tutti hanno vinto.

minidiario scritto un po’ così delle cose recidive, ovvero perseverare nella pandemia: aprile, costi che abbiamo deciso di sostenere, feste indiane, «missione vaccini compiuta», raccontare l’irraccontabile

Gialli, dunque. Tutti gialli tranne la Sardegna, che era l’unica bianca fino a poco fa e, ora, è l’unica rossa. Curioso. Dopo un bel po’ di tempo, ho perso il conto, si ritorna in zona gialla. La sensazione è che sia il risultato di un compromesso tra situazione sanitaria e spinte politiche e sociali, il che è del tutto normale e comprensibile, e ciò è confermato anche da chi queste cose le studia (mi riferisco allo studio dell’istituto Bruno Kessler): invece di optare per il «rischio calcolato» aprendo tra un mese, abbiamo scelto il «costo calcolato» di procedere ora, il che significa che abbiamo considerato accettabili un tot di morti al giorno, trecento, la possibilità che a breve i contagi ricomincino a salire e, di conseguenza, l’eventualità che si sviluppino varianti e la semicertezza di richiudere di nuovo, da qualche parte in qualche momento. Si poteva aspettare ancora? Sarebbe stato meglio, non c’è dubbio, dal punto di vista sanitario è fuori discussione. In Europa molti Stati chiudono di nuovo, seriamente, nel mondo la situazione non è buona, India su tutti con i contagi e i morti del tutto fuori controllo. E una variante indiana, cosiddetta, che ancora non si capisce se ci preoccupi oppure no, il fatto di aver bloccato tutti i voli farebbe pensare di sì. E la famiglia veneta di origine indiana che è andata sul Gange per la festa di vattelapesca tornando contagiata mi lascia interrogativo: io manco riesco a uscire dalla provincia e là fuori c’è un mondo che va a contagiarsi al Kumbh Mela e torna indietro? È che noi siamo tutti presi dal grande dibattito: coprifuoco alle 22 o alle 23? L’intensità della discussione riesce pure a superare quella sulla superlega europea, già massima, e il resto passa in terzo piano. In quarto, l’ostruzione vergognosa della Lega alla legge Zan contro l’omotransfobia, cinque mesi, per citare un argomento degno di maggior spazio nel pubblico dibattito.
Il corso delle vaccinazioni, da quando è stato preso in carico dallo Stato e sfilato alle Regioni, ha preso una direzione sensata, soprattutto in Lombardia. Il numero complessivo si è attestato sulle trecentomila al giorno e, sebbene sia lontano dalle dichiarazioni incaute di molti, comincia a dare qualche risultato: i pazienti fragili hanno finalmente ricevuto la prima dose e con loro i conviventi, gli ultrasettantenni pure e ora ci si sta avviando ai sessantenni, la corsa ai vaccini per estrazione lavorativa e sociale finalmente è stata fermata. Anche l’isteria quotidiana sulle mancate consegne dei vaccini da parte delle aziende sanitarie pare essersi sedata, nonostante la questione sia ancora effettiva, è tutta questione di toni e di atteggiamenti tendenti al dramma. Per le poche competenze lasciate alle Regioni, la Lombardia qualche disastro riesce a farlo comunque: tre giorni fa dichiara ufficialmente che, a causa della mancanza delle dosi, AstraZeneca non sarà più somministrato come prima dose ma solo come richiamo, oggi stablisce l’esatto contrario, ritornando alla situazione di prima. Ed è a questo punto che Bertolaso, consulente della Regione per il processo di vaccinazione, sente che è arrivato il momento di lasciare, dichiarando come un supereroe sbilenco «missione vaccini compiuta» e con un gesto del mantello fare ritorno alla batcaverna. Ma non hai fatto nulla, dice la popolazione della città, ma lui è già volato via. Volato dove? A Roma, dicono i bene informati, arroma per candidarsi come sindaco. Aridaje. Dopo i fallimenti come consulente covid in Lombardia, Umbria, Sicilia e di nuovo Lombardia, dopo i trascorsi tremendi alla Protezione civile ai tempi del terremoto dell’Aquila, del G8 alla Maddalena, che ancora gridano allo scandalo, dei massaggi pecorecci sulle rive del Tevere, giova anche ricordare che si era già candidato a sindaco di Roma, ai tempi con Forza Italia, promettendo – non è una battuta – «il Tevere balneabile», descrivendo Roma come «una città terremotata come l’Aquila» (non furono contenti in Abruzzo), spiegando che il suo programma era stato approvato dalla moglie. Poi, come sempre fa, mollò sul più bello e se ne andò.

