
Villa Foscari, detta la Malcontenta. Poi si svoltola per il fiume ed è subito Venezia, lo sai. Che meraviglia, eh?
Villa Foscari, detta la Malcontenta. Poi si svoltola per il fiume ed è subito Venezia, lo sai. Che meraviglia, eh?
Alle 15:33, due minuti fa, l’equisticchio di primavera si è manifestato nella sua ineluttabilità e ci ha proiettato in primavera, la stagione che piace davvero a tutti.
Ma non a tutti va il mio augurio, solo ai buoni e ai brutti, i belli se li bacino tutti e gli altri si arrangino. E chi non sa come funzionino le stagioni, se lo studi. Che io non ho mica tempo di star qui a spiegare le processioni azimutali dei corpi celesti sospesi nella inmateria cosmica.
Il Consiglio d’Europa ha deciso – non fidatevi dell’ANSA – di espellere la Russia dai propri membri.
Sebbene girino parecchie versioni, probabilmente dovuti a traduzioni errate, non è stata la Russia ad andarsene quanto il contrario. Poco fa la bandiera è stata ammainata, come si vede qui sotto (la foto del tweet sopra è evidentemente d’archivio).
Se l’invito è a non confondere il Consiglio d’Europa con altri organi dell’UE, ed è una buona occasione per capire cosa invece sia, è comunque un passo indietro per tutti, come era inevitabile. Difficile fare passi avanti con i carri armati. Dai negoziati in corso oggi trapelano alcune bozze di accordo, che prevederebbero il cessate il fuoco e il ritiro, la neutralità ucraina, il divieto di basi straniere su suolo ucraino, un non meglio chiaro status legale per i russi in territorio ucraino (Russia ceases fire and withdraws; Ukrainian “neutrality” without Nato; Kyiv keeps its army but can’t host foreign bases; Russian gets legal status in Ukraine). Pare comunque che non vi siano progressi positivi. Qualche commentatore ha letto la notizia dell’altro ieri – la Russia avrebbe chiesto ai cinesi armi e soldi, detta male – come un tentativo dell’intelligence americana di far venire allo scoperto la Cina, finora silente e priva di una posizione chiara. Tutto da verificare. E bisogna fidarsi poco di quanto dichiarato in tempi di guerra. E a me fa impressione anche solo dirlo.
L’altra sera, con un nutrito gruppo di amici, si parlava della guerra. È necessario farlo, perché chiunque di noi, consciamente o meno, misura la propria angoscia sulle reazioni delle persone di cui si fida, mentre ci si scambiano informazioni. Funziona così, serve. Abbiamo messo a fuoco come sia necessario distinguere le diverse tipologie di lettura che di questa guerra si possono fare. Dal punto di vista ideologico, per esempio, è chiaro che il trasporto avuto finora per situazioni come in Cile nel ’73, in Argentina poco dopo, in Palestina, ha poco a che fare con la situazione attuale, dato che – a meno che non si sia stipendiati da Mosca – né con la Russia né, ideologicamente, con l’Ucraina. Nonostante l’evidente sopruso. Dal punto di vista umanitario, invece, compassionevole, tutte le guerre dovrebbero essere uguali e le reazioni di chi non è coinvolto anche. Ma sappiamo che non è così. La distanza, per esempio, conta molto. E se le immagini che da anni arrivano dalla Siria raccontano di un mondo diverso, con luoghi, case, abiti, volti non familiari, quelle dell’Ucraina invece sono più vicine, è un mondo che si ritrova a Vienna, a Budapest, in Bulgaria, nella ex Jugoslavia, la cultura non è distante, le case sono simili, le facce anche, e per questo la sentiamo come una guerra in Europa, oltre alla posizione geografica. Ma non vale per tutti, alcuni di noi si sentono vicini, altri no, ma non per questo meno consapevoli, almeno al nostro tavolo.
Mi colpisce, invece, moltissimo – e mi dà molto molto fastidio, lo dico – la reazione di parecchie altre persone, anzi l’assenza di reazione: poiché l’invasione non ha effetti diretti sulle loro vite, nessuna ripercussione al momento, l’argomento non esiste. Non viene proprio toccato, l’alzata di spalle è inevitabile e il cambio di discorso immediato, e si parla di serie tv, di vacanze, oddio, del tempo. Lo vedo tutti i giorni in ufficio, mi snerva e mi ferisce, perché su molte altre questioni non ce la faremo, se le persone non si sentono coinvolte. E sì che, il clima per esempio, le ripercussioni ci sono eccome, come in questa guerra. Ma qualcuno ci penserà, atteggiamento simile negli scorsi due anni. Ossignore.
