minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: tre bis, il servizio che ripaga di quasi tutti i disservizi

Questa è un’appendicina per una cosa davvero notevole.
In questo minidiario mi sono lamentato di alcuni disservizi e malfunzionamenti, Ravenna poi Cesena, ce ne saranno anche per Gubbio, e quelli restano. Però a Sansepolcro mi è capitato non un malfunzionamento ma un funzionamento talmente bello che mi ha entusiasmato. Il “più bel dipinto del mondo” di cui parlavo qui sotto è un affresco, si sa, e sta sul fondo di una sala cui hanno attorno costituito il museo. Sulla parete opposta c’è una portona che resta chiusa durante l’apertura del museo. Ma viene aperta quando il museo è chiuso.

Esatto, la Resurrezione di Piero della Francesca a vista, tutta la notte.
C’è un cristallo anti-esplosione nucleare in mezzo, chiaro, ma questo è tutto. Chiunque, al ritorno da una pizza o completamente sbronzo, dopo aver ucciso il marito e prima della questura, o prima di lasciare Sansepolcro per sempre, può fermarsi e guardarselo per tutto il tempo che vuole. Alle dieci di sera come alle sei del mattino.
Io questa cosa la trovo strepitosa, m-a-g-nn-i-f-ic-a-a, meravigliosa. La bellezza a disposizione, lì. E ci saranno anche turisti che si vedono la Resurrezione in questa maniera senza andare al museo il giorno dopo, e allora? Allora va bene così. È la realizzazione e resa concreta dell’idea del patrimonio comune, il bene è davvero a disposizione di chiunque ne voglia fruire, l’idea è talmente semplice e bella da essere avanzatissima, guardandosi attorno. Emozionante anche solo raccontarlo.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: tre, salva il più bello e distruggi gli altri, questioni contemporanee?, imbottito

Ero ad Anghiari, sono a Sansepolcro. Ancora fuori dalle mura mi accoglie l’orrendo coso, che da un manifesto solitario celebra l’appuntamento di Pontida cercando di assumere un’espressione compresa, battendosi il pugno sul cuore. Niente da fare, pare sempre il cugino scemo cui tutti dicono di fare domanda per il reddito di cittadinanza e di smettere di mangiare bomboloni al compiuter. E io sarei qui per la bellezza, la bellezza di Piero della Francesca e l’ingegno di Luca Pacioli, meglio che entri in fretta.

Nessuna sorpresa, in fondo parecchie cittadine toscane, umbre e marchigiane sono amministrate da sindaci leghisti, tra cui appunto Sansepolcro, lista civica più lega. Il manifesto del ciula non è quindi campagna elettorale ma normale informazione delle attività culturali leghiste. Una in tutta Italia e nemmeno un granché. Nessun altro segno della campagna elettorale, come non ci fosse. Chiaro che sono qui per vedere la Resurrezione di Piero della Francesca, quell’affresco con Gesù che risorge dal sepolcro con quei due occhioni fissi e sotto di lui i soldati addormentati, tra cui uno con il volto del pittore. Aldous Huxley lo definì “il più bel dipinto del mondo”, ovviamente argomentando un po’ di più di quanto io riporti qui, se ne potrebbe discutere. Comunque, quando il generale Clarke, parole sue, pianificò il bombardamento di Sansepolcro nell’avanzata alleata, si ricordò delle parole di Huxley e decise di evitare. Ora, due considerazioni che mi vengono così: uno, che bello avere un generale in comando che ha studiato la storia dell’arte o comunque ne ricorda alcune valutazioni critiche al punto da modificare il piano di guerra per salvare un affresco; due, saranno stati poco contenti i proprietari del secondo più bel dipinto del mondo che, invece, si saranno visti piovere in capo le bombe, perché non all’altezza. E il terzo, quarto e così via. Peraltro, a pensar male, se avessero bombardato il primo sarebbero pure saliti in classifica, risparmiandosi magari le prossime bombe.

