minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: due, vivere a un’altra velocità?, non buttate la chiave, santarrosa

Cose rimaste da fare a Orvieto: il giro della rupe, un sentiero che ne costeggia la base sul perimetro; la visita alle necropoli etrusche. Prossima volta, sempre lasciarsi indietro qualcosa, è il mio equivalente della monetina nell’acqua. Prendo la funicolare perché la voglio provare. Appena costruita, l’aumento del peso della vettura a monte veniva generato con l’acqua, ora ovviamente la trazione è elettrica ma il resto, fino al bigliettaio, è lo stesso. Me ne torno a Roma, come da piano.

Un paio di giorni dopo, riparto. Viterbo, stavolta. Il bello è che è più vicina a Roma di Orvieto, son novanta chilometri dritti sulla Cassia, è pure ancora Lazio ma ci si mette un bel po’ di più, non essendo su linee veloci. E allora entro in un mondo locale, fatto di trasporti misti, treno e autobus, stazioni nel nulla, la lentezza fisica, sociale e umana di cui ci si riempie la bocca nelle città. Provate. Tra calanchi e campi di girasoli, la massicciata dell’alta velocità – non ci si crede quanto rumore faccia il treno lanciato a duecentocinquanta all’ora, micidiale – e cucuzzoli abitati da paesini minuscoli, mi trovo a far passare un’ora nella stazione di Attigliano. Stento a capire dove sia il paese, la stazione è una stanza non-luogo annessa al vero luogo, il bar. Alla cassa, una signora paga le bollette, ci sarà un ufficio postale?, un’altra commenta il titolo di Donna moderna, Tutte in tuta. Il nuovo chic metropolitano, ennò, la tuta no, eddai, il jackpot del superenalotto è oltre duecento milioni di euro, figuriamoci, chi ha preso la chiave del bagno? Arriva er Principe a bordo di una Regata 70s, peserà duecento chili, lo salutano tutti, alla radio Lemon tree dei Fool’s garden, le mani battono sui tavoli manco fosse l’hit dell’estate. Di questa estate. Nei dintorni, questi sì, si segnalano: la sedicesima sagra del cinghiale di Graffignano; la sagra degli arrosticini a Guardea; la festa della trebbiatura di Castiglione in Teverina; la festa della birra a Bassano in Teverina; il palio della colomba di Amelia; la ventottesima edizione del festival Il sole La luna di Giove (è un paese); la festa In bocca al luppolo di Baschi; la sagra del baccalà di Bomarzo; Porchettiamo a San Terenziano. Non male, ci si copre l’estate. Il pullman arriva con venticinque minuti di ritardo ma nessuno fa una piega e per percorrere i ventitré chilometri verso Viterbo fa un giro comico, mettendoci quasi un’ora. Volete la lentezza? Sicuri? Almeno i treni per Tozeur avevano il fascino dell’esotico. Su e giù per dossini e dossetti ricoperti di ulivi e villette di finta pietra, non mi stupirei di passare per Scatorchiano e vedere Brancaleone al ciglio della strada che ostia contro la sorte.

Né etrusca, preferivano il resto della Tuscia, né romana, c’era Ferento con il suo enorme teatro a otto chilometri, Viterbo ebbe il suo momento a fine milleddue, quasi millettré, quando a causa dei disordini a Roma la sede papale fu spostata qui. Fu ampliato il palazzo vescovile e per circa trent’anni i papi risiedettero a Viterbo. Ed è qui che avvenne la più complicata elezione papale della storia della Chiesa, dal 1268 al 1271, ben 1006 giorni di soglio vacante. Tra la debolezza intrinseca della Chiesa, le ingerenze della nobiltà locale e delle monarchie europee, il ferale 1270 in cui morirono i re di Francia, Inghilterra e Navarra, i cardinali non riuscivano a convergere su un nome. I viterbesi, esasperati, rinchiusero a chiave nella sala grande del palazzo i cardinali e li misero a pane e acqua. Era nato il conclave, clausi cum clave. Non tanto per tenerli prigionieri, quanto per evitare le ingerenze esterne. Anche ciò non bastò, allora il podestà di Viterbo fece levare il tetto, esponendo il concilio dei cardinali alle intemperie. Ne morirono un paio ma la ragion di stato viene con evidenza prima. Alla fine, nominarono una commissione ristretta che trovò accordo su Gregorio X, che non solo era in terra santa ma che andava pure ordinato sacerdote. Ma era figura di rilievo e, tra le altre cose, fece diventare il conclave una regola delle elezioni papali. La sala è ancora lì, il tetto c’è ed è piuttosto emozionante sapere quel ch’è stato. Qualche papa dopo, Giovanni XXI, che aveva approssimato la numerazione, considerando buoni un Giovanni antipapa e un Giovanni scismatico – oggi lo consideriamo diciannovesimo -, si fece costruire una bella stanzona con soffitto affrescato nel palazzo per farvi camera da letto e il soffitto stesso gli crollò addosso poco dopo, rendendo necessario un altro conclave. Erano anni complicati, quelli, nello stesso 1271 del disgraziato conclave nella chiesa di San Silvestro in città venne ucciso sull’altare Enrico di Cornovaglia, mica bazzeccole, figlio del re d’Inghilterra e nipote dell’imperatore, Dante lo ricorda. Oh sull’altare, proprio davanti alla piazzetta dove io sto mangiando pacifico la mia insalata, pensa te la Storia.