Un amico sapiente di cose ignote, mi racconta di Mariupol e di come se ne fosse occupato a un certo punto della sua vita. Perché quello «era uno dei centri sul Mar d’Azov abitati dai pochissimi ma antichissimi parlanti di dialetti neogreci di origine anatolica», io già fatico a seguire ma lo so, immagino i millenni, i movimenti delle persone, le lingue, le culture nate e poi trasformate, mi sono messo come altri a leggere una storia dell’Ucraina e della Russia, lo volevo già fare, tanto vale. Questo è facile, al massimo capita di sentire rammarico, il difficile è incontrare ucraini qui in Italia che difendono a spada tratta Putin e l’intervento russo, e lì è difficile, davvero difficile. Anche perché, a parte l’evidente ingiustizia, è poi complicato parlare di una situazione che intravediamo a malapena da due settimane, infarcita di notizie scollegate di divulgatori video. Per carità, non c’è altro modo, in tempi brevi, ma i millenni riassunti in poche frasi li reggo poco.
Una persona cui voglio molto bene mi ha invitato a proseguire con la vita, a non tralasciarla, a non lasciarla scorrere via, sebbene la testa sia rivolta ad altro e alle situazioni dolorose che ci circondano. Ha ragione, così farò, anche se ora non mi viene niente da scrivere, non ho la leggerezza necessaria per farlo in questo momento. Ma devo. Una cosa non deve escludere l’altra. E lei anche, l’ho invitata a fare la stessa cosa, di rimando. Era un ottimo consiglio, talmente buono che allora vale per tutti i sensibili pensanti. Focalizzati, concentrati sulle cose importanti, pronti, ma senza tralasciare ciò che abbiamo e di cui dobbiamo prenderci cura, ciò che siamo e ciò che abbiamo da dare e da prendere.
Degli Shins ho ampiamente detto negli anni, qui e altrove, ma vale sempre la pena dirne qualcosa. Avendo già inserito una canzone degli allora Flake music nelleccanzoni del giorno, sottolineando la curiosa inversione, c’è spazio allora per gli Shins, gruppo bislacco come tutte le cose che escono da Portland, a metà tra nerd fastidiosi e spiritosi musicisti consapevoli, difficile distinguere. Di certo, le canzoni sono eccellenti, i dischi pure – Oh, Inverted World e Chutes Too Narrow da soli basterebbero per una carriera – e anche i video, non tutti, hanno tocchi di genio.
Ecco, una gran canzone con un video sensibile e spassoso insieme, è quella dichiarazione di intenti che è Simple song. Senza raccontarla troppo, il padre deceduto lascia ai tre figli la casa, ma devono scoprire come. E i suoi scherzi, mai apprezzati, proseguono anche dopo la morte. Scherzi? C’è sentimento, molto, nella canzone e negli Shins, sbagliato fermarsi alla lettura superficiale.
La melodia trascina e quando cantano I know that things can really get rough when you go it alone / Don’t go thinking you gotta be tough, to play like a stone / Could be there’s nothing else in our lives so critical / As this little hole arrivando al ritornello allora davvero la faccenda si fa seria, più di quanto il video suggerisca. Al get rough io immancabilmente mi metto a cantare a squarciagola nel mio inglese inventato. Perché oltre ai miei limiti, i testi degli Shins son mica facili da memorizzare e da comprendere. Portland, è proprio quella roba lì. Sembran scemi, loro dicono weird parlando dei portlandiani – ne hanno fatto anche delle serie – ma poi è tutt’altro. Let’s be honest. Oh, per esserlo, mica tutto degli Shins.
Trostfar, gentilmente, raccoglie tutte leccanzoni in una pleilista comoda comoda su spozzifai, per chi desidera. Grazie.
Se le sanzioni, di per sé, non sono singolarmente determinanti, esse lo possono diventare per accumulo. In effetti, si registra un crescendo di iniziative, dalla chiusura degli spazi aerei per le compagnie russe, ai porti canadesi, al congelamento degli investimenti a Londra del russo Direct Investment Fund, alle catene della grande distribuzione polacca che tolgono dagli scaffali i prodotti russi, alla Germania che ha tolto la certificazione alla società svizzera operatrice del Nord Stream 2, permettendo così agli Stati Uniti di multarla per insolvenza e portandola all’orlo della bancarotta, al parlamento europeo che con 637 voti a favore ha approvato lo status di candidato all’entrata nell’UE dell’Ucraina, fino giù giù giù alla federazione internazionale di judo che ha revocato la cintura nera a Putin. È di certo una pressione non sufficiente, da sola, ma che ben può accompagnare le iniziative politiche. E comunque comincia ad assumere una proporzione considerevole, complessivamente.
