minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno sette, Germania

Prendo la piega del ritorno, in senso ampio, e quindi compio un triplo salto ferroviario: da Lovanio a Liegi (che squadrone lo Standard Liegi quand’ero ragazzino, insieme all’Anderlecht… e vogliamo parlare della Liegi-Bastogne-Liegi?) a Colonia, altra frontiera, a Coblenza, più a sud mantenendo lo stesso lato del Reno e costeggiandolo di nuovo. Coblenza – in Italia fino agli anni Venti chiamata «Confluenza» – è nota per essere, appunto, alla confluenza tra la Mosella, bellissimo fiumone che nasce dai Vosgi in Francia, e il Reno. Il posto, va da sé, è incantevole: chiunque fonderebbe una città alla confluenza di due grandi fiumi. Figuriamoci, le abbiamo fondate su ogni fiume utile, quando ce ne sono due è irresistibile. Ci penso, mmm, città sulle confluenze… vediamo: Lione, vincitrice su tutte, facile. Poi? Beh, Belgrado, altra confluenza notevole. Altre? Non le so, ricordo si sia detto qualcosa su Wuhan, sempre quella, ma non ci metto la mano sul fuoco. Eccola, la confluenza di Coblenza, la conflublenza.

Bello è bello, infatti il luogo è abitato pressoché da sempre, età del bronzo, poi incastellato dai Romani, sempre ansiosi sul confine del Reno, poi dai nipoti di Carlo Magno che proprio qui decisero la spartizione dell’Impero e così via, fino alla Germania moderna. Che per celebrare la bellezza del luogo e l’amenità dei vitigni sui dolci pendii della valle del Reno hanno ben pensato di piazzare cinquemila sobrie tonnellate di bronzo e pietra per celebrare il Kaiser, proprio alla confluenza (è da dove ho fatto la prima foto).

Ben fatto, cari. Erano poi così convinti della bontà della scelta che nemmeno il fortunoso colpo di culo di un bombardamento alleato che ha distrutto la statuona li ha fatti desistere: ci hanno messo un po’, hanno fatto colletta, ma la statua l’hanno ricostruita. Identica. Peccato, non saper cogliere le occasioni.

Una delle cose belle da far sul Reno è guardare le chiatte. Enormi, lunghissime, alcune sono addirittura doppie perché ne hanno agganciate due insieme e raggiungono tranquillamente i centocinquanta metri, trasportano carbone, petrolio, container, gas, e hanno sempre su una o due auto perché una volta a destinazione i piloti tornano indietro e prendono un’altra chiattona. Con gli opportuni giri, dal delta del Danubio verso ovest, si può fare dal mar Nero a Rotterdam tutto via fiume con questi bestioni, o quasi. Una volta a Norimberga, più di dieci anni fa, avevo conosciuto un simpatico rumeno che faceva questo lavoro e mi aveva pure invitato a fare il giro con lui. Io, allora, declinai l’invito e a volte ci penso, un po’ mi sarebbe piaciuto farlo. Forse, invece, ho fatto bene a non accettare, perché sarei magari finito a far da preda a una battuta di caccia in Serbia, chissà mai. Il Reno fa delle enormi e placide anse, però ne fa tante, e per far curvare le chiattone bisogna impostare la curva alcuni chilometri prima e prenderla in derapata, se così si può dire. Curvi a Cremona per girare a San Benedetto Po, per spiegare.

Un’amica molto cara mi ha fatto gentilmente notare che questo mio guardare le manovre delle chiatte sul Reno – cosa che sto facendo proprio ora mentre scrivo e cosa peraltro di famiglia perché piaceva molto anche al mio papà – è solo una variante più sofisticata del guardare il cantiere sotto casa. Ho colto l’allusione di genere e sull’età. Puntualizzo che però, a mio scagionamento, io non ho l’abitudine, ancora, di gridare ai piloti delle chiatte che no, secondo me non si fa così. O guardarli con sufficienza perché io lo saprei far meglio. Non mi pare, non ancora. Io li guardo con l’ammirazione che avevo a cinque anni per i piloti delle ruspe o dei treni, sì, preferisco mantenere la visione poetica dell’infanzia, scelgo quella. Gira, bello, gira, che devi girare ora, mica dopo.

Questo discorso mi porta dritto dritto a una cosa che non mi aspettavo di Coblenza: è un luogo turistico, questo lo immaginavo, il clima è piacevolissimo, mai troppo caldo, è ben servita, ben organizzata ed è, come dirlo?, la Villa Arzilla di Germania, la Florida tedesca, la Cocoon del centroeuropa, insomma l’età media è senza esagerare cinquemiladuecento anni. Anziani, anziani ovunque, ribaldi e prepotenti, con i cappelli a punta dell’esercito guglielmino o con enormi birre in entrambe le mani, spadroneggiano dappertutto. Ed è il loro luogo, è fatto su misura per loro, basti a testimonianza che non c’è il bike sharing ma il Comune mette piuttosto a disposizione i deambulatori gratis. I girelli, li prendi dove vuoi e li molli dove puoi. Come a Parigi e in tutte le capitali ci sono i monopattini, qui ci sono i girelli. Cadauno due foto se no, come me, non ci credete.

Ho un po’ paura, girano in gang e sembrano piuttosto aggressivi. In Germania, poi, non so a voi ma a me se capita di vedere persone davvero vecchissime con gli occhi azzurri penso invariabilmente ai nazisti scampati o nascosti, tipo quelli processati a novantanove anni perché responsabili del campo di Treblinka o cose così. Man mano che passa il tempo la cosa diventa sempre più improbabile, mi rendo conto, ma il pensiero resta. Tutta questa concentrazione di anziani, invece, mi pone un problema, quello della cena. Spiego: uno degli inconvenienti del viaggiare da soli è che nei luoghi turistici capita spesso che non diano il tavolo a una persona sola. Perché salta un coperto, chiaro. La prima volta mi capitò a Firenze, dove i ristoratori sono proprio arroganti, e poi in altre località, anche a Spira qualche giorno fa. Di solito, aggiro la cosa andando a mangiare prima. La cosa è però agevolmente fattibile in Spagna, a Napoli, a Palermo, ovunque si mangi tardi, ma in Germania non sono noti per le cene notturne. Bene, devo anticipare notevolmente. Ma se sono pure in un luogo pieno di anziani, dediti com’è noto alle cene diurne, devo anticipare sull’anticipo, il che vuol dire che – adesso sono le sei meno un quarto – io tra mezz’ora al massimo devo essere già con le gambe sotto il tavolo. Forse è già tardi. Mi guardo attorno. Dove sono tutti i vecchi? Cacchio, sono già tutti andati, maledizione. Niente, devo andare, troverò i parcheggi dei ristoranti tutti pieni di girelli, accidenti a loro. E poi mi tocca andare a letto alle otto. Bene, molto bene. Mi vendicherò, sappiatelo.

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Un commento su “minidiario scritto un po’ così dei giorni in Europa al tempo del contagio: giorno sette, Germania

  1. Tremendo il girello sharing!!!
    Capitava anche a me di guardare con occhi sospettosi certi anziani tedeschi, capelli bianchissimi e inquietanti occhi azzurri da husky, magari normali turisti in vacanza a Jesolo, e chiedermi: ma questi, durante la guerra che facevano? Da che parte stavano? E non c’erano molte parti dove stare.

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