la fabbrica del duomo di M…

Colonia.
Il duomo di Colonia è una delle meraviglie del gotico. E del neogotico, perché tra il 1248, il propizio ferragosto, e il 1880, anno di inaugurazione, molti gotici sono passati sotto i ponti. Smessi i lavori a metà del Cinquecento, solo con il revival del medioevo nell’Ottocento la cattedrale incontrò l’interesse della cittadinanza e i lavori ripresero nel 1842. Peraltro, per dire dell’interesse popolare, solo in parte lo stato prussiano finanziò i nuovi lavori, il resto fu raccolto con sottoscrizioni pubbliche.
Qui sotto una foto del 1855, a lavori ripresi, e il particolare interessante è la gru su una delle torri campanarie della facciata, a sinistra, perché pare proprio dalla forma e dalla struttura una vera e propria, integra, gru medievale.

La gru è rappresentata in alcuni dipinti, ad esempio l’arrivo di sant’Orsola a Colonia del 1489, sul reliquiario di Hans Memling (anche nel martirio):

O la veduta di Colonia di Sebastian Münster a metà del Cinquecento:

O, ancora, la veduta del 1660 di Jan van der Heyden (ne metto un particolare):

Nel 1870, i lavori erano molto più avanzati.

Noi per riferirci a un lavoro senza fine citiamo la costruzione del duomo di Milano, altrettanto lunga, loro quello di Colonia. Una volta finita, ne è valsa la pena: è un edificio colossale, le torri superano i 157 metri, la volta è una delle più grandi e delle più alte mai costruite dall’architettura gotica, il complesso è impressionante. Salirci a piedi la mattina presto è una delle esperienze che sono molto contento di aver fatto, la vista da lassù è notevole, con la città e il Reno appena sotto. Più volte colpita dai bombardamenti alleati, Colonia fu praticamente rasa al suolo, tuttavia per fortuna non collassò. Qui un video delle prime riparazioni dopo la guerra.
A tutt’oggi è l’edificio religioso con la facciata più grande del mondo, e se ne percepisce la portata. Eccone una mia foto.

La su su su in cima, oltre i 157 metri, le torri hanno due guglie, floreali. Si vedono a guardar bene. Una di esse è una copia, l’originale è giù, precipitato nella piazza davanti, a testimonianza delle dimensioni: la sola guglia sono nove metri. Eccola.

Ed è solo il pistolino in cima, mica male, nanetti.

un rosso migliore e un blu eccellente

La revisione della bandiera francese ha perfettamente senso.

Il blu è molto più istituzionale e pieno, il rosso più convincente. Ben fatto. In realtà si tratta semplicemente di un ritorno al passato, nel senso che Macron ha decretato di riportare i colori a quelli del 1794, poiché nel 1976 Giscard d’Estaing decise di rendere più telegenici i colori della bandiera, cioè quelli nella parte superiore dell’immagine.
Erano i pazzi anni Settanta, non esattamente un riferimento estetico perenne.

Anche da noi si fece una revisione tra il 2002 e il 2006, visto che non avevamo mai pensato di codificare i colori della bandiera con precisione. Eccoli:

Io una scuritina al verde la darei.

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro: tre. Il cervo padano. Vongole e cippi. La possente. I fatti di quasi dieci anni fa

Da Comacchio all’abbazia di Pomposa è praticamente d’obbligo, non che resti molto del grandioso complesso ma la chiesa e il refettorio sono senz’altro motivo valido per andarci e, se qualcuno desidera, fermarsi in fervorosa preghiera come fece papa GPII. E poi c’è la questione delle note musicali, ne dissi tempo fa. Per arrivarci, tocca percorrere un po’ di Romea, oggi statale 309 ma strada antichissima, da Venezia a, appunto, Roma. Oggi è uno sbaffo di asfalto lungo il quale corrono tutti, lanciati verso chissà che, e ne fanno le spese perlopiù le nutrie sfracellate a bordo carreggiata. A fianco, alberghi, night, ristoranti abbandonati o fatiscenti, risultato di una pianura e di un sistema produttivo che va pian piano estinguendosi, servirebbe che chi di dovere ci pensasse complessivamente, non di comune in comune, di piazzola in piazzola. Basta curvare e si torna nella quiete del delta, tutto è più ovattato e placido. A pochi chilometri si trova il Boscone della Mesola, una riserva naturale che conserva la vegetazione primordiale della pianura padana, cioè i boschi e i sottoboschi che una volta andavano da Torino all’Adriatico, e non solo, anche flora e fauna tipiche, basti dire il cervo della Mesola o cervo delle dune, che è un tipo di cervo diverso da tutti gli altri e che discende proprio dai cervi che una volta abitavano il nordest produttivo, prima dei Galan. Posso immaginare che il Boscone si sia salvato per esser stato riserva di caccia degli Este, avendo a uno dei capi il castello di Mesola, delizia estense con pianta quadrata e torri ai vertici di gran bellezza e armonia. Il parallelo mi viene in mente subito con il bosco della Fontana a Mantova, altro luogo meraviglioso e anch’esso riserva gestita dal nucleo dei carabinieri per la protezione ambientale. Bei posti. Soprattutto col nebbione.

