gli occhiali di John

Oggi, otto dicembre, sono quarant’anni dall’assassinio di John Lennon. La storia è nota, Mark Chapman lo attese tutto il giorno sotto casa, gli chiese pure un autografo su Double fantasy e quella è l’ultima immagine che abbiamo di Lennon vivo. A sera, al ritorno dallo studio di incisione, gli sparò nell’androne del palazzo.

Poi, la corsa disperata in ospedale sul sedile dietro di un taxi, i tentativi di rianimazione, la constatazione della morte. Yoko Ono chiese all’ospedale quaranta minuti di tempo prima di annunciare pubblicamente la notizia, così da poter tornare a casa e tentare di spiegare la tragedia a Sean, figlio della coppia.

Inimmaginabile il dolore della donna, a quel punto – lei racconta – si sedette alla finestra, si versò molto molto gin e, forse all’alba, scattò una foto.

Terribile. Ma erano le cose a essere terribili, la fotografia è straordinaria per ciò che racconta. Gli occhiali erano un elemento distintivo di Lennon – sulla copertina di Walls and Bridges ne indossa addirittura cinque paia – e, allo stesso tempo, una delle poche cose che probabilmente le rimaneva del marito. E lei continuava a vedere le cose del mondo, gli avvenimenti della vita, con l’occhio, comunque, dell’artista.

Cos’avrebbe fatto Lennon, mi chiedo, se nulla di ciò fosse accaduto? Sarebbe andato avanti a fare musica come McCartney è la risposta più plausibile, in effetti. Magari, essendo più concentrato sul lato politico della vita, avrebbe inciso (non in senso discografico) di più, avrebbe proseguito nel corso della sua produzione musicale sulla linea già tracciata da Imagine e Working class hero. Probabilmente sarebbe invecchiato lentamente, come tutti, sarebbe stato vittima della disillusione degli anni Ottanta, si sarebbe ritirato verso una produzione più intima, tipo David Crosby o Neil Young per fare due nomi di idealisti della musica ancora vivi, avrebbe abbandonato i bed-in, sarebbe stato pian piano considerato un vecchio hippy che ha a cuore il destino dell’umanità intera. Come molti, chissà, avrebbe forse convertito la causa alla difesa dell’ambiente, di sicuro avrebbe grandemente apprezzato Greta Thunberg, fatta di pasta simile.

Io ho molto apprezzato il lato psichedelico dei Beatles, quello matto dei walrus e degli strawberry fields, dovuti proprio a Lennon, anche se resto fondamentalmente un mccartneyano, seppur spesso non vorrei fosse così. Non sono affine alla retorica di Imagine. Ma vedere quanto di Lennon resta ancora oggi, quel «and no religion too» che fa tanto incazzare i sovranisti fascistelli de noatri, me lo fa rimpiangere senz’altro e sentire riconoscenza nei suoi confronti. Lui era l’egg man.

il re scoreggione

Anche quest’anno, questo strano 2020, il cinque dicembre morì Mozart.

Ogni anno ne faccio un post di ricordo, non solo per la grandezza musicale, che colgo solo fino a un certo punto e solo in alcune opere, ma per la sua libertà e audacia nell’essere un progressista, un libero professionista nell’epoca dei maestri di cappella, un innovatore, un uomo libero, un genio e un deficiente insieme, dipendeva da come gli girava. Insomma, irresistibile per me.

Peter was facing an entire country and suffering alone

52 anni, oggi, da questo momento memorabile.

