minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro: tre. Il cervo padano. Vongole e cippi. La possente. I fatti di quasi dieci anni fa

Da Comacchio all’abbazia di Pomposa è praticamente d’obbligo, non che resti molto del grandioso complesso ma la chiesa e il refettorio sono senz’altro motivo valido per andarci e, se qualcuno desidera, fermarsi in fervorosa preghiera come fece papa GPII. E poi c’è la questione delle note musicali, ne dissi tempo fa. Per arrivarci, tocca percorrere un po’ di Romea, oggi statale 309 ma strada antichissima, da Venezia a, appunto, Roma. Oggi è uno sbaffo di asfalto lungo il quale corrono tutti, lanciati verso chissà che, e ne fanno le spese perlopiù le nutrie sfracellate a bordo carreggiata. A fianco, alberghi, night, ristoranti abbandonati o fatiscenti, risultato di una pianura e di un sistema produttivo che va pian piano estinguendosi, servirebbe che chi di dovere ci pensasse complessivamente, non di comune in comune, di piazzola in piazzola. Basta curvare e si torna nella quiete del delta, tutto è più ovattato e placido. A pochi chilometri si trova il Boscone della Mesola, una riserva naturale che conserva la vegetazione primordiale della pianura padana, cioè i boschi e i sottoboschi che una volta andavano da Torino all’Adriatico, e non solo, anche flora e fauna tipiche, basti dire il cervo della Mesola o cervo delle dune, che è un tipo di cervo diverso da tutti gli altri e che discende proprio dai cervi che una volta abitavano il nordest produttivo, prima dei Galan. Posso immaginare che il Boscone si sia salvato per esser stato riserva di caccia degli Este, avendo a uno dei capi il castello di Mesola, delizia estense con pianta quadrata e torri ai vertici di gran bellezza e armonia. Il parallelo mi viene in mente subito con il bosco della Fontana a Mantova, altro luogo meraviglioso e anch’esso riserva gestita dal nucleo dei carabinieri per la protezione ambientale. Bei posti. Soprattutto col nebbione.

Da lì a svirgolare a Goro, centro mondiale della vongola, è un attimo, basta seguire il Po, quello di Goro per l’appunto. Il paesello, oltre ad aver dato i natali a Maria Ilva Biolcati, persona gentile, colta e rispettosa come poche, è stretto tra il fiume e il mare, per cui pesca di qua e di là con grande soddisfazione. Fornendo vongole allo mondo intiero. Non che ci sia molto altro tra l’argine e il porto, perché il paese è bruttarello, con rispetto parlando, una scuola in stile razionalista pulito par persino bella, qui. Dopo un ottimo cappuccino gorese, il milionesimo, scavallo il Po di Goro per andare a Taglio di Po, una località appena di là dove si conserva un cippo di confine tra Repubblica di Venezia e Stato Pontificio.

Sghimbescio ma c’è. Ma il passaggio del Po di Goro era una volta un salto politico e culturale colossale, dal papato alla repubblica marinara, e in una certa misura lo è anche oggi, perché dalla Romagna si finisce in Veneto. Meno di una volta, certo, che era dalla gestione PCI a quella della DC in un balzo, oggi il leghismo – atteggiamento ben più ampio del bossismo o del salvinismo, direi un misto fatale di individualismo, liberismo e assistenzialismo – è diffuso in modo un po’ più uniforme. Vorrei vedere differenze marcate tra il di qua e il di là ma per così pochi chilometri non riesco. Il confine è qui e non al Po, più su, avrei giurato. Qui sono nell’alto Polesine, quello di cui domani è l’anniversario della grande alluvione, settant’anni, quella per cui ancora poco tempo fa in tutta la bassa padana fino al Piemonte si facevano le lotterie nei bar con l’uovone di pasqua polveroso per aiutare gli alluvionati, cinquanta o sessant’anni dopo. E il Polesine per me ragazzetto era un’entità teorica, poteva benissimo essere il delta del Mekong o, chissà, magari dove c’è Littoria o chi lo sa. Qui la questione delle acque è sempre aperta, i corsi cambiano, il paesaggio si modifica di continuo sia perché spinto dall’ambiente sia perché ripristinato o adeguato dall’uomo, tutto resta così perché è pieno di idrovore che pompano fuori l’acqua, mica nulla è consolidato.