Dopo, Viterbo non ebbe più picchi paragonabili – se si esclude l’essere oggi il centro nazionale dell’Aviazione – anche se qualche papa in villeggiatura lo vide comunque, specie essendo i Farnese e i Chigi di zona. La via Francigena, in ogni caso, passava e passa di qua, nel bel mezzo della città, e attraversa un quartiere medievale di grande fascino, parzialmente scampato ai copiosi bombardamenti che hanno reso il resto di Viterbo un po’ incerto, irregolare, condominiale e assediato dalle auto. Molto cinema è stato girato qui e, in generale, nella Tuscia, da Fellini a Pasolini alla gloria locale, il maresciallo Rocca. A nord, nella fortezza Albornoz, ancora tu?, poi Farnese ingentilita da Bramante e Vignola, ha sede il museo nazionale etrusco che è, dico io, formidabile per quantità e qualità dei reperti. Perché non è la solita teoria di lucerne, seimila, e qualche scritta destrorsa, ma case, stanze, vasi, scudi, elmi, collane e monete, tutta roba grande e di qualità fina, persino una biga decorata in bronzo. Ecco, per dire, se pensate di avere un tetto moderno e ben fatto, vale la pena vedere questo.

Il promotore degli scavi, parliamo degli anni Sessanta e Settanta, ed è curioso, fu Gustavo Adolfo sesto re di Svezia che non solo finanziò ma partecipò in prima persona alle campagne archeologiche. Quindi, molto dobbiamo alla Svezia della nostra conoscenza degli etruschi, chi mai l’avrebbe detto. Noi avremo scavato i vichinghi? Eccolo bello contento proprio in mezzo, appoggiato sul braccio sinistro.

Mentre ascolto Radio Subbasio leggendo le notizie locali del Messaggero, Sgarbi in città per una conferenza in qualità di sindaco della vicina Sutri, il bollino rosso del caldo, l’entusiasmo romano per Dybala giunto fino a qui, assisto al montaggio dell’impalcatura per la macchina di santa Rosa, che è uno di quei campaniloni devozionali portati a braccia per la città con in cima la statua del santo, santa in questo caso. I numeri sono notevoli: trenta metri di candelabrone, cento portatori, cinque tonnellate il peso con un pro capite ponderoso, cinque tappe sul percorso, ogni anno una costruzione diversa, benedetta la vetroresina. La data è il 3 settembre, per chi intendesse, e rilevo che non c’è una strada una in piano.

La zona è ricca di meraviglie, ogni pochi chilometri qualcosa per cui fermarsi c’è, che sia una necropoli etrusca, un lago vulcanico, una villa rinascimentale in cui hanno girato the young pope, un paesello caratteristico, un castello farnesiano, un licenzino sotto una pergola. Certo, probabilmente è meglio avere un’auto, se non si hanno sei mesi liberi. Oppure, e questa sto cominciando ad accarezzarla, un motorino, che renderebbe la cosa anche più interessante.