Spiego per chi non era a Città del Messico quel giorno: durante la premiazione della finale dei duecento metri, Tommie Smith e John Carlos, scalzi, alzarono il pugno chiuso guantato di nero, in sostegno all’Olympic Project for Human Rights (Progetto Olimpico per i Diritti Umani), e non alle Pantere nere, come si dice spesso, o al Black Power. Fu la protesta più eclatante della storia delle olimpiadi.
Ma se si racconta una storia, allora bisogna raccontarla tutta: il secondo classificato, Peter Norman, velocista australiano, si fece dare una spilla del progetto e la indossò sul podio (si vede nella foto); pare peraltro che l’idea del singolo guanto nero sui due velocisti sia stata sua. Comunque, appoggiò la protesta, sebbene non abbia levato il pugno.
Gli australiani non la presero bene, tanto che i media e il comitato olimpico boicottarono Norman al punto da impedirgli di partecipare alle olimpiadi del 1972, sebbene si fosse qualificato più volte e fosse, in sostanza, il più grande velocista australiano di sempre. E lo è tuttora. Non fu nemmeno coinvolto nell’organizzazione delle olimpiadi del 2000, a Sidney.
Norman si battè tutta la vita per i diritti umani e fece poi l’insegnante di educazione fisica. Nel 2006 morì per un infarto e al suo funerale si presentarono Tommie Smith e John Carlos per portarne la bara.

Solo a quel punto, tardivamente, la federazione statunitense di atletica leggera proclamò il 9 ottobre il Peter Norman Day, vabbè, e il parlamento australiano nel 2012 si scusò:

This House:
1) recognises the extraordinary athletic achievements of the late Peter Norman, who won the silver medal in the 200 metres sprint running event at the 1968 Mexico City Olympics, in a time of 20.06 seconds, which still stands as the Australian record;
2) acknowledges the bravery of Peter Norman in donning an Olympic Project for Human Rights badge on the podium, in solidarity with African-American athletes Tommie Smith and John Carlos, who gave the ‘black power’ salute;
3) apologises to Peter Norman for the wrong done by Australia in failing to send him to the 1972 Munich Olympics, despite repeatedly qualifying; and
4) belatedly recognises the powerful role that Peter Norman played in furthering racial equality»

il che tradotto suona così:

Questo Parlamento:
1) riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman, che vinse la medaglia d’argento nella gara dei 200 metri piani ai giochi Olimpici di Città del Messico del 1968, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano;
2) riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare sul podio uno stemma del “Progetto Olimpico per i Diritti Umani”, in solidarietà con gli atleti afro-americani Tommie Smith e John Carlos, che effettuarono il saluto di “potere nero”;
3) si scusa con Peter Norman per non averlo mandato ai Giochi di Monaco 1972, nonostante si fosse qualificato ripetutamente; e
4) riconosce tardivamente il significativo ruolo che Peter Norman ebbe nel promuovere l’uguaglianza di razza».

Purtroppo, però, le esistenze umane sono brevi e Norman avrebbe meritato rispetto in vita, non dopo. E avrebbe meritato di gareggiare e di essere riconosciuto come un grande atleta e, più che altro, come uomo giusto e coraggioso.

ancora Bologna, ancora il quattro agosto

1974, alle ore 1.30 del 4 agosto, una bomba esplose nel secondo scompartimento della quinta carrozza del treno Italicus, Roma-Monaco di Baviera, mentre transitava all’interno della galleria della Direttissima a San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna.
Morirono dodici persone: Nunzio Russo di Merano, tornitore delle ferrovie, la moglie Maria Santina Carraro e Marco, il figlio quattordicenne. Nicola Buffi, 51 anni, segretario della Dc di San Gervaso (Fi) ed Elena Donatini rappresentante Cisl dell’Istituto Biochimico di Firenze. E poi Herbert Kontriner, 35 anni, Fukada Tsugufumi 31 anni, e Jacobus Wilhelmus Haneman, 19 anni. La bomba uccise anche Elena Celli, 67 anni e Raffaella Garosi, di Grosseto, 22 anni. Silver Sirotti, invece, non era stato coinvolto nell’esplosione. Aveva 24 anni ed era stato assunto dalle Ferrovie da dieci mesi, stava svolgendo servizio sul treno quella notte e, quando vide le fiamme in galleria, impugnò un estintore e incominciò a estrarre i feriti. Rimase anche lui bloccato tra le fiamme. Fu decorato con la medaglia d’oro al valor civile. L’incendio rese irriconoscibili molti corpi, tra cui quello di Antidio Medaglia, 70 anni, che venne riconosciuto dalla fede al dito.