Mi sposto a un tiro di schioppo e sono a Città di castello. Qui si viene, e lo feci anch’io trent’anni fa, per vedere Burri, che donò la sua propria collezione alla città (di castello). Ma allora dovevo vedere e imparare tutto, oggi Burri mi interessa molto meno, anzi niente, quindi salto a cuor sereno. Io sono qui perché è una graziosa cittadina e poi vorrei vedere alcune cose di Raffaello, Signorelli e Vasari. Per esempio, la chiesa di san Francesco che contiene lo sposalizio della Vergine di Raffaello, l’adorazione dei pastori di Signorelli, la cappella Vitelli progettata da Vasari e la sua incoronazione della Vergine. Beh, Raffaello fu rubato dai soldati napoleonici e ora è a Brera, Signorelli finì sul mercato antiquario e ora alla National gallery di Londra, gli è rimasto Vasari, che bella la cappella ma la pala insomma. Ai tifernati – sì, si chiamano così i cittadini di Città di castello – le balle ancor gli girano: “lo sposalizio della Madonna (…) possiede ora Milano / invidiata ricchezza del suo ricchissimo Brera” c’è scritto su una grossa lapide sul muro esterno. Dentro, riproduzioni. Dei cinque quadri che Raffaello dipinse in città, ne è rimasto solo uno, molto rovinato e molto giovanile, inevitabile esser seccati.

La città (di castello) è comunque un paesone, senza offesa, la sera c’è la tombolona con l’istrionico Ottaviani, si canterà il paguro Bernardo e il divertimento è assicurato, se nun me voi scippà ‘r culo (citazione dovuta dalla più grande attrice di sempre, concittadina). Nella sede del PD in piazza non c’è nulla, nemmeno un manifesto, non sembra nemmeno essere coinvolto nella competizione elettorale. In città idem, nessun manifesto o striscione. Un sacco di scritte no vax, piuttosto, decine e decine, ma dopo un po’ mi rendo conto che la mano è sempre la stessa, servirebbe un calmante più che un vaccino. Per chiudere con Città di castello, vado a visitare palazzo Vitelli, anche qui la mano è di Vasari, con una facciatona istoriata bianco su grigio come i toscani ben sanno fare. I Vitelli fecero fortuna come condottieri al soldo di chi convenisse, cosa che si guadagna bene ma è pericoloso, specie se a un certo punto ci si mette al servizio di un gran filibustiere come Cesare Borgia, il duca di Valentino figlio di papa, e poi si ha la bella idea di ordire una congiura contro di lui. Finisce che si viene invitati a un banchetto e, alla fine, si viene strangolati. Machiavelli nel 1503 scrisse il trattato “Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini”, vualà. Riina poi copiò la cosa, trovandola interessante.

Mi sposto a Umbertide, graziosa cittadina fortificata sull’alto corso del Tevere cui venne in mente a un certo punto di ingraziarsi il re cambiando nome, che idee, e poi proseguo per le gole di Frasassi, che sono spettacolari per quanto sono ripide. Non vado alle grotte, già provvide una gita scolastica molto tempo fa, ma mi inerpico per una breve salita per vedere il tempio di Leone XII di Valadier. In una grottona in mezzo a una parete verticale si costruì un tempietto in onore del papa locale di rara grazia e proporzione (il tempietto, non il papa), in travertino opaco che fa proprio una gran figura. D’altronde, era Valadier, il suo villino sul Pincio a Roma è un’altra meraviglia, lo acquisterei volentieri. Perché Leone XII fu un bravo papa, dicono sulla lapide sul tempio, aprì vie, costruì case in paese – il resto dell’attività papale non pare interessi – ed “avrebbe più largheggiato se più avesse vissuto”.

In realtà visse abbastanza perché Pasquino scrivesse: “Qui della Genga giace, per sua e nostra pace”, e Genga è il paese natio, proprio qui dietro, ma non è la cosa interessante. La cosa interessante, almeno per noi ora, è questa: nel 1820 nello stato papale imperversò un’epidemia di vaiolo e il gonfaloniere Monaldo Leopardi, sì quello, nel 1822 istituì l’obbligo di vaccinazione. Eh sì. Ma attenzione: anche il fatto che la vaccinazione fosse gratuita. A fronte, però, del malcontento della popolazione contadina per l’obbligo vaccinale, che ritenevano pericoloso, il papa Leone XII cancellò la norma nel 1824: «Rimane obbligo a Medici e Chirurgi condotti di eseguirla gratuitamente [la vaccinazione antivaiolosa], a quanti vogliano prevalersene, essendo questa la cura ed il preservativo di una malattia alla quale, come a tutte le altre, essi hanno l’obbligo di riparare», dalla circolare legatizia. Forte, eh? Anche stavolta non abbiamo inventato un bel nulla. Né il rimedio né le idee sciocche. È deprimente e consolante allo stesso tempo, sono confuso.