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minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro nei, ehm, dintorni di Roma: uno, treni del passato, mappozzoni di tufo, corsi principali, oleoteche

Il concetto di dintorno è da specificare, poi, promesso, provvedo. Mi chiamano per un paio di giornate di lavoro a Roma, però, dice, mi deve scusare ma non sarebbero consecutive, so che lei viene da fuori. Magari posso provare a… Oh, non scherziamo, non provi nulla, lasci tutto così che agli inframezzi ci penso io, incastrando qualche avventurella qua e là. Ma ci mancherebbe che mi comprime il lavoro e poi devo fare una tirata, peccarità. E allora, siccome Roma la mastico abbastanza avendoci vissuto, è l’ora di mettere in pratica un vecchio progettino: visitare qualche luogo a non più di un’ora di treno da una qualsiasi stazione romana. Il che, in tempi di alta velocità, vuol dire anche parecchio, in effetti. E la prima destinazione, con quel suo fascinoso montarozzo di tufo che ogni volta che lo vedo dal treno mi riprometto, è Orvieto.

Prendo un anacronistico intercity, manco pensavo esistessero più, che fa una tratta mirabolante: Roma-Trieste, fermando pure a Rovigo, Ferrara, Monselice, per dire, e in otto ore si vede un bel pezzo di Italia. Potrebbe essere un’altra idea. Orvieto sono tre quarti d’ora, destinazione valida. Il treno è proprio un intercity, l’involucro è intoccato da quando erano i treni principali, dentro un po’ riattato, con quegli scompartimenti da sei che si faceva conoscenza per forza. Ah, avessi una teglia di parmigiana, che bello sarebbe. E che bello un treno che non solo non va da un punto Roma a un punto Trieste a velocità supersonica fermando solo nei punti grossi ma un treno che va da un punto Roma a un punto Trieste facendo ventiquattro fermate in luoghi tutti ampiamente visitabili. Sul serio, ci si potrebbe costruire una signora vacanza, usando sempre la stessa linea, a multipli di ventiquattro ore.

Orvieto sta da parecchio su un panettone di tufo che è fortezza naturale su quattro lati, persino il più sprovveduto fondatore di città avrebbe puntato il dito e detto: qui. Attorno, tutta la piana, il fiume Paglia, affluente del Tevere, le colline sullo sfondo. Già fin dall’ottavo secolo, e dico avanti cristo, fu centro di scambi e commercio, la formula è ‘fiorente’, e in qualche modo lo è tuttora. Ma non è sempre andata liscia: in crisi dal quarto secolo, a causa dei dissidi tra classi sociali etrusche, nel 264 avanti cristo i nobili ben pensarono di chiamare in aiuto i romani i quali non sottomisero, non annetterono ma rasero al suolo, spostando la popolazione a Bolsena, Volsinii novi. Forse già intuirono che avrebbero avuto problemi da una tale roccaforte, chissà. Nel dubbio, si portarono via tutte le statue. Ci vollero secoli per ripopolare la zona, dalla caduta di Roma fu gota, bizantina, longobarda, poi libero comune, terreno di disputa tra guelfi e ghibellini, possesso del cardinalaccio Albornoz, che spadroneggiava da qui a Urbino e oltre, per poi diventare stabilmente possedimento della Chiesa. La città è formidabile, ci sono angoli in cui si potrebbe girare la biografia di Tommaso d’Aquino togliendo solo un paio di lampioni, altri in cui il Rinascimento esplode in gloria, luoghi stratificati per millenni, un duomo da pagina tre dei manuali di storia dell’arte, secondo solo a Siena e pochi altri, che a guardarlo tutto serve una vita, quella meraviglia del pozzo a doppia scala elicoidale di Sangallo per andarsi a prendere l’acqua cinquanta metri più sotto, resti di templi etruschi e il sepolcro di Braye di Arnolfo di Cambio, che detterà la regola per le nobili sepolture per secoli, una chiesa medievale con torre dodecagona che sta sopra una paleocristiana che sta sopra un tempio etrusco che sta sopra resti preistorici villanoviani e sì, mi dice la signora, ci hanno fatto anche il funerale di Anna Marchesini. Che brava che era, dice. Vero.