Grande giornalismo da queste parti.

Sono sollevato, lo confesso, per la vaccinazione di parenti e amici a rischio per età o per patologie varie, una delle cose che mi angustiava sta andando un pochino a posto, me ne rendo conto, anche se solo al primo turno. Capita di discutere con vicini o conoscenti sulla vaccinazione in sé e più passa il tempo più i miei toni diventano duri e decisi, sopporto poco le argomentazioni di chi ha deciso di soprassedere. Perché, ed è la cosa che non comprendono o non valutano, la loro scelta ha delle conseguenze ben precise e verificabili sulla nostra di vaccinarci, cosa non reciproca. Ne vanificano o rendono incerti gli effetti, offrendo il fianco allo sviluppo di varianti, cosa che si ripercuote poi su tutti. Al contrario, ricevono solo frutti positivi da chi si sottopone a vaccinazione. Vaccinazione peraltro che, ricorderei sempre, nessuno di noi fa volentieri, potendo evitare farmaci quando possibile. Non escludo testate.
In attesa mentre accompagnavo altre persone al vaccino, riflettevo. Scene da film catastrofico, enormi strutture piene di persone, tutte distanziate, operatori in camice, tutti con la mascherina, schermi iperattivi che continuano a chiamare numeri, file tra accettazioni, anamnesi e somministrazioni, ed è tutto purtroppo vero. Un milione di morti in Europa dall’inizio, un milione. E se dovessi raccontare tutto questo a chi nulla sapesse, a chi non ha fatto in tempo a vedere? Non ci crederebbe, non potrebbe crederci. Gli parlerei di lockdown, di Ddl del sabato sera, di controlli, di divieti, di misure sanitarie, già immagino gli occhi sgranati e le domande incredule: e le scuole? Chiuse. Ma come chiuse? Non può essere. E tutti la mascherina, sempre fuori di casa. Strabuzzano. E due mesi chiusi in casa, ma chiusi chiusi. Non ci crederebbero, impossibile. E un milione di morti. Penserebbero alla spagnola ma è un racconto lontano, come si racconta la peste di Atene. Per loro, per noi non più. E i ristoranti chiusi, i cinema, i teatri, le librerie, le bocciofile, le scuole guida, rimandate tutte le scadenze, anche fiscali, rimandati i controlli medici per patologie gravi, rimandati gli esami, rimandata la vita. Anche il me di quindici mesi fa non ci potrebbe credere ma pensare di raccontarlo a una persona precisa mi rende la cosa più evidente.

Ora, però, siamo gialli. Quindi, è l’ora delle nuove prime volte e stasera vado al ristorante. Sono un po’ emozionato, si può fare. Certo, secondo le regole bisogna stare seduti all’aperto, ed è aprile, e alle ventidue bisogna essere a casa (altro dibattito fondamentale: alle ventidue alzati o accasati? Quante energie ben spese). Quindi, golfino, cappello, guanti, prenotazione per le diciannove, diciannoveetrenta, e via, si ritorna a un qualcosa che assomiglia lontanamente a ciò che conoscevamo ma che, al momento, va benissimo così ed è persino emozionante.


Le altre puntate del minidiario scritto un po’ così delle cose recidive:
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Resistenza, in concreto

Bene manifestare, bene discutere, bene pensarci, bene ricordare, bene resistere. Anche quando in piazza non ci si può andare per ragioni di benessere collettivo. Bene, però, non solo avere memoria ma anche farla, questa benedetta memoria.
È quello che fanno Ilaria e Cecilia che da parecchio tempo girano le strade di Milano e restaurano le lapidi della Resistenza. Prima le cose stanno così

e poi, dopo il passaggio delle due coraggiose e intraprendenti donne, così:

