è un fatto di reazione a ciò che vedi (the human comedy)

Elliot Erwitt è un grande fotografo. Giovane con Capa, Steichen, Stryker e i giganti, lavorò ad ampio spettro per la Standard Oil e seguendo i grandi avvenimenti dalla visita di Nixon in URSS nel 1959 all’insediamento di Obama. Nato a Parigi da genitori ebrei russi e poi naturalizzato americano, prima di parlare di politiche di immigrazione bisognerebbe sempre ricordare i contributi dati al mondo in ogni campo da chi si muove, chi si mischia, chi cambia. Chi sta fermo, in generale, ha meno da offrire.
Teorico della fotografia che coglie l’attimo, che scatta nel momento giusto senza costruire la posa ad arte, ha spiegato al riguardo: «All photographers strive for that special moment that transcends the subject and transcends the place and [has] something that last and can be looked at for years to come. And that’s what is called magic», traduco malamente: «Ogni fotografo lotta per quell’attimo straordinario che trascende il soggetto e trascende il luogo, ed [ha] qualcosa che dura e che può essere guardato negli anni a venire. E questo è ciò che si chiama magia». Famose molte sue foto, la signora con la faccia di bulldog sugli scalini, la bambina al museo egizio e così via. Non si tratta, ovviamente, solo di aspettare e cogliere, per quello uno fotografa un saltatore in lungo con un tempo brevissimo. Si tratta di partecipare a ciò che si inquadra, di averne compassione, di condividerne la sorte, di coglierne e restituirne l’umanità ed è questo che rende Erwitt grande.
Una delle sue molto riuscita è la fotografia scattata al Prado, nella sala in cui sono esposte affiancate la Maja vestida e la Maja desnuda di Goya.

Elliott Erwitt, Prado Museum. Madrid, Spain. 1995. © Elliott Erwitt | Magnum Photos

Va spiegata? No, non credo. È buffa, anzi sono buffi quegli uomini ingruppati che sembrano aggiungere al senso dell’arte qualcos’altro, e il tizio in primo piano in impermeabile – porello, inconsapevole – aggiunge un elemento non da poco in questo senso; la contrapposizione con la donna composta, sola, che osserva con attenzione la vestida completa la composizione della foto.
Ricordo un’intervista di Erwitt in cui spiegava che, come tutte le sue foto, anche questa non fosse preparata, si trattò solo di aspettare, aspettare finché non fosse venuta un’occasione. Non disse, o non lo ricordo, quanto aspettò, chissà se scene del genere in quella sala siano frequenti oppure no, non saprei che augurarmi.
Sto lì, guardo questa grande foto che dice molto su noi persone con grande umanità, mi aspetto sempre che a un certo punto l’uomo apra l’impermeabile verso la Maja ma, forse, questo è ingiusto.

concerti mancati pt. 4

No Doubt.
Ovviamente parlo del periodo di Tragic Kingdom, quella miscelona spassosa di ska, rock, punk rock californiano e pop, con Gwen Stefani elegantissima o con i pantaloni bracaloni a saltar su un palco. E tutti gli altri giù. E un sacco di giochi di rimando col pubblico.

Ma il bello dev’essere stato dal vivo, perché suonavano davvero bene, lei cantava pure esattamente come in sala se non meglio, facile constatarlo, basta guardare il concerto all’Arrowhead Pond di Anaheim, Live in Tragic Kingdom, 1997. Il tutto uno spasso. Poi, giustamente, si fecero i progetti propri e bon, lei avanti tutta senza invecchiare e io qua a dire che me li sono persi. Jump.

Di concerti ne ho visti tanti, ma ne ho mancati molti, molti di più.
10.000 Maniacs, Crosby, Stills and Nash, Dire Straits, Natalie Merchant (questo lo recupero a novembre), No Doubt

TIL: oggi ho appreso che Mike Oldfield

aveva diciannove anni quando pubblicò ‘Tubular bells’. Così l’ho scritto anche su Reddit: “TIL that ‘Tubular Bells’ was the debut studio album of Mike Oldfield and that he was only 19 years old when he recorded it, playing all instruments”. E abbiamo detto un sacco di cose interessanti e spassose e poi mi hanno cancellato perché un altro aveva detto la stessa cosa sei anni fa. Ma io l’ho appreso oggi. Ahah. Vediamo se ne posso apprendere una che nessuno l’ha già detta.

elevating them from mere visual aids to striking coats of arms serving as rallying cries for sports fans

Certo. Fedele alle mie funzioni di servizio, ricordo che l’estate prossima ci saranno le olimpiadi.
E alle olimpiadi servono prima di tutto, prima degli impianti, prima dei record, prima delle strade, servono i pittogrammi. Cioè quelle immaginine con il simbolo di un’attività sportiva. Devono essere semplici ma comprensibili, riproducibili facilmente – sono le stesse che utilizzeranno le tv, i siti, chiunque al mondo e che danno l’immagine grafica all’evento stesso – sia in grande formato che, soprattutto, in quello piccolissimo, a fianco dei programmi. Ecco, l’organizzazione ha appena presentato ufficialmente quelli delle prossime olimpiadi e posso dire, modestamente, che pochetti sono gli obbiettivi raggiunti. Ma alcuni sì, eccome. Eccoli.