Da lì a svirgolare a Goro, centro mondiale della vongola, è un attimo, basta seguire il Po, quello di Goro per l’appunto. Il paesello, oltre ad aver dato i natali a Maria Ilva Biolcati, persona gentile, colta e rispettosa come poche, è stretto tra il fiume e il mare, per cui pesca di qua e di là con grande soddisfazione. Fornendo vongole allo mondo intiero. Non che ci sia molto altro tra l’argine e il porto, perché il paese è bruttarello, con rispetto parlando, una scuola in stile razionalista pulito par persino bella, qui. Dopo un ottimo cappuccino gorese, il milionesimo, scavallo il Po di Goro per andare a Taglio di Po, una località appena di là dove si conserva un cippo di confine tra Repubblica di Venezia e Stato Pontificio.

Sghimbescio ma c’è. Ma il passaggio del Po di Goro era una volta un salto politico e culturale colossale, dal papato alla repubblica marinara, e in una certa misura lo è anche oggi, perché dalla Romagna si finisce in Veneto. Meno di una volta, certo, che era dalla gestione PCI a quella della DC in un balzo, oggi il leghismo – atteggiamento ben più ampio del bossismo o del salvinismo, direi un misto fatale di individualismo, liberismo e assistenzialismo – è diffuso in modo un po’ più uniforme. Vorrei vedere differenze marcate tra il di qua e il di là ma per così pochi chilometri non riesco. Il confine è qui e non al Po, più su, avrei giurato. Qui sono nell’alto Polesine, quello di cui domani è l’anniversario della grande alluvione, settant’anni, quella per cui ancora poco tempo fa in tutta la bassa padana fino al Piemonte si facevano le lotterie nei bar con l’uovone di pasqua polveroso per aiutare gli alluvionati, cinquanta o sessant’anni dopo. E il Polesine per me ragazzetto era un’entità teorica, poteva benissimo essere il delta del Mekong o, chissà, magari dove c’è Littoria o chi lo sa. Qui la questione delle acque è sempre aperta, i corsi cambiano, il paesaggio si modifica di continuo sia perché spinto dall’ambiente sia perché ripristinato o adeguato dall’uomo, tutto resta così perché è pieno di idrovore che pompano fuori l’acqua, mica nulla è consolidato.

Di delizia in delizia, costeggio il Po fino a Copparo, rientrando nel più amichevole territorio romagnolo. Lì, sulla piazza di quella che era la residenza estense ci sono due bar, uno è il ‘Dolce vita’, l’altro l”Amarcord’, di cliché in cliché. In tema, incontro due persone, Mares e Dovis, meraviglia dell’onomastica romagnola, cantata anche propriamente dagli Offlaga Disco Pax. Un tempo dalle mie parti conoscevo due fratelli, Igler e Inglis, ma in Romagna il livello è più alto. Costeggio ancora, ma son sempre distanze ridicole, perché voglio andare a Stellata. Certo, c’era la casa di vacanza del figlio di Ariosto, vero, ma quella che voglio vedere io è la rocca possente.