Io però sono al fresco della grotta e mi sono portato un panino che ho chiesto di imbottire a una gentile salumaia. Non c’è ristorante o trattoria o cucina gourmet che tenga per me di fronte a un panino mangiato all’aperto, in montagna o davanti a un bel vedere, imbattibile. Il prosciutto diventa ancor più buono. Anche la frutta, devo dire, i mandarini sulla neve sono strepitosi. Quindi, io ho il mio panino con crudo e formaggio del posto, si sta bene, il posto è bello, la storia su cui riflettere l’ho raccontata, intendo quella dei vaccini obbligatori e no, direi che sono a posto anche se manca ancora mezza giornata o quasi. A domani, dunque, ripartendo da Fabriano. Sì, quella degli album da disegno.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: due, altro malfunzionamento, gioielli sparsi, doverosi omaggi, scritti personali

Da Ravenna c’è una bella stradona che va giù dritta dritta a Roma, mi fa comodo. Fin dal centro le indicazioni sono per la capitale con tanto di chilometri, trecentocinquanta, è più vicina di quanto non pensi, e fa senz’altro da riferimento anche culturale, Roma più che Milano. Mi fermo subito a Cesena perché c’è la biblioteca Malatestiana, vivessi lì ci andrei tutti i giorni. Ci sono due biblioteche quattrocentesche perfettamente conservate in Italia, una è la Laurenziana a Firenze e una è a Cesena, la Malatestiana, la più intoccata, nemmeno il riscaldamento. La cosa speciale, oltre a tutte, della Malatestiana è che i manoscritti e qualche raro incunabolo sono incatenati ai banchi di lettura, così i malviventi non se li rubano. Quindi, è il lettore ad andare al libro e non viceversa. Giusto, alla fine è il percorso che si è già fatto andando in biblioteca, ha senso. Per dare una misura, un buon manoscritto, nemmeno troppo miniato, nel Quattrocento costava come un medio palazzotto in centro, capito le catene? Arrivo presto, è chiusa, un cartello dice che il lunedì mattina lo è. A fianco, un A4 stampato dice che in agosto è aperta tutta la settimana, dalle nove. Bene. Chiedo, per scrupolo, alle impiegate della biblioteca moderna, mi dicono che sì, è aperta, ma dalle dieci. Insieme a una coppia di viaggiatori aspettiamo che apra. Non apre. Alle dieci e un quarto, abbordo un impiegato di passaggio che mi dice che il lunedì è chiusa. Ma come? Spiego la pappardella, i cartelli, le indicazioni, niente, è chiusa, i colleghi non ci sono. Facciamo presente le contraddizioni incontrate ed ecco la risposta maledetta: mi rendo conto ma non è di mia competenza. Bravo risposta esatta. Non lo riguarda, non sa chi se ne occupi, non può parlare con nessuno. Rimpalla. Lo so cosa voti, accidenti a te. Però così son già due in due giorni, cominciano a essere degli indizi di qualcosa. Te pensa i turisti, magari francesi o tedeschi, quanto capiscono questo genere di cose. Mollo a malincuore la biblioteca, faccio un breve giro per Cesena, riuscendo così sotto la rocca a rivedere l’unica campagna elettorale disponibile al momento, ovviamente lei, Meloni. Stavolta appare da una vetrina di quei negozi affittati per quello e dentro vuoti, tristi, sedi di comitati fantasma, il manifesto si rivolge ai patrioti, con la pi maiuscola, santoddio, lei sorride in posa e fa il gesto della vittoria con le dita come fosse il selfie di una ragazzina. Nessun messaggio politico nemmeno stavolta, meglio non averne.