Si moltiplicano anche le iniziative di assistenza, oltre a quelle tradizionali di invio di alimenti e medicinali nel paese: per esempio, l’UE ha deciso di integrare fin da ora l’Ucraina nel proprio sistema di distribuzione elettrica, permettendo così al paese invaso di lasciare il sistema russo e bielorusso entro poche settimane; oppure, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria e Romania hanno deciso di permettere a chiunque mostri un passaporto o documento ucraino di viaggiare gratuitamente sulle proprie ferrovie, cosa davvero encomiabile. L’Italia, magari?
Tutto ciò, però, non basta. Zelenskyy chiede ripetutamente una presa di posizione netta di Europa e Stati Uniti – this is not a movie, ha detto – ma per il momento nulla e difficilmente l’avrà. Secondo il parlamento ucraino, otto ore fa delle truppe bielorusse sono entrate nel paese. I negoziati in Bielorussia hanno mostrato alcuni aspetti chiari, la delegazione russa era formata da figure di secondo piano. Immagino, e mi si perdoni la geopolitica da sottoscala, che una trattativa tra invasore e invaso abbia poche speranze, senza un mediatore o altre presenze di peso al tavolo. Che, magari, impongano un cessate il fuoco durante i negoziati. Alle ripetute richieste del governo ucraino alla NATO di chiudere lo spazio aereo sopra il paese, i vertici dell’alleanza hanno risposto di no, poiché suonerebbe come un atto di guerra a sua volta. I bombardamenti proseguono senza sosta. Insomma, la situazione continua a essere drammatica.
Perché scrivo queste righe? Nessuna analisi, non potrei, è un diario, una specie di resoconto di ciò che leggo, sento e provo. Scriverne è uno dei miei modi di affrontare le cose, belle o dolorose, mi serve per riflettere e per cercare di dare il giusto peso agli avvenimenti, per processarli. Mi rifiuto di prendere il caffè in ufficio con tutti parlando d’altro, come se nulla stesse accadendo, mi dà fastidio e mi irrita. Anzi, non ci vado proprio, in questi giorni. Dell’invasione ne parlo con amici e con tutti coloro con cui valga la pena parlarne, per riflettere, confrontarsi insieme e condividere la preoccupazione e l’angoscia. Seguo con attenzione alcuni live threads su canali affidabili e degni di attenzione, qualcosa riporto qui ma non è per quello che valga la pena leggere queste mie righe. Non ne vale la pena proprio, le scrivo per me, a quello servono. Ricomincerò a scrivere le mie cretinate, non ora.
Che dire? Una canzone meravigliosa, chiaramente ispirata a Bach e Percy Sledge, evocativa, malinconica e progressiva insieme. Spiace dirlo oggi, dopo la notizia della scomparsa di Gary Brooker, ovvero uno degli autori, voce e tastiera della canzone, praticamente quasi tutto.
A me ricorda il grande freddo, questione anagrafica, ma se avessi avuto la possibilità di sentirla nel 1967 mi avrebbe colpito, eccome. Un singolo fenomenale, ancora non invecchiato per nulla e distinguibile da mille e mille altri per qualità, suono e melodia. Tra i pochi inarrivabili.
Trostfar, gentilmente, raccoglie tutte leccanzoni in una pleilista comoda comoda su spozzifai, per chi desidera. Grazie.
Scendo per la gola del Furlo, il vecchio tracciato della via Flaminia, che così si chiama per via del forulum, il piccolo buco che tanto piccolo non è: una galleria lunga quaranta metri e alta cinque fatta scavare da Vespasiano per evitare un passaggio più in quota. Provate voi a scavarla a scalpello e poi vediamo se è piccola. La via era strategica al punto che esisteva già un traforino scavato dagli etruschi, stavolta. Il passaggio era talmente frequente che persino i volonterosi baciapile del mascellone contemporaneo, che passava sovente, costruirono un maschio profilo sul monte usando muretti a secco. Poi l’esplosivo partigiano mise fine allo scempio, per fortuna.