In tutta la sua possenza. Da qui e alla sua compagna al di là del fiume si stendeva una catena lunga seicento metri, e se avete mai sollevato una catena grossa un’idea l’avete, che per ragioni difensive o di pedaggio ostruiva la navigazione in questo punto del Po, dove fa una curvona e diminuisce la velocità. La rocca di là poi se l’è portata via lo stesso, il fiume, d’altronde stava all’esterno, questa no, è ancora qui da mille anni, rifatta e ricostruita. È bello si chiami così, possente, perché è piccolina e tamugna, tozza. È chiusa perché, a ben guardare, le mura sono solcate da crepe che ne mettono a rischio la stabilità. E qui mi tocca fare i conti con ciò che io, a distanza e incurante, avevo dimenticato: il terremoto del 2012. Già, perché un conto è il terremoto che distrugge tutto, Friuli, Irpinia, e un conto quello che scuote, percuote, danneggia ma non abbatte, o quasi. Allora che si fa? Tocca sistemare, ristrutturare, rattoppare con grazia, materiali acconci e grandi costi. E se sono fienili, cascine, castellotti, le spese sono ingenti e non sempre ne vale la pena. Oppure non ci sono soldi, almeno adesso, si vedrà più avanti, come nel caso delle chiese, tante, e degli edifici pubblici: il municipio di Mirandola, per citarne uno, è ancora tutto puntellato, con il cartello ‘lavori urgenti di ripristino per il sisma 2012 eccetera’, che lascia straniti, e i soldi forse cominciano ad arrivare adesso. Ed è l’edificio principale del Comune, voglio dire. La campagna è costellata di ruderi, costruzioni rovinate o parzialmente crollate e inagibili, a volte castelli lasciati a sé, ma anche le cittadine sono punteggiate di cadaveri avvolti nei tubi innocenti, in attesa di non si sa che.

La vista è straziante, per me. Eeeeu, son passati dieci anni, quasi, sarà tutto ricostruito. Eh no, è più complicato. Gli stessi soffitti affrescati del castello estense di Ferrara sono tutti ricoperti di nastro adesivo speciale, per tenere insieme le parti dipinte attorno alla crepe. Mica banale sistemare e resaturare, servono tempo e un sacco di soldi. Ed è l’Emilia efficiente, che fa e non si tira indietro, ma le cose sono complesse, davvero. Tocca fare delle scelte e son scelte che chiunque di noi farebbe, inutile ragionare in teoria. Io, da lontano, mi rendo conto di non averci pensato e di aver dato per scontate molte cose.

Per chiudere, visito Cento, Mirandola e poi prendo la via per Ostiglia, seguendo il fiume in senso contrario e tornare a casa. Un bel girolino, tanto in pochi chilometri, lo consiglio. Che è il motivo per cui scrivo i minidiari di viaggio, dare suggerimenti, perché le cose io già le ho in testa. Andarci a novembre, poi, o d’inverno, ha un sapore tutto suo e secondo me è il momento migliore. Ognuno decida per sé, chiaro, ma mai scartare le ipotesi a priori. È un cattivo modo di viaggiare e, in definitiva, di stare al mondo.


L’indice di stavolta

uno | due | tre

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro: due. Il delta. Cose garibaldine nel senso di Anita. L’Ulisse. Quasi piglio una sberla

Da Ferrara in là, una volta, era tutta palude. Poi, dai e dai, un po’ alla volta, si è asciugato, prosciugato e bonificato, e poi canalizzato e dragato, e poi di nuovo, un po’ più in là e dove nel frattempo è cambiato. Ma da ben prima del fascismo, hai voglia, la grande bonifica estense è, appunto, di tre secoli prima, e i braccianti dalla romagna venivano spostati fin da allora. Oggi, a parte certe valli di grande fascino, tutto è coltivato e inframezzato da canali piccoli e grossi, da rami del Po di nome diverso, il Po di Goro o il Po di Volano, per dire, e i trattori hanno ruote piene e sottili o, addirittura, i cingoli. Perché è tutta sabbia, buona per coltivare gli asparagi, la vite – i vini delle sabbie, li chiamano -, qualche zucca, qualche mela, riso e meloni, zafferano, radicchio, robe che comunque vengon meglio da altre parti. Ma è roba buona, magari non l’eccellenza ma è buona e vien su bene, perché comunque è fertile. Finché quel tizio a inizio Novecento non scoprì come estrarre l’azoto dall’aria, l’unico modo per aver più roba da mangiare era ampliare le coltivazioni, non c’era mica altro sistema. A costo di strapparla al mare e far diventare le isole terraferma. Oppure, ma durava poco, recuperare l’azoto nell’unico modo conosciuto fino al tizio del Novecento, ossia dai cadaveri. E giù, tritate di ossa di fosse comuni, in America mica ce l’avevano coi bisonti, non in particolare, ma a parte la carne i teschi servivano benissimo allo scopo. Poi il tizio ha scoperto la cosa e sono nati i fertilizzanti moderni, che hanno cambiato il mondo e, probabilmente, lo hanno condannato. Molto più cibo e in un secolo siamo passati da un miliardo e mezzo a quasi otto.