Di Cesena ricordo il Moretti (Marino) di ‘A Cesena. Piove. È mercoledì’, meravigliosa sintesi di assenza di significato e di scopo, mi fa sempre ridere pensando ai moti dell’universo; alcuni anni fa qui mangiai le tagliatelle al ragù più buone della mia vita. Mi muovo.

L’appennino a sud di Cesena è magnifico, aperto, largo e dolce, le colline sono di molti verdi e vorrei farle tutte a piedi, ogni tanto un calanco che mette del giallo qua e là, ogni tanto un paesino, bei posti davvero. Poi si alza un po’, il percorso si incupisce e si ingola, e appena di là si comincia a scendere ci sono le sorgenti del Tevere. La strada che sto percorrendo, la Ravenna Perugia Orte Roma, è infatti la E45 Tiberina, non a caso. La ‘E’ davanti significa che è una dorsale europea e comincia in Norvegia su su, quasi al Capo, per scendere giù giù fino in Sicilia, all’altro capo. Dev’essere degli anni Sessanta, con le auto attuali stiamo appena nelle corsie, fa un po’ scempio della valle ma in effetti velocizza. Dopo un po’ mi stufo di essere veloce ed esco, piego per Sarsina, che sta un po’ più sopra. A chi ha gli studi classici, dirà qualcosa, infatti: Plauto. Non che lui ci sia, nonostante una ridicola ‘casa di Plauto’ sì e no medievale, né la città romana, sebbene tracce di pavimentazione e la solita piazza che ricalca il foro. Sono qui più che altro per un omaggio ai suoi fanfaroni, potrei pure incontrare un sosia, anzi Sosia, che si chiede se è ancora lui, quanto mi divertono le commedie plautine. Qui ci son già stato, conservo una foto di mio padre appoggiato al muro della chiesa, eravamo qui per lo stesso motivo di oggi. Aveva una giacca a vento perché pioveva e aveva appena scoperto di aver perso un po’ di soldi a causa della Lehmann brothers, l’umore variava. Ma Plauto ci rallegrava, come tante altre cose. Prendo un caffè in piazza per scrivere un po’, le notizie alla radio citano qua e là la borsa di Amsterdam e il costo del gas come fossero concetti chiari, già mi vedo gli schemini di Corriere e Repubblica per comprendere i meccanismi di formazione del prezzo delle energie, alla mia destra, finalmente, un segnale politico comprensibile in questa campagna elettorale, era ora.

A questo punto, potrebbe pure passare Plauto che ne sarei quasi meno sorpreso. Proseguo per stradine perché voglio andare a Caprese, un borghetto cucuzzolato in cima al quale il babbo di Michelangelo faceva il podestà. Ed è infatti qui che, in una casa podestarile, nacque il figlio così dotato. Ahah, eh sì, non era fiorentino. Pensare che poi uno da qui vada a progettare la cupola di San Pietro pare veramente racconto di fantasia. Son boschi tutto attorno, pini, siamo ancora alti, ma in fondo si intuisce un lago artificiale, uno sbarramento in terra al corso del Tevere, che è ancora piccoletto, e una piana che si apre che par tirata con la bolla. Passo da Pieve Santo Stefano, nota nel paese per essere la sede dell’Archivio Diaristico Nazionale, su iniziativa di Tutino, e proseguo per la mia destinazione, Anghiari. Ovvio, voglio vedere il prete, se gli spuntano le ali e se sa fare scivolarello su ringhiere di scale rinascimentali, che bravo era Ivan Graziani. Anghiari è nota per la famosa battaglia del 1440 che si combattè nella piana sotto, tra milanesi e una lega tra papato, fiorentini e veneziani. Vinsero i secondi ma giova ricordare l’ironia di Machiavelli: “Ed in tanta rotta e in sì lunga zuffa che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì che un uomo, il quale non di ferite ne d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò”. La battaglia è all’origine anche di un’altra storia, che si dilunga fino a oggi ed è per sommi capi e nel più breve tempo questa: la repubblica fiorentina commissionò a Leonardo e Michelangelo due affreschi, rispettivamente la battaglia di Anghiari e quella di Càscina, per adornare le due pareti lunghe ed enormi del salone dei Cinquecento a palazzo vecchio; Michelangelo preparò il solo cartone e si dileguò, avendo ricevuto la parete in ombra, Leonardo come suo solito dipinse con tecnica fallace, olio su intonaco invece dell’affresco, fortuna ne abbiamo una copia credo di Rubens perché il dipinto durò poco e niente; bene, fu chiamato Vasari per ricoprire la parete rovinata, il quale dipinse il suo affrescone, aggiungendo un cartiglio in alto con la scritta ‘cerca, trova’; siccome l’aveva già fatto un’altra volta, alcuni suppongono che abbia salvato la parete leonardesca con un muro ed è per questo che qualche anno fa il sindaco Renzi, tra il disappunto generale, si mise a bucherellare il Vasari alla ricerca del Leonardo perduto. Renzi, è andato, su, sempre alla ricerca di notorietà personale. Uff, l’ho raccontata tutta d’un fiato. Vasari l’ho scoperto quest’estate, decisamente sottovalutato. Le Vite, certo, ma c’è molto molto altro, la figura è del tutto rilevante. Ricapiterà più avanti.