Io scendo perché voglio andare a Jesi, cittadina bella e antica. All’interno della solita cerchia muraria, prima etrusca, poi sabina, poi picena, poi romana, poi malatestiana, poi papalina, insomma qui la storia è così, lì dove c’era il foro una volta ora c’è una piazza, bella ampia, che voglio vedere. Perché nel 1194 l’imperatrice consorte Costanza d’Altavilla, dicono le guide, ‘passando qui per caso’, e figuriamoci se un’imperatrice poteva mai fare una cosa per caso. Fu per caso che le vennero le doglie qui, quello sì. E siccome era vecchissima, ovvero aveva quasi quarant’anni, era dice qualcuno stata in convento, ed era gravida dell’erede del trono di Sicilia e dell’impero, allora dovette partorire pubblicamente in piazza, in questa piazza, per sopire ogni dubbio. Lo racconta Giovanni Villani: «Quando la ‘mperatrice Costanza era grossa di Federigo, s’avea sospetto in Cicilia e per tutto il reame di Puglia, che per la sua grande etade potesse esser grossa; per la qual cosa quando venne a partorire fece tendere un padiglione in su la piazza (…) e mandò bando che qual donna volesse v’andasse a vederla; e molte ve n’andarono e vidono, e però cessò il sospetto». Il figlio, fortuna nostra, di quel 26 dicembre – data notevole e fredda, perdio, per partorire in una tenda – fu lo stupor mundi Federico II di Svevia, esempio di cosmopolitismo culturale pacifico che ha molto da insegnare a noi oggi. Una lapide sulla piazza dice: ‘A Federico, imperatore eccetera re eccetera e su tutto uomo di pace, con orgoglio la città di Jesi pose’, ed è bello quell’orgoglio. E quanti Federici, mi rendo conto solo adesso, e tutti insieme. Per me ha un significato particolare.
Graziosa, Jesi quest’estate è stata sugli scudi per le vittorie calcistiche più che per Federico, mi par giusto. Mi diverto sempre a ricordare l’aneddoto per cui l’imperatore, che non aveva nessuna voglia né di far guerre tantomeno crociate e che viveva nel suo magnifico regno tra Sicilia, Calabria e Puglia parlando sei lingue e dando inizio alla poesia siciliana e all’integrazione con la cultura araba, alla fine capitolò e andò a liberare il santo sepolcro, contro voglia. Una volta lì, vide quelle belle distese di sassi e mari morti e disse: ‘ah, è dunque questa la Terra Promessa di nostro Signore? Si vede che non era mai stato in Sicilia’. Irraggiungibile. Da Jesi piglio su i miei stracci e ripercorro la costa verso nord, perché mi avvicino alla fine del giro e comunque a Pesaro ho ancora da fare. Vado a Gradara, lì appiccicato, dove c’è un castello noto e un borgo medievale da vedere. Il posto è noto, ovvio, per le vicende di Paolo e Francesca, meno noto ma il filibustiere Pandolfo lo vendette a Francesco Sforza, tenendosi poi soldi e castello, a me ricorda invece certi giochi su Linus fatti con Ennio Peres molti anni fa, riprendendo i Wutki. Unendo più teste arrivammo terzi un anno e c’era sempre uno, maledetto, che pigliava sempre il massimo, era davvero di categoria superiore. Mi piace immaginarlo a capo del CERN, oggi. Il castello era rudere fino all’inizio del secolo, poi con un restauro tanto provvidenziale quanto fantasioso divenne un luogo di attrazione, per famiglie e bighelloni della domenica. Pare di essere a Grazzano visconti, per intenderci: densità imbarazzante di ‘locande’, famiglie che arrancano per la minima salita cui sembra non importare granché di nulla, c’è persino uno vestito da pulcinella, per intrattenimento.
Me la filo, poco più giù c’è il cimitero di guerra di Gradara, lo voglio vedere. Perché proprio qui, alla fine dell’estate del 1944 c’era la linea gotica e tra la fine di agosto e quella di settembre gli scontri furono furiosi, terminando con la liberazione di Pesaro e di tutte queste colline. Ma il prezzo fu molto alto, come sappiamo, da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema fino ai caduti in battaglia, e qui ce ne sono più di mille. Quasi tutti inglesi, e intendo inglesi, canadesi, irlandesi, oltre a due indiani e un belga, facevano parte dei battaglioni alleati che presidiavano la zona. Il cimitero è all’anglosassone, per quanto riguarda la guerra, con le lapidi tutte uguali e tutte in fila. Sono morti quasi tutti il primo e il due settembre, dev’essere stato un inferno. Non ci vuole molta astrazione, ad avere un’anima, per vedere un uomo dietro ogni lapide, e con lui famiglie, figli, affetti, speranze e aspettative, lavori lasciati e mai più ripresi, desideri che nulla avevano a che fare con la guerra. Il pensiero è straziante e commovente per me, me ne sto seduto davanti alla collinetta e son da solo, qui, tra gli ulivi. Compilo il registro, poche visite ma commosse.
Ripiglio su e piego verso un altro bel roccone malatestiano, a Montefiore conca. Certi brutazzoni senza manco le finestre, quasi. Ma difensivi, quello serviva. Mi sa che ho scavallato e sono tornato in Romagna, vicino c’è Cattolica e il dialetto è tornato quello di più su. E poi, giuro, sono davanti a una fabbrica di fisarmoniche, lampante, e c’è un’indicazione per Gatteo a mare. La storia che ti raccontano subito è quella di Costanza – oggi i nomi ricorrono – Malatesta, che ebbe in dote il castello per sposare Ugo d’Este. Non quello di Parisina, uno prima. Comunque, questo Ugo morì presto e Costanza rimase vedova ventenne. E cosa si fa quando si rivuole indietro un bene da una donna? La si accusa di ‘vita sregolata’, zoccoleria, e con fare italico pure contemporaneo la si fa fuori. Lo zio Galeotto, nomen omen, fece venire uno addirittura da Forlì, tale Foriuzzo. E così il 13 ottobre 1378 il tizio diede seguito ‘all’atroce mandato’ e ciao Costanza, che da allora porella le tocca pure fare il fantasma nella rocca.
