l’invasione, giorno nove: ci mancava la centrale nucleare

Parlarne è l’unico modo per capire, confrontarsi l’unico per scambiarsi informazioni e dare un peso complessivo alla situazione. Con il rischio di fare geopolitica da salotto, sicuro, ovvero mettere sullo scacchiere complessivo forze, poteri, interessi, storia, volontà e giostrarli come se i meccanismi fossero lì da vedere. Non è così, se abbiamo il buongusto di non avventurarci in discussioni anatomiche o mediche – quasi, gli ultimi due anni hanno anche dimostrato il contrario – per manifesta ignoranza, tanto meno bisognerebbe avventurarsi per terreni così impervii come, appunto, la situazione globale, i cui fattori determinanti sono incalcolabili. Ma parlarne, come dicevo, è l’unico modo per affrontare un pericolo distante ma non tanto, non così da non avere conseguenze dirette. È anche il modo per misurare questo pericolo: non avendone esperienza diretta, visibile o tangibile, tendiamo a misurare il grado di rischio in base alla reazione delle persone di cui ci fidiamo, se sono spaventate ci preoccuperemo, se sono tranquille tireremo un respiro temporaneo di sollievo. Era accaduto anche all’inizio della pandemia, tra i nostri sistemi di valutazione, in assenza di componenti oggettive, la reazione del contesto è importante. Per questo, non tanto parlarne in assoluto quanto ha senso parlarne con le persone cui assegnamo un valore di giudizio e di comprensione dei fatti e degli eventi. E al momento, siamo tutti preoccupati.

In questo senso, ovvero per aggiungere elementi alla comprensione dello scenario, segnalo due articoli che vale la pena leggere, uno di Barbara Spinelli per il Fatto e uno di Tomaso Montanari per Micromega. Non c’è necessariamente da essere d’accordo, anzi, ma sono importanti le considerazioni, aggiungono elementi all’insieme. Spinelli racconta il percorso che dalla caduta dell’URSS ha portato la NATO a espandersi a est, e anche la UE, contraddicendo accordi presi in precedenza e andando a interferire con l’area di influenza di un paese che, è vero, abbiamo progressivamente considerato sempre meno rilevante. Il discorso è interessante e va preso per quello che è, una sintesi di trent’anni di evoluzione storico-politica dopo la fine della contrapposizione dei due blocchi, e vanno evitate quelle tentazioni che, soprattutto a sinistra, spingono a equilibrare con saccenza torti e ragioni da una parte e dall’altra per far morire il discorso e avere la sensazione di aver fatto la propria parte, seduti in salotto.

Più complesso il discorso di Montanari, che ragiona su una possibile terza via tra il sostegno all’oppressa Ucraina e all’aggressore Russia, in ottica pacifista. Il discorso è articolato e vale la pena leggerlo e pensarci, Montanari alla fine è uno dei pochi intellettuali odierni che prendono posizione e pongono alcune questioni sotto una luce diversa (grazie C.).

La Russia attualmente ha occupato 70.300 chilometri quadrati di territorio ucraino, circa l’undici per cento del totale, pari alla superficie dell’Irlanda. Con i territori occupati nel 2014, circa 45.200 chilometri quadrati, la percentuale supera il venti per cento, in totale. Cominciamo a capire, e le dichiarazioni di Putin in questo senso sono chiarissime, che siamo solo all’inizio e che una soluzione rapida, anche paradossale come quella che l’Ucraina si arrendesse immediatamente, è al momento fuori discussione. La Russia, oltre alla questione ucraina, ha da rivendicare al pianeta un peso, una forza e un’area di influenza cui non intende rinunciare, anzi. Oltre a obbiettivi che ancora non sono chiari e non lo saranno di certo a me. Occorre dunque pensare in tempi più lunghi, sia per il supporto materiale agli ucraini in Ucraina e fuori, sia per la propria sopravvivenza emotiva, necessario pensare anche a sé.

Grazie a un’amica, stiamo utilizzando un canale aperto rapidamente da un’associazione ucraina per inviare medicinali e farmaci. Ieri sera è partito un TIR pieno, ne siamo contenti, man mano vedremo di cosa ci sia bisogno e quali saranno le richieste. Una precisa è già arrivata ed è di soldi per acquistare giubbotti antiproiettile. Sono onesto, la risposta è stata no. Le ragioni sono svariate: sia perché la preferenza è di non inviare danaro ma beni, sia perché a questo tipo di dotazioni dovrebbe, eventualmente, pensare qualcun altro, vedi il discutibile voto del parlamento italiano dell’altro giorno, cioè riteniamo serva un ragionamento complessivo al riguardo e valutazioni che non siamo in grado di fare. Ci occuperemo di cibo, vestiti, medicinali. Curioso il contrasto. Fuori con un amico a camminare e a ragionare del futuro, Ucraina ovviamente compresa, passiamo più volte attorno al TIR che viene caricato, osserviamo le operazioni. Di fianco, ormai è buio e siamo in una zona industriale, auto di grossa cilindrata truccate, smarmittate e illuminate con luci blu sul fondo, giocano a fare sgommate e accelerazioni gradasse. Non è una novità, da parecchio accade, lo sanno tutti: sono gli ucraini. E danno pure parecchio fastidio a chi, qui, ci abita. Ci sono vie dove non si può passare perché ti guardano male, non salutano, sembrano aggressivi, a volte esibiscono simboli fascisti. Eh sì, sono gli stessi, cioè sono ucraini tanto quanto, alcuni bravi e alcuni rompicoglioni, come ovunque. Ma dare una faccia a un’idea è sempre operazione interessante, caricare un camion di aiuti per persone che qui a fianco ti danno fastidio e con cui convivi a fatica è un processo non banale.
A proposito di tempi lunghi, stanno già arrivando molti profughi, con numeri che faranno impallidire qualsiasi numero legato all’immigrazione in tempi recenti, si parla di almeno centomila nella mia regione in tempi relativamente brevi. E serviranno case, vestiti, cibo, soldi, bisogna organizzarsi, per quanto mi riguarda stiamo verificando i canali affidabili aperti e strutturati, vedremo. Quelli intanto fan sempre le garette con le auto.

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