Da queste parti, dipende dalla strada che pigli, giri a destra o sinistra ed è Romagna, Toscana, Marche o Umbria, ci si mette un momento a essere di qua o di là. Attenzione alle scelte, dunque. Anghiari è molto piacevole, tutta abbarbicata al di sopra di una piana, lo dicevo, amenissima che si perde a vista d’occhio e che pare piallata, forse in parte dal Tevere. A un certo punto c’è un centro-logistica grosso come una regione ma da qui non lo vedo e, dunque, al momento non esiste. Se a Pieve Santo Stefano erano i diari, ad Anghiari ha sede la Libera Università dell’autobiografia, anche in questa c’è lo zampino di Tutino, non son coincidenze. Ma son belle cose, i diari e le autobiografie, generi da coltivare. Io prediligo il primo, in forma rigorosamente privata, raramente parlo di me. Ma le autobiografie delle vite interessanti son da raccogliere e tramandare, eccome. Mentre contemplo Anghiari, consumo la mia merenda in piazza e osservo la statua di un non mai abbastanza celebrato Garibaldi che, sopra la scritta “O Roma o morte”, indica buffamente col dito una direzione, immagino di Roma, con gesto atletico talmente ampio da risultare comico (Oh, hai visto dellà?). Io, come mio solito, guardo il dito e non Roma, anche perché ho il sospetto che stia dall’altra parte. Ah, gli scultori.

La mia giornata sarà ancora lunga e contempla Sansepolcro e Città di Castello, con tutto ciò in ivi contenuto, Piero della Francesca sopra tutto, ma mi rendo conto che sono andato abbastanza lungo per oggi, per cui chiudo qui e rimando alla terza parte, mica è un diario quotidiano. Impressionante quante cose si facciano in un giorno, quando sono seduto alla scrivania non riesco proprio a crederci, a volte per progettare un bel viaggio bastano pochissimi giorni, a volte due o tre. Tendo a dimenticarmene. A Sansepolcro son pochi chilometri, c’è una strada che scende e dritta dritta dritta ci va senza nemmeno provare a curvare. La vedo, sarà facile.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro in una fine estate elettorale: uno, secoli oscuri, un malfunzionamento, odonomastica irritante

Dopo le vacanze vere, servono delle vacanze più piccole per riprendersi. Io ho un impegnino a Bologna, ci attacco un girino vagabondo dei miei. Piccoli centri o luoghi meravigliosi qua e là, niente grandi città o situazioni complesse, ovviamente serve la macchina e questo a me piace sempre meno del trasporto pubblico.
È una strana bolla temporale, quella di questi giorni, la stagione estiva è finita, oggi l’A1 era una coda unica in ritorno, ma non è ancora il primo settembre, soglia psicologica della scuola, dei buoni propositi, delle diete, dei corsi di tedesco. Chi ha lavorato tutta l’estate è in pausa o sta chiudendo, pochi turisti rimasti in giro, ma ancora si respira l’aria d’estate. Fa caldo, si mangia fuori ma le calamite e i braccioli non si trovano più, ancora c’è una settimana, suppergiù, prima dell’inizio. Il che vale anche per le elezioni, non si percepisce granché, alla campagna elettorale, intendo da parte dei cittadini, ci si penserà tra qualche giorno.