Basta buttare lo sguardo sulle colline che si vedono almeno due rocche o paesini turriti che vien proprio voglia di vedere. Io punto e scelgo Montegridolfo, l’ultimo comune romagnolo prima delle Marche, luogo di aspri combattimenti nel’44, sempre per via della linea dei Goti, tra le valli del Conca e del Foglia, proprio sul crinale. Il paesello è una meraviglia, tutto un mattone, tenuto da far impressione, ma è pure deserto. Non c’è nessuno, ma nessuno nessuno. Solo io. Abbaia un cane, nessun segno di vita. C’è qualcosa che non so? Fu spesso conquistato e perso dai Malatesta, il mio preferito tra loro è un Malatesta che di nome si chiamava, fantasia, Malatesta, e non era il primo ma il terzo. Quindi, Malatesta III Malatesta. E per meglio distinguerlo, lo chiamavano ‘il Guastafamiglia’. Penso in riferimento alla sua famiglia di provenienza, perché al singolare, ed ebbe vita guerresca più che amorosa.
Si potrebbe andare avanti per molto, di paesino in paesino, o puntando sulla biblioteca malatestiana di Cesena, uno splendore, o su Rimini, Ravenna, hai voglia, o scavallare di là a Città di Castello che sta a soli novanta chilometri e si spalanca un altro mondo, quello umbro e toscano, insomma la scelta c’è, eccome. Ma io ho finito, torno a casa, al massimo deraglio sul ponte romano sul Rubicone a Savignano, se proprio, magari in qualche luogo pascoliano, per metterci ancora qualcosa in mezzo, ma torno. vedo all’orizzonte una fascia grigia e stagna di smog che non mi invita per nulla, vorrei non vorrei ma se vuoi, vabbè. Alla prossima.
Parto dal fondo. È la prima notte, sono seduto sotto la loggia di fronte al palazzo ducale di Urbino, il palazzo di Federico da Montefeltro. Il cielo è nero e punteggiato di pallini luminosi che io, che vivo in Padania, non so che siano. Su ogni stipite di porta, portone, basamento di finestra, cornicione, formella, c’è scritto Fe.Dux, cosa che piaceva moltissimo al mio papà, che col duca condivideva sia il nome sia la passione per le dimore spaziose. Anche dentro è lo stesso, ogni camino, porta, sia lo stipite che l’intarsio stesso, cornice, riporta la stessa dicitura, il duca voleva che non se lo dimenticassero mai.
Tanto il salone è enorme quanto lo studiolo, il celeberrimo e magnifico studiolo, è minuscolo e raccolto. Vita pubblica e vita privata, politica e raccoglimento, studio. Non ho controllato, ci ho pensato solo ora, ma potrei scommettere qualcosina che lì Fe.Dux non ci sia. Non ce n’era bisogno. Ma son vagheggiamenti.
Sono qui fuori, dicevo, e davanti al palazzo rotolano e svolazzano bicchieri di plastica, sacchetti, nastri colorati, il vento li spinge nell’angolo. Sono il resto delle innumerevoli lauree, brevi, brevissime e spero anche lunghe il normale, che oggi ho visto per la città. Corona d’alloro immancabile, vestiti da matrimonio sulla Tiburtina, sneakers intonse per i maschi e tacchi insensati per le donne, bottiglie di rosé di marca, fotografie a migliaia tutte da telefono, amici e amiche dedite al rituale organizzato come fosse un addio al celibato o nubilato. Non mancano vestiti da fenicottero rosa per il laureato/a, di quelli che si trovano su amazon, giochini con i passanti per il reciproco imbarazzo e ancora meno manca l’immancabile coro: dottore/ssa delbucodelcùl. Non c’è niente di male, intendiamoci, bene questo piuttosto che il silenzio. Il male, secondo me, è che sono tutte, tutte, tutte uguali. Identiche. Certo, è un rito, e per se stesso non deve mutare, l’atto performativo ha avuto luogo e tutto va come deve andare, d’accordo. Però è un entusiasmo un po’ stanco, una felicità spentina, o così almeno a me pare. Si fa perché si deve, così non ci si deve pensare. È meno faticoso.