Il trivial pursuit per non vedenti:

Il torneo di call center:

L’infermeria delle olimpiadi:

La lotta a sciabolate dei paragrafi:

L’accecamento del ciclope:

E in piccoletto, peggio:

E in piccoletto con i colori originali?

Blurp, gasp, sknorz. Ma son cose da addetti. Forse.
Un esempio del ciclismo nel tempo olimpico.

Anche in questo, anni Settanta vincono.

la guerra tra fascisti

Ci mancavano i fascisti di Hamas, la strage dei civili, colpire una festa e fare scempio dei corpi in favore di telecamera. Difficile, ancor più difficile ora sostenere i diritti del popolo palestinese rinchiuso nella striscia, ora che, giustamente, si prova compassione e pietà per i morti innocenti di parte israeliana. La parte della comunità internazionale che già, in grande prevalenza, sosteneva la causa israeliana ora non può che irrigidirsi.

Non posso che, ancora una volta, essere con tutte le mie forze contro ogni fondamentalismo religioso di qualsiasi parte, con il nazionalismo e unitamente a esso vera iattura e disgrazia per le vite degli altri.

Perché adesso la reazione sarà certo oppressiva, cieca, indistinta.

un altro pezzo che se ne va

Pessime notizie per bandcamp, la piattaforma musicale più sensibile ai ricavi degli artisti. Prima è stata venduta a Epic Games, colosso dei videogiochi, dalla serie Unreal al Fortnite di oggi. Già non è che si capisca e si poteva sospettare la perdita di indipendenza con questa acquisizione, nonostante magari il miglioramento con i servizi di backend. Ma è durata diciotto mesi, Epic ha licenziato 830 dipendenti e ha venduto bandcamp la settimana scorsa a Songtradr che, quantomeno, ne condivide l’ambito, sebbene sia del tutto orientata sulle licenze e la monetizzazione della musica. Difficile non ne vengano influenzate le politiche di bandcamp, a domanda specifica gli acquisitori hanno svicolato. Il che non è bene su tutta la linea.

Inoltre, scrive «Pitchfork», Songtradr non ha ancora riconosciuto l’associazione dei lavoratori e non ha ancora offerto a tutti i dipendenti una posizione all’interno della «nuova» bandcamp, soprattutto. Il sindacato interno, bandcamp united, è in agitazione e ha pubblicato un comunicato piuttosto preoccupato.
Non bene no. Aspetto che qualcuno a un certo punto mi dica che la mia bella collezione me la posso infilare in saccoccia e andare a quel paese, di solito, purtroppo, funziona così.

la luna è un’altalena tra le nuvole di una notte stellata

E anche quest’anno tocca assistere impotenti all’ingiustizia: niente premio nobel per la letteratura per lui.

No, l’hanno dato a Jon Fosse, a saper chi sia. Sarà il fratello di Bob. Per la sua «immensa opera, scritta nel norvegese Nynorsk e che spazia tra una varietà di generi (…) costituita da una ricchezza di opere teatrali, romanzi, raccolte di poesie, saggi, libri per bambini e traduzioni», evabbè, ciao. E la grandezza del nostro prediletto? Non solo uno che scrive cose come: «Io e te, come bellissime stelle, 30 mila metri sopra il cielo», impareggiabili, e l’ancor più ermetico: «Io e te, elevati all’amore», che lirica, ma si senta qui che incipit:

«”Cathia ha il più bel culo d’Europa.” Il rosso graffito, frutto di una mano furtiva che di notte aveva colpito con la complicità di una bomboletta spray, splendeva in tutta la sua sfacciataggine su una grossa colonna del ponte di corso Francia.
Vicino, un’aquila reale, scolpita tanto tempo fa, aveva sicuramente visto il colpevole, ma non avrebbe mai parlato. Poco più sotto, come un piccolo aquilotto protetto dai rapaci artigli di marmo, era seduto lui».

E di cui vorrei ricordare il titolo della tesi, presentata quest’anno in una prestigiosa università telematica per la laurea in lettere, proprio come me: «Due visioni comparate dell’amore: Jack London e Federico Moccia, differenze e affinità di stile, visione e ispirazione attraverso il tempo». Grandissimo, anzi grandissimi, lui e London, in quest’ordine.
No, Fosse, te pare? Ma che mondo è in cui Fosse batte Cathia? E Ernaux, Gurnah, Glück, Handke, Tokarczuk, Ishiguro? Chi sono costoro? Che vogliono? Perché e percome? Ci mancavano «la drammaturgia e la prosa innovative che danno voce all’indicibile», ma che è sto indicibile? Senti qua come si capisce bene: «Con una persona che non conosci a volte ti trovi meglio, ti racconti più facilmente». Forse che non è vero? Forse che non accade così?
Nobel a Moccia, perdio, istituiscasi il dicibile comitato. E poi l’oscar, che è anche reggista.