Vabbè, altra storia. Io punto a est ma un po’ più in basso, a Mandriole, che è quasi Ravenna. Il 2 agosto 1849, Garibaldi con Anita e un pugno di fedelissimi era in fuga da Roma, dopo aver difeso la Repubblica da quegli accidenti di francesi che son papalini solo quando gli fa comodo. Quella volta gli faceva. Una meravigliosa costituzione, un esperimento entusiasmante con tanto di ente protezione animali, il primo al mondo, il papa a Gaeta a masticare amaro, giovani da tutta Europa accorsi con gli occhi brillanti, il primo nucleo di Stato laico e niente, tocca scappare con Mameli morto e con Anita ferita. E incinta. Il 2, dicevo, arrivarono a Comacchio, gran folla e discorso che infiammò la popolazione, pur sempre stato della Chiesa, e poi via, più su, in fuga verso Venezia, sperando di trovar ricovero. Il giorno dopo arrivarono a un capanno in quello che oggi è il lido delle Nazioni, tra il Tahiti Village, la Baia di Maui e il Bagno Bambù, che oggi non ci si crede. Il capanno c’è ancora e non si capisce come non sia stato fagocitato dalla riviera del tunnel del divertimento, garibaldini contro romagnoli assatanati, bella lotta. Anita non stava davvero bene, per cui ripiegarono indietro con la barca, tornando a Mandriole, dove c’era una fattoria organizzata e disposta ad accoglierli. E lì, il 4, Anita morì. Ma porco cane, ventotto anni e incinta, certo che era battagliera e pronta a tutto ma si può morir così? Sì, si può. E oltre alla morte, bisognava pur continuare a scappare, per cui a Garibaldi toccò pure lasciarla lì. Non immagino lo strazio. Dalla fattoria, oggi monumento nazionale, Garibaldi scappò verso nord e alcuni pietosi fedeli seppellirono Anita poco più su, dove oggi c’è un cippo che dice che lì posero il corpo «occultamente». Ma, l’ho detto, è tutta sabbia, sei giorni dopo alcuni ragazzini videro spuntare cose strane dal terreno. Allora i poveri resti di Anita furono recuperati e portati al cimitero del paese, stavolta però alla presenza dei legati pontifici, che non mancarono di far rapporto dicendo che il corpo presentava chiari segni di strangolamento. Ma vigliacchi. Garibaldi, dissero in molti, i fattori, dissero altri. Il medico presente smentì ma le voci rimasero. Tre mesi dopo, appena possibile, Garibaldi tornò, prese la sua Anita e la portò a Nizza, dove lui era nato. Solo molto dopo, con operazione di propaganda fascista, sarebbe stata portata a Staglieno e poi sul Gianicolo, dov’è ora. In disparte rispetto all’Eroe.

Proseguo fino al mare ed è una sequela di lidi: Spina – che era una città enorme e importantissima nell’antichità, qui vicino, ma bisogna tenersi forte perché questo scombussola: erano etruschi, mache? -, Estensi, Pomposa, Nazioni, Volano, e tra dancing abbandonati oltre fantasia, Maracaibo o Venere per dirne due, alberghi dismessi come il Monnalisa, luoghi di ristoro improbabili, la Piadina Ciliegina, la pizzeria Sayonara, l’Ippopotamus, il Trambusto, o certi bagni come l’Aloha o il capo Hoorn, mah, io cammino sul mare che mi piace di più a novembre che ad agosto e, stando sull’Adriatico, non mi può che venire in mente De André, «ma voi che siete uomini / sotto il vento e le vele / non regalate terre promesse / a chi non le mantiene». Guardo l’Ulisse Primo, una nave gru da una cinquantina di metri che sistema i frangiflutti dopo i bagordi dell’estate. Ha un carico di pietre nuove, belle rosa, e il manovratore scarica bestemmie a raffica via radio perché trova cose che non dovrebbe. E ‘Primo’ è in lettere, per cui non capisco se sia un cognome di un Ulisse chissà o se, invece, ci sia un Secondo. Ordino un cappuccino allo ‘Chalet del mare’, faccio parte del contesto, mi siedo fuori e guardo, fa ancora caldo, lungo la spiaggia parecchie persone camminano e si godono lo spazio, non sono gli stessi di tre mesi fa. I bar aperti sono due, l’altro è l”Exclusiv’, ed è proprio scritto così. Parecchie imprese edili, ci son da rifare i bagni o gli alberghi, sono i mesi buoni.