Come le città costruite su una rupe, per quanto piatta, ha una via principale che la attraversa per il lungo che ne è, ovviamente, il luogo più frequentato. Bergamo, per esempio. E se il turismo è oggi l’attività principale, va da sé che il corso è un’irresistibile sequenza di piattoni di ceramica, armature, oleoteche, delicatezze locali a base di cinghiale, persino la drogheria degli svizzeri, centrotavola di ceramica con i limoni, scudi, vini, elmi, tavoli a intarsio cosmatesco, limoncelli e liquori locali, umbrichelle, negozi di vestiti con lettere a caso, Alkimye, scarpe, olii al tartufo, gallerie d’arte, norcinate, mondi della pizza, cancelletti in ferro battuto, centrini ad uncinetto, mangiarini in ogni dove. Normale, è così ovunque tra Umbria e Toscana. Basta però, come sempre, svoltolare un angolo e tutto cambia, meravigliosi vicoli e vie coronate dal tufo giallo delle case. In A1, verso nord, tutti fermi, vi vedo. Sono tutti camion.

Le motivazioni che portano a scavare un pozzo di cinquantaquattro metri nel tufo possono essere varie e di certo importanti. Nel caso di Orvieto, papa Clemente VII, ritiratosi in città dopo il sacco di Roma, temeva un ulteriore assedio dei lanzichenecchi e garantirsi delle risorse d’acqua sicure divenne primario. Ma il mio pensiero, oggi di fronte a questo pozzo ma come di fronte agli acquedotti romani, non può che andare alla situazione attuale, alla crisi idrica che stiamo vivendo e che, presumibilmente, ci accompagnerà da qui in avanti, al fiume Paglia qui sotto che è un rivoletto e le campagne attorno gialle se non proprio attorno alle coltivazioni, alle piante che, ovunque, mostrano sete e fatica. La ricerca e la cura dell’acqua, la sua conservazione e trasmissione, fanno parte della nostra storia. Nessuno si è mai permesso di sprecarla, perché averla costava fatica, molta. Solo noi, oggi, ne consumiamo in modo abnorme, ne buttiamo ancor di più, la consideriamo una sostanza, nemmeno più un bene, qualcosa con cui far lavare l’auto e, peggio, in cui defecare. Dovremo tornare indietro, già scaviamo pozzi da cinquanta metri ma in pianura, figuriamoci, dovremo anche stavolta reimparare qualcosa che sapevamo già, dovremo spiegare con pazienza ai più lenti che serve attenzione e rispetto, che nulla è infinito e che ciascuno di noi, proprio perché tanti, conta poco in queste situazioni. Ancora.

Infine, ecco la storia dei dintorni. Appena ipotizzato Orvieto, tutti quei ficcanaso che poi ti propongono alberghi, ristoranti, attrattive, mi hanno suggerito anche il miglior dintorno della città. Eccolo:

Vabbè, bella forza, allora vale anche il reciproco. Miglior dintorno di Dalmine? Venezia. Capace anch’io.


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la musica delle stagioni, primavera 2022

C’è stato il solquizzio, madonna, quindi è tempo di cadaunare la pleilista della stagione conclusa e iniziare quella entrante. Ed è già passato un po’. Va bene, con ordine: ecco la pleilista della primavera, oltre settanta brani per un viaggio in macchina da Biała Podlaska a Olsztyn, ma comodi.

Un sacco derobba nuova, ho cercato in giro. E ne sono abbastanza soddisfatto, pochi nomi noti e parecchia gente che ha voglia di fare, secondo me. Alcuni non dureranno oltre la stagione, ma altri eccome sì.

Eccole, tutte: inverno 2017 (75 brani, 5 ore) | primavera 2018 (94 brani, 6 ore) | estate 2018 (82 brani, 5 ore) | autunno 2018 (48 brani, 3 ore) | inverno 2018 (133 brani, 9 ore) | primavera 2019 (51 brani, 3 ore) | estate 2019 (107 brani, 6 ore) | autunno 2019 (86 brani, 5 ore)| inverno 2019 (127 brani, 8 ore) | primavera 2020 (102 brani, 6 ore) | estate 2020 (99 brani, 6 ore) | autunno 2020 (153 brani, 10 ore) | inverno 2020 (91 brani, 6 ore) | primavera 2021 (90 brani, 5,5 ore) | estate 2021 (54 brani, 3,25 ore) | autunno 2021 (92 brani, 5,8 ore) | inverno 2021 (64 brani, 3,5 ore) | primavera 2022 (74 brani, 4,46 ore)

Sfondato il muro delle cento ore complessivamente, ora è solo discesa. Ed ecco le copertine, per amor di completezza e, ovvio, di copertine.