Comunque, hai voglia a scrivere Fe.Dux per ricordarlo ai tuoi sudditi ma, soprattutto, per farlo sapere al futuro e poi questo futuro è pieno di dottori del buco del culo. Come quando al Cairo un paio d’anni fa hanno trovato una colossale testa di Ramsete secondo scavando le fondamenta di un palazzo e uno degli operai si faceva le foto facendo il segno di vittoria seduto sulla faccia, oh: sulla faccia, del faraone. Ci si può anche provare ma il tempo è implacabile, arriva sempre un piccione a cagare sulla tua enorme magnifica poderosa autorevolissima statua.
Ai tempi di Federico, però, i dottori qui non c’erano, né del bucodelculo né di altro. Fu quel minchione di suo figlio Guidobaldo, bravo a far la guerra ma che lasciò estinguersi la dinastia, a fondare l’università. Però Federico ce l’ha fatta lo stesso a guadagnarsi un posto nella memoria dei posteri, noi. E non per quel Dux scritto dappertutto ma perché, oltre a una faccia, anzi a un profilo con quel naso che non è una salita, è un precipizio, oltre a questo costruì una città che è un’idea, tanto bella da stupire ancora oggi, e la riempì di pittori, pitture, scrittori e letterati, libri e poesia, commediografi. Anche fortuna, certo, visto che tra i pittori uno dei più grandi gli nacque pure in casa, ma era evidentemente figlio anche di un clima e di un contesto. E per lo stesso motivo, uno dei più grandi architetti del Rinascimento a pochi chilometri da qui. Tutta la faccenda, comunque, durò poco: a Guidobaldo successero i della Rovere, che avevano dalla loro il papa fresco di conclave, quel papa terribile ritratto da Raffaello vecchietto e spento, ci fu la parentesi dell’altro figlio di papa, Cesare Borgia, brevissima, poi tornò Guidobaldo per poco e poi tutto fu incamerato dal papato. Però furono anni belli, sontuosi e ricchi di conoscenza e cortesia, come racconta Castiglione alla corte di Eleonora Gonzaga, moglie di della Rovere. Guardo il palazzo e faccio mente locale su ciò che mi ricordo, cerco di ordinare le nozioni, alcune intoccate da decenni. Il processo è però sempre più infruttuoso man mano che il bianchello del Metauro si fa strada e la fame sopravviene. Le occasioni di lavoro sono sempre una magnifica possibilità e aver scambiato i giorni festivi con un paio di quelli feriali ogni settimana sta dando grandi risultati: nel palazzo ducale faccio in sostanza una visita privata – ci sono due signori, accidenti – e in trattoria siamo in tre. La stessa Urbino, di solito percorsa da fiumane, è deserta di turisti e le presenze sono quelle abituali, abitanti e studenti.
Ancor più bello che guardare da dentro questo tipo di città è inerpicarsi per qualche colle vicino e guardarle tutte insieme, goethianamente. Raggiungo la fortezza Albornoz, trovo il posto tra le pratoline e poi è tutto facile.
Talmente che pure m’addormo. Poi circumnavigo i colli attorno e vado dall’altra parte, dove c’è una chiesuola da niente (si vede in alto a sinistra nella foto qui sopra) che, però, contiene le tombe di Federico, di Guidobaldo e dello zio Oddantonio. Dall’interno si vede tutta la città ed è bello che abbiano voluto essere sepolti in modo da poter guardare per sempre la loro placida città, che tanto amarono e per la quale tanto fecero.
Passando Rimini è come voltare un angolo e cambiare strada: il centro di gravità permanente non è più Bologna ma Roma. Sarà che siamo sulla via Flaminia, sarà che tutte le strade portano lì, sarà che le valli appenniniche, ortogonali alla costa, vanno in quella direzione, sarà che i cartelli stradali indicano quella destinazione. Alla fine, è la stessa strada che percorse il disgraziato papa Mastai Ferretti che da Senigallia finì a porta Pia a far da ultimo papa re. L’accento si sposta decisamente verso il romano, pur con le inflessioni locali da mevòiscipparculo?, appaiono i friarelli broccoletti, la cicoria passata, molti che vogliono lavorare devono scavalcare l’Appennino. Perché sono duemila anni che per la valle tiberina i collegamenti con Roma sono semplici, per molti secoli andare dall’Urbe a Fano fu il solo modo per venire al nord, agganciandosi alla via Emilia e tirando dritto fino a Milano, crocevia delle vie del nord. Persino quel retrogrado del papa fece subito la propria ferrovia, la Pio Centrale, da Roma ad Ancona, tanto era naturale.
