interessi di chi? Dei cittadini? Dei popoli del mondo? Non risulta che sia così

Discuto con un mio amico al bar, io sostengo che piazzare satelliti a iosa attorno alla terra da parte di un privato – Musk con Starlink – sia un atto di pirateria bella e buona, occupando senza regole uno spazio comune e impedendo ad altri di fare lo stesso in futuro, in potenza, lui invece controbatte che se non è proibito, si possa fare.
Al di là del fatto che ho chiaramente ragione io, mi viene in soccorso il Presidente Mattarella che, in uno splendido discorso tenuto a Marsiglia un mese fa in occasione del conferimento di una laurea honoris causa, vale la pena leggerlo (è in francese solo all’inizio, cortesia), si esprime su molte questioni di grande attualità e sostanza, dimostrando una volta di più di essere l’unico statista rimasto in questo cavolo di paese e che il tempo ce lo preservi. In particolare, riporto un passaggio sulla questione iniziale:

Accanto a questa nuova articolazione multipolare dell’equilibrio mondiale, si riaffaccia, tuttavia, con forza, e in contraddizione con essa, il concetto di “sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo e che la mia generazione ha combattuto.

Tema cui si affianca quello di figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche.

Ricordiamoci cosa detta l’Outer Space Treaty all’Art. II: “Lo spazio extra-atmosferico, compresi la luna e gli altri corpi celesti, non è soggetto ad appropriazione da parte degli Stati, né sotto pretesa di sovranità, né per utilizzazione od occupazione, né per qualsiasi altro mezzo possibile”.

L’età moderna è stata caratterizzata dalla “Conquista”, di terre, ricchezze, risorse.

Che bravo, Mattarella, un marziano in questi tempi miseri. Come il Berlinguer del film di Segre, peraltro.

il tempo esige infine il suo tributo (la canzone più antica del mondo)

«Finché vivi, mostrati al mondo, / non affliggerti per niente: / la vita è breve. / Il tempo esige infine il suo tributo».

Questo è il testo della canzone più antica del mondo. Ed è un testo saggio, «non affliggerti per niente», come dicono quelli che hanno capito il senso. Perché poi, comunque, il rendiconto arriva, afflizione o meno.
Il testo è inciso su una stele, il cosiddetto ‘Epitaffio di Sicilo’, databile tra il secondo prima e secondo secolo dopo cristo, non c’è concordanza. La cosa interessante è che il testo, distinguibile in epigramma, epitaffio e dedica, riporta sopra la notazione musicale frigia, fatta di punti, parentesi orizzontali, trattini orizzontali e verticali, così:

Il che, translato da chi lo sappia fare, diventa nella notazione moderna:

che ci porta al poter suonare la canzone più antica del mondo. Completa, bisognerebbe dire, perché esistono frammenti anche più antichi. Eccola, poterla ascoltare è a dir poco emozionante, per chi si emoziona:

Oddio, completa: a voler essere pignoli ne manca una riga, perché il disgraziato scopritore, un tal Edward Purser proprietario di una ditta edile che scavava a scopo ferrovia nel 1883 ad Aydın, in Anatolia, pensò bene di portarsela a casa come portafiori e siccome non stava bene in piedi ne taglio un pezzo alla base. Bravo. Poi l’archeologo William M. Ramsay, meritorio, con un paio di passaggi rintracciò la stele e se la portò via al museo, dove è ancora visibile, a Copenaghen.

Il testo completo: l’epigramma «Un’immagine, la pietra, / [io] sono; mi pone / qui Sicilo, / di un ricordo immortale / segno durevole», cui segue l’epitaffio di stampo oraziano, «Finché vivi, mostrati al mondo, / non affliggerti per niente: / la vita è breve. / Il tempo esige infine il suo tributo» e, infine, la dedica «Sicilo [, figlio] di Euterpe», se si accetta l’interpretazione della musa. Detta così sembra una delle mie traduzioni al liceo, gli achei, i tronchi posarono la spiaggia, ecco la sera. Certo. Prenderei l’epitaffio e lo terrei per buono, questa musica che proviene dalla notte dei nostri tempi e da un noi lontanissimo qualcosa ci dice, ci suggerisce un atteggiamento, un approccio che vale la pena fare proprio, perché è un po’ l’unico ad avere senso.