E son diciassette stagioni, CSI trivigante Maiemi, complimenti a me. Fa un po’ paura a moltiplicare per i mesi, già, ma pensando che sia musica allora passa. Butto lì un Arpeggio di Friska Viljor, Wild Flowers dei Warmduscher, My Weight di Lady Pills o Impossible dei Röyksopp, proprio per buttarle lì.

sembrerebbe il nevada ma non lo è

Da quando il 4 luglio del 1997 il rover Pathfinder mandò la prima fotografia da Marte, qui sotto, penso spesso a quell’immagine. Mi colpì moltissimo poter vedere Marte, Marte vero, proprio una fotografia. E poi, mi son detto innumerevoli volte, prova a immaginare se una fotografia del genere la vedesse, che so?, Copernico, Galileo. Non riuscirebbero a crederci, l’emozione li sopraffarebbe (ho incespicato nella coniugazione, lo ammetto), figuriamoci. Senza poi pensare al fatto che il coso è proprio là, su Marte, la cosa diverrebbe incommensurabile.

Domani, 12, la NASA pubblicherà la prima immagine scattata dal James Webb Space Telescope, per noi familiarmente JWST, e un po’ sento ancora l’emozione. Ma come quella prima, mai più.

solquizzio d’estate, tardivo oserei dire

Oggi è il solquizzio d’estate, quel momento in cui una stagione passa, la primavera, e comincia l’estate.

Come sempre, non è il caso di spiegare qui cose che sappiam tutti, la volta azimutale, la processione curvometrica e la derivazione orbitale del pianeta, tutte cose che fanno sì che la stagione muti. Meglio augurarsi una buona stagione entrante, ai meritevoli, e nulla agli insipienti.
Una domanda, solo: com’è che qui è luglio da più di un mese, già?

il Zentralfriedhof Friedrichsfelde Lichtenberg, Luciano ha parlato

Il Zentralfriedhof Friedrichsfelde Lichtenberg è un cimitero di Berlino, piuttosto noto perché ospita il Memoriale dei Socialisti, il Gedenkstätte der Sozialisten, nel quale sono sepolti molti esponenti di spicco del movimento socialista, socialdemocratico e comunista tedesco, tra cui Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. È in questo cimitero che Mies van der Rohe eresse il memoriale per i caduti della rivoluzione spartachista, poi distrutto dai nazisti. Anche Käthe Kollwitz è sepolta qui. Insomma, per dire che merita una visita e, come vado dicendo, anch’io ci sono andato e sono contento di averlo fatto (anche nella mia guida vecchiotta di Berlino). Anche perché a poca distanza c’è quella che fu la sede della Stasi, il museo a essa dedicato e l’archivio dei documenti, ma questa è una storia tutta sua. Bisognerebbe cominciare guardando Le vite degli altri, film magnifico e terribile proprio su questo.
Ma tornando al Zentralfriedhof, impossibile non andarci dopo la recensione di Luciano, che infila due petizioni di principio, una concordanza sbilenca e insieme una valutazione politico-teologica, bontà sua, che da sole giustificano senz’altro la visita all’ameno cimitero.

Come tutti i cimiteri, Luciano lo sa. Socialista, riposa tranquilli.

una cosa cui non avevo mai pensato (righe bianche e nere uno)

Domenica a casa mia, in un quarto d’ora di buriana impressionante che lasciato un tappeto di foglie sminuzzate sul quale si sono adagiati dieci centimetri di palline da golf di ghiaccio, sul quale si è adagiato a sua volta un pino da venti metri, porello, tra le cose danneggiate dalla grandine c’è stata la mia auto. Eh, pazienza, che farci?
Lunedì quando il carrozziere mi ha detto che avrebbe fatto fotografie dei danni, mi sono chiesto come, visto che nelle foto che avevo fatto io non si vedeva nulla, se non i riflessi, nonostante i bozzi siano ben visibili a occhio nudo.
Poi l’ho scoperto e mi è piaciuto. È tornato con un tondo di cinquanta centrimetri di diametro fatto di stoffa tesa a righe bianche e nere. Appoggiandolo sulla carrozzeria e fotografandone il riflesso, là dove ci sono le ammaccature le righe si stortano, a seconda di larghezza e profondità.

E vualà, foto fatte, chiarissime. Complimenti, ingegnoso, davvero non male.