Oggi i miei obbiettivi sono due, cioè sono due le cose che imparerò: cosa diavolo è il Metauro e la sua piana, quella dei trentamila morti romani contro Asdrubale, e la partita era davvero capitale, e che Senigallia non è in Puglia. Quella è Gallipoli, sono confuso dalla fonetica, e qui D’Alema non viene. Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, tutta una dorsale strategica romana di grande importanza e storia: dal porto di Ancona, progettato da Apollodoro di Damasco, alla basilica di Vitruvio a Fano al ponte di Tiberio a Rimini e poi tutto un fiorire di teatri, anfiteatri, mura, castra e domus a punteggiare, ma con regolarità, la costa. Ed ecco come funziona, più o meno. A un quadrato o rettangolo cittadino romano, costruito a una certa distanza di sicurezza dal mare, si sovrappose poi la città medievale, mantenendo e innalzando le mura cittadine e le porte, conservando ponti e decumani. Di solito, in un angolo delle mura veniva costruita una rocca, probabilmente su precedenti strutture militari, un palazzo comunale in centro, poi ducale e poi ancora comunale. Idem durante Rinascimento e secoli successivi, più o meno è rimasto tutto così, magari una villa qua e là, a seconda dei tempi, se turbolenti o meno. Che poi ci fossero i Malatesta di Rimini, i Malatesta di Fano, i della Rovere, il duca Valentino, i Montefeltro o gli Sforza o il papa, poco cambiava da questo punto di vista. Nel 1863, poi, il regno d’Italia, fresco fresco, iniziò la costruzione della ferrovia adriatica e gli ingegneri la fecero passare nel posto più comodo, ovvero a ridosso delle mura, tra le città e il mare. Con il treno, nei primi anni del Novecento fu un fiorire di villeggiature marittime in splendide ville liberty, tutte costruite a ridosso della ferrovia, mantenendo la pineta tra le case e il mare. Poi arrivò lo sviluppo turistico, quello della sabbia di velluto di Senigallia, ben prima di quei parvenu di Rimini e Riccione, via la pineta, alcune ville liberty e giù di condominii praticamente fin sulla sabbia. Ed così che dal centro città per andare al mare, e parlo di quasi tutte le città tra Pesaro e Ancona, si deve: arrivare alle mura, sottopassare la ferrovia, che è un taglio sociale mica da poco, attraversare una breve fascia di belle ville, se ancora ci sono, poi una fascia più lunga di baretti, locali, alberghi a condominio, tutto anni Sessanta, per poi trovare un varco tra i bagni privati per arrivare, finalmente, al mare.
Rimini, lo so che non lo si sospetterebbe, è bellissima. Basti dire il tempio malatestiano, le pescherie e il palazzo ducale, ma ce n’è. Di Pesaro ho detto ieri. Fano, complice la Fortuna che la accompagna da sempre, è graziosa e ha certo avuto momenti sontuosi nella storia, sia romana come dicevo, sia successiva. Le tombe dei Malatesta, deposte nella scoperchiata chiesa di San Francesco, stanno lì a mostrarlo, e la firma è di Leon Battista Alberti, LBA, mica paglia. E se Vitruvio non c’è più, la memoria resta e restano pure molti resti, perché della pentapoli Fano era la capitale. E oggi, tra l’altro, c’è il carnevale, che qui ovviamente considerano superiore a quello di Rio. E di Viareggio e Venezia, figuriamoci. Proseguo il concatenamento verso Senigallia, che non è in Puglia, e lì la struttura è simile, fu la prima colonia romana sull’Adriatico, poi malatestiana, roveresca, con la differenza che ha un fiume, il che ne condizionò favorevolmente la vocazione commerciale. Anche se oggi è profondo forse quindici centimetri. E del turismo ho detto, con Cortina ebbe la prima azienda turistica del paese. E un papa, duraturo e disgraziato, fu quello dei bersaglieri e del non expedit e anche, sciagurato, quello della Repubblica romana. Che la si poteva chiudere felicemente vent’anni prima.
Il mare d’inverno, l’Adriatico in particolare, suscita in me un fascino particolare. Sia per tutta la vita che pare andata via per un momento, promettendo di tornare presto, sia per una certa malinconia ben raccontata da de Andrè. Che poi la malinconia qui è letteratura, è solo perché è chiuso quel che riguarda il mare ma per il resto c’è vita, le calamite da frigo ci sono ancora. Si mangia bene, son cordiali e abituati al foresto, basta rientrare di pochi chilometri che il paesaggio diventa completamente un’altra cosa, basta puntare il dito su una cartina, seee, che posti belli ne saltan fuori a bizzeffe. Non s’è visto, finora?