le allegre nonché inutili guide turistiche di trivigante: tre cose per una notte a Edimburgo

Tre cose tre, semplici semplici, da fare a Edimburgo arrivando tardi la sera, ovvero livin’ like a scottish. Microguida con le immagini che è più semplice.
Prima cosa, precipitarsi al pub, scegliendo possibilmente uno tra i grandi classici.

È vero che dopo le otto le cucine sono chiuse ma la birra c’è e qualche nuts o crisps da metterci insieme si trova sempre, con quei gusti aceto-rognone che hanno loro. E poi ci sono le persone, che due chiacchiere appena arrivati sono un’ottima accoglienza. Anche se in prima battuta non si capisce una vera fava, storpiando loro qualsiasi termine vagamente vicino all’inglese oxfordiano. Ma poi si avvia.
Seconda cosa: scegliere, se possibile, un albergo all’altezza. Che vuol dire non necessariamente caro, anzi può essere una stamberga, ma che abbia carattere. Io l’ultima volta, un anno fa, sono arrivato tardi, non c’era molta scelta, e ho fatto il signore. Dopo le pinte, dunque, ho salito le scale per farmi la finta che io abbia una vita sana.

E in tema sono arrivato nella mia camera-biblioteca. Estasiato da cotanto sfoggio british, ho poi tommasianamente controllato, non poteva essere vero.

E infatti, costole tagliate a un centimetro, per fare la libreria tutta uguale, ikeanamente. Non smettendo di ridere, mi sono accostato ai dettagli, alla lampada-macchina da scrivere, di grande eleganza e ho scritto alcune cose ben illuminate, immaginando che Safran Foer sia stato qui.

Sul tavolo tipografico ho trovato la rivista che si confa al posto, la rivista sui castelli scozzesi, ovvio. Con ben diciassette pagine di ispirazione per i matrimoni in salsa highlands. Tutto come si deve, per fortuna.

Fortuna avevo il mio ereader che in quella stanza-biblioteca non c’era un libro nemmeno per caso e così mi sono addormito felicemente, sognando brughiere e mastini dagli occhi di brace.
Finalmente mattina ed ecco la terza cosa, compimento delle dodici ore notturne a Edimburgo della guida: la colazione. Questo posto sì, lo segnalo, in centro e sgangherato e fantastico per questo: lo Snax cafè, gestito da sbrigative ragazze scozzesi, pronte a spaccarti la faccia se esiti appena appena.

Bellissimo. E avanti con la full scottish breakfast, che a differenza dell’english, fuck!, ha link e lorne sausages, speziate che poi ti chiedi perché? ma al momento avanti tutta, black pudding, niente scones fighetti ma un panino intero buttato lì così, poi i classici: fagioli, uova, patate, quello sì il tattie scone, bacon ma a fettazza spessa. Perché siamo scozzesi.

Bene, tutto fatto. Poteva essere una notte più eccitante e movimentata, certo. Ma per quello ci sono le guide apposite, la mia è quando arrivi tardi e non si riesce nemmeno a cenare. Fatte queste, è mattina, la colazione dei campioni si è fatta ed Edimburgo è tutta da girare.

Magari facendo un salto dentro quell’edificio lungo e basso a destra, che c’è la venditrice di uova di Velázquez da vedere. Ed è gratuito, perché in quell’isola i musei sanno farli girare, perdio.

Le altre guide inutili:

adda | amburgo | berlino | bernina express | bevagna | budapest (gerbeaud) | edimburgo | ferrara (le prigioni esclusive del castello estense) | libarna | mantova (la favorita) | milano (cimitero monumentale) | milano (sala reale FS) | milano (tre abbazie) | monaco di baviera | monza e teodolinda | tre giorni in nederlandia | oslo | pont du gard | roma (attorno a termini) | roma (barberini) | roma (mucri) | roma (repubblica) | roma (termini) | da solferino a san martino (indipendenza) | torino (le nuove) | velleia | vicenza

Francis il muro parlante: cacca al diavolo

E fiori a Gesù, ovviamente. E anche a papa Giovanni, il papa della bontà.