Questo mi piace, mi piace molto. È un modo intelligente di mettere a frutto la propria professionalità e di dare un aspetto concreto, per davvero, alla memoria. Il loro progetto si chiama ‘RAM – Città Aperta – il Restauro della Resistenza a Milano’ e va avanti da parecchio. Ma il restauro costa, a cominciare dall’occupazione del suolo pubblico per finire ai materiali, con tutto il volontariato e l’entusiasmo che ci sta in mezzo. Vanno, dunque, sostenute, sia sul fronte dell’impegno e della passione, sia dal punto di vista economico: ecco come.
Restano sei giorni alla fine della campagna di crowdfunding, io ora verserò tutto il budget che mi sarebbe servito per andare a Milano in manifestazione e fare giornata della Liberazione, per dare un senso a questo 25 aprile un po’ vuoto. Nella stessa pagina ci sono anche i contatti di Ilaria e Cecilia, se avete idee o, come si dovrebbe, volete fare loro sapere che sono brave.

camouflage

Il camouflage, traducibile con ‘mascheramento’, ‘mimetizzazione’, con etimo incerto supponendo per la forma un passaggio dal francese all’inglese ma, di certo, recente e non più antico di uno o due secoli, è in realtà – e qui proprio non avrei detto – termine militare, prima che figurato. E si intende la pratica di confondersi con l’ambiente circostante, magari con un paio di frasche sull’elmetto a corredo di una mimetica, appunto, del color del fango e delle foglie. La delicatezza del termine, presunta a dire il vero, mi aveva sempre fatto pensare a una qualche pratica settecentesca di trucco o parrucco o che diavolo ne so ma connesso alla moda, intrisa di gentilezza e grazia. Non che anche l’arte del nascondimento, seppur militare, non abbia una certa propria grazia ma non spingerei la cosa troppo in là, altrimenti si finisce in un baleno ai Monty Python militari di ‘E ora qualcosa di completamente diverso’. No, non è quello.
Il camouflage, passando per i camuffi veneziani, ladri che appunto nascondevano le cose, per le stampe camouflage, al Marpat, la stampa mimetica dell’United States Marine Corps, al Vegetato, il pattern ufficiale dell’Esercito Italiano, al glam rock, alle sfilate di moda degli anni Ottanta, alla pop art, insomma ha una storia di una certa consistenza, ancorché non troppo lunga. Oddio, per noi, perché a dire il vero la natura, anzi la Natura, lo fa da sempre, con risultati eccellenti. Anche perché si tratta di vivere o morire, mica si scherza.

Poiché noi, intendo umani, non ne siamo capaci di natura, allora ci vestiamo e copriamo, così da essere meno visibili. In generale, perché se i militari, storicamente, vi si dedicavano all’aperto e in natura, i civili possono anche decidere di nascondersi al chiuso, in ambienti articifiali, magari per essere notati meno. Che so, al mare o a un evento pubblico o in giro, all’evenienza.

Il rischio, naturalmente, è che qualcuno vi si sieda addosso.
Si possono anche nascondere oggetti, come una sedia, un bicchierone, una tortilla/piadina, pezzi di bagno, il caffelatte del mattino. Bastano la luce, l’ambiente adatto e, serve dirlo?, la giusta attitudine.

Alcuni, particolarmente bravi, riescono anche a nascondersi parzialmente, si fanno camaleonti a seconda dello sfondo, come le due donne e l’uomo senza gambe qui sotto.

Negli Stati Uniti c’è una piattaforma di contenuti, Reddit, poco usata da noi ma dalla bazzeccola di 542 milioni di utenti al mese là, che sostanzialmente consente di diffondere, scambiare, commentare e integrare, argomenti e temi suddivisi in sottoaree di interesse. Tra essi, c’è anche chi si occupa di camouflage e, nello specifico, di camouflage involontario, con esiti spassosi. Ecco. L’ultima cosa che conosco, al momento, sul camouflage è la canzone di Stan Ridgeway, che parla di un militare PFC dei Marines in Vietnam e devo riconoscere che, finora, non avessi capito granché del significato, fraintendendo di parecchio il senso del ritornello, uo-o-o-oh, camuflasg. Pensavo, come ho detto, fosse una roba sulla moda, figuriamoci. Dio, troppa roba da sapere.