minidiario scritto un po’ così delle cose recidive, ovvero perseverare nella pandemia: aprile, costi che abbiamo deciso di sostenere, feste indiane, «missione vaccini compiuta», raccontare l’irraccontabile

Gialli, dunque. Tutti gialli tranne la Sardegna, che era l’unica bianca fino a poco fa e, ora, è l’unica rossa. Curioso. Dopo un bel po’ di tempo, ho perso il conto, si ritorna in zona gialla. La sensazione è che sia il risultato di un compromesso tra situazione sanitaria e spinte politiche e sociali, il che è del tutto normale e comprensibile, e ciò è confermato anche da chi queste cose le studia (mi riferisco allo studio dell’istituto Bruno Kessler): invece di optare per il «rischio calcolato» aprendo tra un mese, abbiamo scelto il «costo calcolato» di procedere ora, il che significa che abbiamo considerato accettabili un tot di morti al giorno, trecento, la possibilità che a breve i contagi ricomincino a salire e, di conseguenza, l’eventualità che si sviluppino varianti e la semicertezza di richiudere di nuovo, da qualche parte in qualche momento. Si poteva aspettare ancora? Sarebbe stato meglio, non c’è dubbio, dal punto di vista sanitario è fuori discussione. In Europa molti Stati chiudono di nuovo, seriamente, nel mondo la situazione non è buona, India su tutti con i contagi e i morti del tutto fuori controllo. E una variante indiana, cosiddetta, che ancora non si capisce se ci preoccupi oppure no, il fatto di aver bloccato tutti i voli farebbe pensare di sì. E la famiglia veneta di origine indiana che è andata sul Gange per la festa di vattelapesca tornando contagiata mi lascia interrogativo: io manco riesco a uscire dalla provincia e là fuori c’è un mondo che va a contagiarsi al Kumbh Mela e torna indietro? È che noi siamo tutti presi dal grande dibattito: coprifuoco alle 22 o alle 23? L’intensità della discussione riesce pure a superare quella sulla superlega europea, già massima, e il resto passa in terzo piano. In quarto, l’ostruzione vergognosa della Lega alla legge Zan contro l’omotransfobia, cinque mesi, per citare un argomento degno di maggior spazio nel pubblico dibattito.
Il corso delle vaccinazioni, da quando è stato preso in carico dallo Stato e sfilato alle Regioni, ha preso una direzione sensata, soprattutto in Lombardia. Il numero complessivo si è attestato sulle trecentomila al giorno e, sebbene sia lontano dalle dichiarazioni incaute di molti, comincia a dare qualche risultato: i pazienti fragili hanno finalmente ricevuto la prima dose e con loro i conviventi, gli ultrasettantenni pure e ora ci si sta avviando ai sessantenni, la corsa ai vaccini per estrazione lavorativa e sociale finalmente è stata fermata. Anche l’isteria quotidiana sulle mancate consegne dei vaccini da parte delle aziende sanitarie pare essersi sedata, nonostante la questione sia ancora effettiva, è tutta questione di toni e di atteggiamenti tendenti al dramma. Per le poche competenze lasciate alle Regioni, la Lombardia qualche disastro riesce a farlo comunque: tre giorni fa dichiara ufficialmente che, a causa della mancanza delle dosi, AstraZeneca non sarà più somministrato come prima dose ma solo come richiamo, oggi stablisce l’esatto contrario, ritornando alla situazione di prima. Ed è a questo punto che Bertolaso, consulente della Regione per il processo di vaccinazione, sente che è arrivato il momento di lasciare, dichiarando come un supereroe sbilenco «missione vaccini compiuta» e con un gesto del mantello fare ritorno alla batcaverna. Ma non hai fatto nulla, dice la popolazione della città, ma lui è già volato via. Volato dove? A Roma, dicono i bene informati, arroma per candidarsi come sindaco. Aridaje. Dopo i fallimenti come consulente covid in Lombardia, Umbria, Sicilia e di nuovo Lombardia, dopo i trascorsi tremendi alla Protezione civile ai tempi del terremoto dell’Aquila, del G8 alla Maddalena, che ancora gridano allo scandalo, dei massaggi pecorecci sulle rive del Tevere, giova anche ricordare che si era già candidato a sindaco di Roma, ai tempi con Forza Italia, promettendo – non è una battuta – «il Tevere balneabile», descrivendo Roma come «una città terremotata come l’Aquila» (non furono contenti in Abruzzo), spiegando che il suo programma era stato approvato dalla moglie. Poi, come sempre fa, mollò sul più bello e se ne andò.

Grande giornalismo da queste parti.

Sono sollevato, lo confesso, per la vaccinazione di parenti e amici a rischio per età o per patologie varie, una delle cose che mi angustiava sta andando un pochino a posto, me ne rendo conto, anche se solo al primo turno. Capita di discutere con vicini o conoscenti sulla vaccinazione in sé e più passa il tempo più i miei toni diventano duri e decisi, sopporto poco le argomentazioni di chi ha deciso di soprassedere. Perché, ed è la cosa che non comprendono o non valutano, la loro scelta ha delle conseguenze ben precise e verificabili sulla nostra di vaccinarci, cosa non reciproca. Ne vanificano o rendono incerti gli effetti, offrendo il fianco allo sviluppo di varianti, cosa che si ripercuote poi su tutti. Al contrario, ricevono solo frutti positivi da chi si sottopone a vaccinazione. Vaccinazione peraltro che, ricorderei sempre, nessuno di noi fa volentieri, potendo evitare farmaci quando possibile. Non escludo testate.
In attesa mentre accompagnavo altre persone al vaccino, riflettevo. Scene da film catastrofico, enormi strutture piene di persone, tutte distanziate, operatori in camice, tutti con la mascherina, schermi iperattivi che continuano a chiamare numeri, file tra accettazioni, anamnesi e somministrazioni, ed è tutto purtroppo vero. Un milione di morti in Europa dall’inizio, un milione. E se dovessi raccontare tutto questo a chi nulla sapesse, a chi non ha fatto in tempo a vedere? Non ci crederebbe, non potrebbe crederci. Gli parlerei di lockdown, di Ddl del sabato sera, di controlli, di divieti, di misure sanitarie, già immagino gli occhi sgranati e le domande incredule: e le scuole? Chiuse. Ma come chiuse? Non può essere. E tutti la mascherina, sempre fuori di casa. Strabuzzano. E due mesi chiusi in casa, ma chiusi chiusi. Non ci crederebbero, impossibile. E un milione di morti. Penserebbero alla spagnola ma è un racconto lontano, come si racconta la peste di Atene. Per loro, per noi non più. E i ristoranti chiusi, i cinema, i teatri, le librerie, le bocciofile, le scuole guida, rimandate tutte le scadenze, anche fiscali, rimandati i controlli medici per patologie gravi, rimandati gli esami, rimandata la vita. Anche il me di quindici mesi fa non ci potrebbe credere ma pensare di raccontarlo a una persona precisa mi rende la cosa più evidente.

Ora, però, siamo gialli. Quindi, è l’ora delle nuove prime volte e stasera vado al ristorante. Sono un po’ emozionato, si può fare. Certo, secondo le regole bisogna stare seduti all’aperto, ed è aprile, e alle ventidue bisogna essere a casa (altro dibattito fondamentale: alle ventidue alzati o accasati? Quante energie ben spese). Quindi, golfino, cappello, guanti, prenotazione per le diciannove, diciannoveetrenta, e via, si ritorna a un qualcosa che assomiglia lontanamente a ciò che conoscevamo ma che, al momento, va benissimo così ed è persino emozionante.


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