Scrivere sui muri è arte sopraffina e dovrebbero farlo solamente coloro che sanno ciò che scrivono. E il teologo che ha scritto questa invocazione sa quel che fa, usando una formula diretta, concisa, fulminante, saltando anche quell’articolo che renderebbe tutto meno incisivo e, anzi, aggiungendo un tocco di familiarità che già il simbolo dell'”abbasso” suggeriva. E via, chissà come ci è rimasto male, il demonio.

le scritte sui muri:
a saperlo prima, aggiunte, arriva l’estate, attualità stringente, avverbiunque, basta!, bellalavita, bellezza assoluta, braccia restituite all’agricoltura, cacca al diavolo, dal libro dei Savi IV, 42, dialettica politica, e tutto il resto, fatevi una vita, fuori gli obiettori, fuori gli obiettori (due), i cattivi, i lavoratori più disciplinati, i tre comandamenti, il benessere, il clero, il genere, la lasagna, la musica alternativa, le certezze, le decorazioni, l’immigrazione, l’indignazione, maledetta la fretta di far la rivoluzione, maria jessica, mentalità aziendale, nella strada e nella testa, palumbo, pas de quartier, però serve, pio pio tutto io!, politica contemporanea, possiamo smetterla?, prima sopra, ora sotto, rubare ai richi, sintesi politica, sintesi politica due, speranza per tutti, superminimal, togliete quei maledetti calzini, uomini al bar, voce del verbo rapire

il portone del melograno

Le piante sarebbero in realtà due, una per anta.

Il portone, come molto del liberty a Torino, è di Pietro Fenoglio ed è del 1907. Il palazzo non ha invece caratteristiche notevoli, si trova nel quartiere di San Salvario a Torino. I melograni sembrano maiolica e invece sono ferro battuto, c’è dibattito se all’origine fossero di naturale color brunato e se poi siano stati pitturati indebitamente oppure no, la critica si divide. Di sicuro il legno andrebbe rimesso a posto, forse i segni delle scartavetrate e l’impalcatura al palazzo lo promettono.

Una bella sorpresa della domenica mattina a zonzo.

Köln Concert

Cinquant’anni fa avvenne la magia, il Köln Concert di Keith Jarrett.

Era tutto sbagliato, il piano, l’atmosfera, l’umore, la sala, la strumentazione, il pubblico eppure – o forse proprio per quello – ne uscì l’improvvisazione più clamorosa della storia delle registrazioni jazz. E comincia riprendendo il gingle degli annunci del teatro, per dire. Divenne l’album per pianoforte più venduto di tutti i tempi. «Le migliori improvvisazioni sono quelle che vengono quando non ho nessuna idea», diceva Jarrett, viva la mente sgombra del lui ventinovenne. Scrive Ricciarda Belgiojoso sul domenicale: “Trovò ispirazione nella melodietta con cui il teatro annuncia l’inizio dei concerti, il pubblico ne ridacchiò e iniziò un flusso inarrestabile di groove e vamp, ostinati di lunghi minuti su un solo accordo o un paio di armonie alternate, sonorità modali e moti swingati, idiomi blues e gospel ma anche classici e debussiani. Evitò i registri più deboli, gli acuti, i gravi e diversi tasti neri a centro tastiera, con melodie seducenti come solo lui”. E prosegue: “Come tirar fuori il meglio da una situazione di difficoltà: il Köln Concert diventò poi caso studio per le lezioni di management del «Financial Times»”. A me il disco, doppio, lo regalò il mio amico P. alla fine degli anni Ottanta e per me si spalancarono territori da esplorare di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza. Te ne sono ancora grato, P. Se qualcuno volesse sentirmi fischiettare tutto il primo lato, vengo volentieri a domicilio la sera.