L’attentato fu subito rivendicato. Fu fatto ritrovare un volantino di Ordine nero che proclamava: “Giancarlo Esposti è stato vendicato. Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno; seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti“.
Poi qualcuno fece il nome di Tuti, qualche pista portò poi a Gelli (Arezzo è vicina), al SISMI e così via. Facile indovinarne la conclusione: nessun colpevole individuato.

Questo è un post di dieci undici dodici tredici anni fa. E la cosa tragica è che non fa nessuna differenza.

ancora Bologna, ancora il due agosto (e son quaranta)

Ora, con la condanna a gennaio di Cavallini per aver aiutato gli esecutori materiali Fioravanti, Mambro e Ciavardini, sappiamo molto della strage.
Sappiamo molto anche di coloro che depistarono, Gelli e Musumeci, Belmonte e Pazienza, lasciando perdere chi, ogni anno, non si faceva mai mancare il piacere di dire qualche volgare stupidaggine interessata sulla strage, schifosi.

Dei mandanti non molto, diciamo che mancano i nomi ma gli ambienti e i moventi sono chiarissimi, in realtà si potrebbero anche fare dei nomi senza andare troppo lontano: Gelli, Ortolani, D’Amato, Tedeschi, Bellini. Un processo è ancora aperto, perché gli imputati sono vivi: l’ex carabiniere Segatel, l’ex generale dei servizi segreti Spella e Catracchia, che salta fuori di nuovo in via Gradoli a Roma, tutti accusati di aver intralciato le indagini.

Per far memoria di questa strage bisogna – anche – pensare a sé, oggi: mentre si parte per le vacanze, o per una fine settimana, in un autogrill, un casello, un luogo qualsiasi, una stazione, appunto. Gli ottantacinque di Bologna sono io, oggi, ogni giorno e ogni anno ai primi di agosto. Ma bisogna provare a immaginarlo, mentre oggi si fa una cosa qualsiasi, comprare un giornale o fare la spesa al supermercato, all’improvviso scoppia tutto. Ed è finita.

le bandite, tra cui Walkiria

Annita Malavasi, Viera Geminiani, Silvana Guazzaloca, Mirella Alloisio, Walkiria (Walkiria!) Terradura e Bianca Guidetti Serra sono le bandite. «Sei partigiane di diverse estrazioni sociali, culturali e politiche, esprimono attraverso le interviste la consapevolezza di una lotta che va oltre la liberazione dal nazifascismo e che segna un momento decisivo nel percorso di emancipazione femminile».

Il documentario di Alessia Proietti sull’esperienza delle donne che dal 1943 al 1945 combatterono nelle formazioni partigiane è disponibile qui.

quarantaseiesimo ventotto maggio

Quarantaseiesimo anniversario della strage, anche oggi in piazza, in un modo diverso. Ma ci siamo, anche se scaglionati, se uno alla volta, se con mascherine, attenti a non sembrare assembramento anche se è proprio quello che dovrebbe essere. Per ricordare le vittime e tutti noi, che da quasi cinquant’anni soffriamo per quella bomba.

Il grande manifesto appeso tra le colonne della Loggia è un’installazione di Tiziana Arici: una fotografia della piazza dell’anno scorso con uno striscione, «Ci siamo», che è cosa vera: siamo noi, siamo quelli dell’anno scorso e di tutti gli anni precedenti, ci siamo ancora, siamo gli stessi e non lo siamo, siamo la stessa piazza ma siamo anche quella del 2019 e quella di quest’anno, con i guanti e qualcosa in faccia. E tutte quelle prima. E con noi i morti, quelli in piazza e quelli cui è capitato dopo, che avevano dentro la rabbia, il dolore e la memoria. Ci siamo.