Torno indietro anch’io, e vado a Comacchio per la sera. Terre contese, queste, prima dai romani agli etruschi, fino agli estensi e ai cardinaloni, perché qui c’erano e ci sono le saline, ricchezza non scambiabile. L’altra ricchezza sono, chiaro, le anguille, che son talmente grassone che è come mangiare il lardo, quello è l’effetto sul regime alimentare. Il consiglio da amico è questo: alla griglia. Comacchio ha le valli, che son però piatte e fatte d’acqua, proprio quelle valli dell’Agnese va a morire, ha i canali come Chioggia e dei ponti ribaldi in mattoni un po’ storti e senza le spalle, chissà quanti son cascati dentro la notte, ha delle curiose anatrelle di plastica simili alle vere lasciate nei canali immagino per iniziativa comunale, che quando si bucano affondano con la testa, ha il famoso ponte tripartito, cioè che sormonta ben tre canali, ha un campanile bislacco che si troncò non appena finito, rimanendo monco, ha un curioso biciclettaio su un canale, perché è vero che c’è l’acqua ma è pur sempre Romagna, terra di biciclette. Come l’Agnese.

Ovvio, vado a mangiar l’anguilla. Marinata, poi con i garganelli, poi alla griglia, poi spalmata sul pane, poi in testa, due al posto delle scarpe e una grossa da usare come barchetta per tornare a casa. Tra i grandi piaceri della vita, annovero quello di mangiar da solo. Anche quello di mangiar in compagnia, sicuro, non è che uno escluda l’altro, ma mangiar da soli in viaggio ha un che di particolare, di significativo per me. Bene, son lì che mangio da solo e come faccio spesso, leggo. È un libro che mi appassiona, per cui sono abbastanza immerso. A un certo punto mi accorgo che una cameriera, cioè una delle due sorelle proprietarie, più o meno mia coetanea, mi gira attorno. Ma io ho ancora il piatto pieno. Sollevo lo sguardo e vedo che ha le parole dentro che vorrebbero uscire e che le trattiene a malapena. Mi dica, le dico, e lei mi dice ma possibile che lei legga mentre mangia? Guardi che poi digerisce male, meglio che si concentri sul mangiare, altro che leggere. E mi vengono in mente certe cose dette quarant’anni fa, il non leggere appunto mentre si mangia, il non bere per le rane in pancia, il non fare il bagno dopo mangiato, le cose basilari della salute. Ma non è che me lo dice perché non presto attenzione ai suoi piatti, peraltro eccellenti, me lo dice proprio per il mio stomaco. Io la ringrazio e provo a spiegare che sono anzi molto rilassato leggendo e che tutto va e andrà bene. Ma lei è partecipe e sfagiola il meglio: le darei una sberla, le darei. Così. Testuale. A vederla leggere. Poi dice, certo, lei può dirmi anche di farmi gli affari miei ma io le dico che non dovrebbe leggere. A me vien da ridere, anzi rido, la ringrazio per la premura e continuo, ma apprezzando la romagnola schiettezza, a farmi andare di traverso la digestione. Che spasso, stare in giro.


L’indice di stavolta

uno | due | tre

minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro: uno. Ferrara e le cose ferraresi tranne il pane