Di delizia in delizia, costeggio il Po fino a Copparo, rientrando nel più amichevole territorio romagnolo. Lì, sulla piazza di quella che era la residenza estense ci sono due bar, uno è il ‘Dolce vita’, l’altro l”Amarcord’, di cliché in cliché. In tema, incontro due persone, Mares e Dovis, meraviglia dell’onomastica romagnola, cantata anche propriamente dagli Offlaga Disco Pax. Un tempo dalle mie parti conoscevo due fratelli, Igler e Inglis, ma in Romagna il livello è più alto. Costeggio ancora, ma son sempre distanze ridicole, perché voglio andare a Stellata. Certo, c’era la casa di vacanza del figlio di Ariosto, vero, ma quella che voglio vedere io è la rocca possente.

In tutta la sua possenza. Da qui e alla sua compagna al di là del fiume si stendeva una catena lunga seicento metri, e se avete mai sollevato una catena grossa un’idea l’avete, che per ragioni difensive o di pedaggio ostruiva la navigazione in questo punto del Po, dove fa una curvona e diminuisce la velocità. La rocca di là poi se l’è portata via lo stesso, il fiume, d’altronde stava all’esterno, questa no, è ancora qui da mille anni, rifatta e ricostruita. È bello si chiami così, possente, perché è piccolina e tamugna, tozza. È chiusa perché, a ben guardare, le mura sono solcate da crepe che ne mettono a rischio la stabilità. E qui mi tocca fare i conti con ciò che io, a distanza e incurante, avevo dimenticato: il terremoto del 2012. Già, perché un conto è il terremoto che distrugge tutto, Friuli, Irpinia, e un conto quello che scuote, percuote, danneggia ma non abbatte, o quasi. Allora che si fa? Tocca sistemare, ristrutturare, rattoppare con grazia, materiali acconci e grandi costi. E se sono fienili, cascine, castellotti, le spese sono ingenti e non sempre ne vale la pena. Oppure non ci sono soldi, almeno adesso, si vedrà più avanti, come nel caso delle chiese, tante, e degli edifici pubblici: il municipio di Mirandola, per citarne uno, è ancora tutto puntellato, con il cartello ‘lavori urgenti di ripristino per il sisma 2012 eccetera’, che lascia straniti, e i soldi forse cominciano ad arrivare adesso. Ed è l’edificio principale del Comune, voglio dire. La campagna è costellata di ruderi, costruzioni rovinate o parzialmente crollate e inagibili, a volte castelli lasciati a sé, ma anche le cittadine sono punteggiate di cadaveri avvolti nei tubi innocenti, in attesa di non si sa che.

La vista è straziante, per me. Eeeeu, son passati dieci anni, quasi, sarà tutto ricostruito. Eh no, è più complicato. Gli stessi soffitti affrescati del castello estense di Ferrara sono tutti ricoperti di nastro adesivo speciale, per tenere insieme le parti dipinte attorno alla crepe. Mica banale sistemare e resaturare, servono tempo e un sacco di soldi. Ed è l’Emilia efficiente, che fa e non si tira indietro, ma le cose sono complesse, davvero. Tocca fare delle scelte e son scelte che chiunque di noi farebbe, inutile ragionare in teoria. Io, da lontano, mi rendo conto di non averci pensato e di aver dato per scontate molte cose.

Per chiudere, visito Cento, Mirandola e poi prendo la via per Ostiglia, seguendo il fiume in senso contrario e tornare a casa. Un bel girolino, tanto in pochi chilometri, lo consiglio. Che è il motivo per cui scrivo i minidiari di viaggio, dare suggerimenti, perché le cose io già le ho in testa. Andarci a novembre, poi, o d’inverno, ha un sapore tutto suo e secondo me è il momento migliore. Ognuno decida per sé, chiaro, ma mai scartare le ipotesi a priori. È un cattivo modo di viaggiare e, in definitiva, di stare al mondo.


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