Opto per Ravenna, per la notte. Se riesco ad arrivare a un’ora decente, forse ce la faccio a rivedere il complesso di san Vitale, cioè la basilica e il mausoleo di Galla Placidia, che gli sta accanto. Ripercorro i miei tre cicli scolastici, cioè quelli di tutti, in cui, dopo aver sofferto dalle guerre puniche alle catilinarie per almeno tre volte, si arrivava alla caduta dell’impero romano d’Occidente e succedeva questo: bah, poi c’era quello d’Oriente, sì, i bizantini, l’esarcato, i longobardi e in un batter di ciglia, cioè due ore di lezione, si era a Carlo Magno, Ottoni, e poi un altro saltone fino a Federico II di Svevia. Chi fossero costoro, non si sa. I bizantini, in particolare, oltre a far mosaici, stare a Ravenna, ignorare la terza dimensione, far cose proverbialmente complicate, alcuni corpus di leggi, avevano quell’aria emaciata e stanca che mi fa tanto ridere in Brancaleone, quando Volonté lo porta dalla sua famiglia. E invece son secoli ma per noi no, qualche menzione tra Giustiniano, Teodosio e poco altro, alla rinfusa.

Loro, invece, i bizantini, stanno lì e ci guardano tutti in fila, dai mosaici in alto, o nei tondi, come a Sant’Apollinare. Noi, niente. Ravenna è una magnifica città turistica, piena di tesori, e i ravennati sono abituati alla ricezione. Come mi sono ripromesso, punto il complesso di san Vitale e mi presento alla biglietteria unificata di Ravenna. Classica scena, saluto cordialmente, l’impiegata non alza nemmeno la testa, tace e continua a fare i conti sulla calcolatrice. Minuti. Aspetto perché voglio vedere fin dove arriva, io sono uno che sbotta subito ma resisto, dopo un po’ dice Dica, niente saluti. Vorrei un biglietto per san Vitale, dico, diecieuroecinquanta dice lei e bon, fine dell’amicizia. Entro nel complesso, che è tutto recintato, mostro il biglietto e vado dritto al mausoleo di Galla Placidia. Lì un’altra signora mi dice che il mio biglietto non è valido, cioè non comprende il mausoleo. Ma come? Guardo il biglietto, è valido per la basilica, il museo diocesano e un museo mai sentito. Simpatica, la bigliettaia. Mi godo la basilica, splendida, ottagonale, complessa e articolata, mi siedo contento e poi torno, son cose che non mi lascio sfuggire. Lei, di quel precisinismo che secondo me tanto male fa agli sportelli e al paese, mi dice Lei ha detto solo sanvitale. Eh, grazie, mica sapevo di dover specificare, è tutto nello stesso recinto, non poteva mica chiedermi se volessi anche il mausoleo?, chiedo. No, non rientra nelle sue mansioni, ritiene. Nessuno sforzo in più, l’avevo capito fin dall’inizio. Per come la vedo io, queste situazioni non solo solo dovute alla pigrizia, le classifico come piccoli esercizi di potere, là dove potresti essere utile ma ometti, perché lo puoi fare e decidi di farlo. Lo fai per e con chi e quando ti va. Spesso è una specie di rivalsa per i torti subiti da qualcun altro, ti rifai indirettamente. Micidiale, bastavano due parole in più. Non perdo l’occasione e faccio presente ad alta voce davanti a tutti, lei dice solo che io non l’avevo chiesto. Figurati un turista che, magari, nemmeno parla la lingua, ma non le importa. D’accordo, un episodio, niente di che.

In vista delle prossime elezioni, tendo a classificare questi comportamenti già alla luce di un meloniano liberi tutti, via libera al disinteresse, all’individualismo, al menefreghismo. Può darsi non sia così ma non posso farci niente, già li rivedo alzare la testa, mi preoccupa. Odio, gramscianamente, gli indifferenti. Per fortuna, a Ravenna c’è la festa dell’Unità. Torna l’emozione di stare insieme, dicono, ma certo. Ma il sentimento è quello di una ritrazione, di pigliare un sentiero per una lunga (?) marcia, solo che non ricordo: quand’è che si era vinto? Eh. Comunque sono elucubrazioni mie, come dicevo di segni della politica ce ne son pochi, qui, è più una questione di giornali e televisione, è ancora tutto fermo. Poi inciampo in un segno del passato, ben presente.