Un’occasione di lavoro e via. Dico ‘occasione’ perché lo sono proprio, una trattativa veloce, dovremmo vederci, videoconferenza? non scherziamo: vengo da voi. Ovunque c’è possibilità di attaccarci qualcosa, luoghi, giri, panorami, io vado sempre anche se poi il lavoro non lo prendo. Un castelletto, una chiesuola, un palazzetto, un mare o montagna salta fuori sempre. Stavolta è Pesaro, mi ci butto al volo. A seconda delle generazioni, l’associazione immediata è a Rossini o, come capita a me, alla Scavolini. La cucina degli italiani, intendo, come diceva la soubrette sovranista. Belli gli anni della Scavolini Pesaro e qui intendo il basket, hanno un palazzetto da far invidia, oggi sovradimensionato. Dicono qui che il covid sia arrivato a Pesaro con la coppa Italia di basket del 2020, a febbraio. Partite, cene e via, molti ci hanno lasciato le penne, raccontano. La coppa Italia c’è anche ora, talmente il posto è strutturato, ma manca la squadra di casa, lontana dai fasti del tempo delle cucine, oggi è di un industriale del prosciutto. Andrò stasera, son qui, ci mancherebbe. Il covid c’è ancora ma almeno adesso lo sappiamo.
I tempi belli, qui, almeno tra quelli recenti, sono quelli dei mobili: Berloni, Febal, Scavolini, erano centinaia, moltissimi operai, fabbriche, vendite in tutto il mondo e fatturati colossali. Oggi ne son rimaste poche e, mi spiegano, lavorano per Ikea e Mondo convenienza secondo il modello globale: i grandi marchi ti ricoprono progressivamente di lavoro, così tu industriale molli le altre commesse, converti tutto per produrre per loro e solo allora i colossi dettano le condizioni, spesso capestro. Ma a quel punto c’è poco da fare, non sei più sul mercato. E la Benelli? Eccome, la Benelli, motori e corse, tradizione ormai secolare, passando per Morbidelli, padre e figlio, e Rossi, a pochi chilometri da qui. La fabbrica, la Benelli intendo, l’han tirata giù, stava tra la città e il mare, c’era pure l’anello di collaudo, mi dicono bellissimo. Han fatto il museo ma nella fabbrica avrebbero potuto fare grandi cose, un polo fieristico per riprendersi il predominio locale, ora saldamente in mano a Rimini. Ecco un punto. Sembra Romagna, l’accento è diverso ma non troppo, fanno la piadina, il mare ha quel colore, corrono uguale ma è un altro mondo, se uno guarda bene fino in fondo, e si scocciano se vengono confusi, giustamente: sono Marche, altra cosa, Malatesta, Montefeltro, il baricentro è altrove. Quanti parlano di Valentino Rossi pilota romagnolo, buonanotte.
Le colline arrivano al mare, e sono i primi rilievi da Trieste in qua, i villini liberty, quelli rimasti, rimandano a un’epoca in cui la villeggiatura contemplava pochi bagni e molti ombrellini, l’hotel Bristol anche, quando gli inglesi portarono da noi l’idea stessa della villeggiatura, perché qui al massimo si coltivava sopra e si pescava sotto, il diletto era una cosa sentita dire. È vero che la stagione musicale rossiniana ora dura sì e no una settimana concentrata, mentre una volta cinquanta giorni, e porta poco a sentire qualche oste, però ai tavolini del bar ci sono persone che discorrono di opera, molti hanno custodie di strumenti musicali, ogni cittadina ha un teatro molto più grande del Comune, i manifesti degli spettacoli sono ovunque, Eros Pagni con l’Enrico IV in questi giorni, si percepisce che sono cose che si respirano fin da piccoli. Sarà niente ai tempi nostri ma a me, poco abituato, pare ancora molto.
In un posto che si chiama proprio piadinificio mi portano una piadina, ovvio, con fare rituale e atteggiamento mistico, come mi stessero portando qualcosa di consacrato. Naturalmente non dico che a me piacciono i primi due morsi, poi godo meno, piglio e mangio zitto zitto. La casa di Rossini è poco più avanti, molti negozi hanno la ragione sociale presa da arie del maestro, pure le lavanderie richiamano il Barbiere. Figaro. D’altronde pure la Tebaldi era di qui, anche se quasi tutti la pensano di più su, di Forlani non parla nessuno, maledetta schiumetta agli angoli della bocca. Però i giardinetti pubblici intitolati a Bettino Craxi ci sono, devono avere avuto dei trascorsi politici movimentati, negli ultimi anni. I figli non han più la passione, mi dice il geometra dalla bella casa, e forse ha ragione, almeno riguardo a ciò cui sta pensando lui. O, almeno, non hanno le stesse passioni, meno tradizionali. Io ne ho ma mi riconosco, come figlio di cui parla, non le seguo in modo verticale. Lo lascio dubbioso e, probabilmente dandogli ragione, me ne vado al palazzetto, spensierato a metà.