Ma porcocane. Gardini? Certo che era di Ravenna, ma una via? Pure il marmo col mosaico? A Parma c’è via Calisto Tanzi? Va ben pur tutto, d’accordo che Romolo Gessi poteva essere superato, ma la maxi tangente Enimont, il matrimonio furbesco con la figlia di Ferruzzi per dare inizio alla scalata, la strafottenza, il rifiuto delle regole, la truffa allo Stato, il craxismo sfrenato per chiudere con il vigliacco suicidio alla vigilia della convocazione in procura ce li si ricorda? O è solo il moro di Venezia?
All’autogrill, proprio a un metro dalla porta scorrevole, c’è un manifesto di Meloni, uno di quelli che dice Pronti, finalmente con un uso dignitoso di photoshop, difficile non sbatterci contro. Anzi, bisogna proprio evitarlo, il che è efficace e molesto insieme. Oddio, non so davvero se funzioni, cioè se porti o meno qualche voto in più, il rischio è di venire confusa col Camogli e l’offerta per la colazione. Resto però convinto che l’effetto trainamento di chi parla come se avesse vinto sia in effetti sostanzioso. Temo addirittura che finirà peggio di come si dice ora, nei sondaggi. Comunque, un losco figuro ha provveduto a disegnare due baffetti hitleriani sotto il naso della ringhiosa candidata, disinnescando a dovere il manifesto. Bravo, lotta politica con argomenti, andiamo bene.

Ravenna è piacevolissima lo so fin dal 1993 quando in un bar qualsiasi, ahinoi, lessi mangiando il cornetto che Frank Zappa era morto, cioè la nostra è una frequentazione più che trentennale, con mia grande soddisfazione. Non so della città, credo sia indifferente, come quei bizantini che mi guardano, tutti in fila, tutti impettiti fuori dal palatium e io, bestia, non so nulla di loro. Saranno poco colpiti anche dalla mia partenza, quindi a cuor leggero domani piglierò una bella direttrice verso sud che tocca un posto più bello dell’altro e mi beerò di deviazioni a sorpresa ogni volta che un cartello mi stimolerà. Bello così, per me. Posti, arrivo.


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podcast: sì e no sulle stragi del ’92

Bene per Mattanza, podcast del Fatto quotidiano, ben documentato, scritto e narrato, indagine sulle stragi di Capaci e di via d’Amelio, esecutori, mandanti e moventi, senza cedere alla drammatizzazione e alla facile resa emotiva. Male per Ferite, pocast di Raiplaysound, scritto da Matteo Billi, Francesca La Mantia e Giuseppe Paternò, che alterna lirismo fuori luogo parlando di stragi («A maggio in Sicilia il profumo della zagara in fiore…») a personalismi altrettanto irritanti («nel maggio 1992 frequentavo il terzo anno di Giurisprudenza a Palermo…»), ne dico due all’inizio.
Stesso argomento, stesso periodo, parer mio, come andrebbero e non andrebbero fatte certe cose.

dichiarazione di intenti

A un mese dalle elezioni, è tempo anche per me di fare dichiarazioni ufficiali: se Fratelli d’Italia cioè Meloni prende il 25% o più, qualsiasi sia l’affluenza al voto, o (e) se la coalizione di destra guadagna più dei due terzi dei parlamentari, io telo, adiòs, hastaluego, orvuar, aufidersehen. Seguirò da lontano facendo ciao ciao con la mano, magari non sull’orlo di un vulcano come sarebbe qui.

gendergap

Sì, abbiamo ancora enormi problemi di genere.

Fare l’ingegnere incaricata di elaborare la strategia di gara della Red Bull nel campionato di Formula 1 è un lavorino di quelli superdifficili, peraltro, dieci persone al mondo, tante quante sono le squadre. Fosse un uomo? Un papà? Sveglia, su.