Uno spunto di lavoro e via, Ferrara. Occasione ghiotta, oltre alla salama cotta su letto di purè – che non vuoi aggiungerci del vino per poi mezz’ora dopo accoltellare un oste per avere dell’acqua? – la città è ricca di spunti, a patto di aver fermi due concetti: addizione e devoluzione. Eh sì, perché così stretta tra stato della Chiesa e Venezia a far da vaso di coccio, alleandosi di volta in volta con Mantova, in condizione simile e sempre pronta a tradire i patti per propria convenienza, e con l’uno e l’altra, qui è sempre stato necessario stare attenti. In realtà, la storia degli Este è durata qui tre secoli a far tanto, da Azzo a Cesare, porello, in mezzo un barcamenarsi che ti raccomando, compreso doversi pigliare quella disgraziata di Lucrezia, ovviamente Borgia, e di doverne sopportare i capricci pur di entrare nelle grazie del papa, suo padre, e raccattare legittimamente il titolo di duca. «Illegittima» mi dice l’ennesima guida occasionale che incontro per strada. Illegittima, certo, ma com’è, di grazia, una figlia legittima di papa? Resto insoluto ma la locuzione “figlia di papa” è quasi meglio di quella con l’accento.
Nei tre secoli di Este, tanta dovizia: di architettura, di poesia, di pittura un po’ meno ma chiamando qualcuno da fuori, Ligorio, LBAlberti, si risolve. Di poeti no, non ce n’era bisogno: Boiardo, Ariosto e Tasso bastino per tutti, triade imbattibile o quasi. Certo, a parte poi Boiardo che aveva rocca a Scandiano e faceva conte a sé, tutta la mia attenzione è sempre andata ad Ariosto, magnifico nell’Orlando ma sommo nelle Satire, e nulla voglio sapere di Tasso, che lascio volentieri ai romantici, con la maiuscola: io son Ariostista, mica Tassista.
L’addizione, dicevo. Fu erculea sia per lo sforzo sia perché fu Ercole d’Este a volerla. In pratica, la Ferrara medievale si era un po’ scombinata, perché il Po, che lambiva le mura meridionali, decise a un certo punto di strappare e di pigliare un’altra strada, tirandosi dietro tutta la canalizzazione e il Reno, quello bolognese. Insieme a questo, era venuta un’epoca di ricchezza e in cui certe idee si facevano largo, ed Ercole recepì. Si costruì una nuova cinta muraria molto ma molto più ampia, un certo fossetto che faceva da confine settentrionale, proprio davanti al castello, fu interrato e si aprì un enorme pezzo, tutto nuovo, di città. Città moderna, la prima d’Europa, con ampi viali, ortogonali, spazi pubblici, un progetto ideale ed urbanistico innovativo. Un’addizione alla città, appunto, così grossa da raddoppiarla, anzi quasi tre. Furono costruiti alcuni palazzi, qua e là, vedi quello dei Diamanti, miracoloso per bellezza, con ampi giardini, fu inglobata la Certosa e il cimitero, ampi spazi vuoti da riempire nel tempo, quadrivi e incroci definiti.

Ma l’idea superava i tempi e la crescita sperata in realtà sarebbe avvenuta solo nella seconda metà del Novecento, tardino per Ercole e i suoi urbanisti: la città e le botteghe rimasero dov’erano, i traffici pure, gli spazi vuoti rimasero vuoti. Nonostante un’altra idea notevole per i tempi, ovvero invitare tutti gli ebrei cacciati di Spagna, i marranos del 1492, a stabilirsi qui, ben sapendo che portano sempre iniziativa, pensiero, intraprendenza e, quindi, scambi e ricchezza. Ma anche questo non bastò, perché si stabilirono nelle zone più interiori della città vecchia. Non che sia del tutto un male, Ariosto, che aveva approfittato dell’espansione urbanistica e dei villini costruiti ex novo, comprò casa e giardino, sistemandosi una volta per tutte, seppur dalla parte opposta della sua sposa segreta. Ma, tanto, a lui piaceva camminare. E la casa, bellissima e proporzionata, la famosa “parva sed apta mihi”, gli calzò perfettamente, anche se ho scoperto oggi la definizione gli preesisteva.
Fatta l’addizione, nemmeno il tempo di godersela che Alfonso II morì un secolo dopo senza eredi legittimi, in questo caso sì, e il papa colse l’attimo per incamerare tutto quanto, Ferrara, ducato, pertinenze, servitù. E gli Este via, a Modena e Reggio, imperiali, dove un paio di appartamentini gli erano rimasti. Questa fu la devoluzione e lo splendore di Ferrara andò bellamente in vacca, in mano ai legatini e ai cardinalacci. Papalina, divenne.

Ferrara resta in un limbo un po’ suo, in cui è sempre difficile collocarla. Vuoi perché non è su alcuna linea ferroviaria o autostradale nota ai più – ce ne sono, una buffissima Ferrara-Porto Garibaldi, RA8, ma chi la sa? – e appare raramente nelle cronache. In realtà, con una buona mappa sottomano, è ad appena ottanta chilometri da Mantova, a meno di trentacinque da Bologna, ed è proprio lì, e a un tiro di schioppo, o ciapello, da Padova e Venezia. Ravenna è dietro l’angolo, quasi si potrebbe vedere. Ma è come se galleggiasse fuori, in un mare interno proprio non lambito dai viaggi tradizionali. Bisogna decidere di andarci, proprio, puntarla e non cambiare idea. Che dire? Ne vale la pena, chiaro, fosse anche solo per la salama di cui sopra e per il castello (la mia inutile guida di dieci anni fa alle prigioni), per le viuzze che ci si potrebbero girare i film del medioevo senza cambiare proprio nulla, non c’è nemmeno l’asfalto, per la concentrazione di palazzotti di gran fattura, squisita direbbe qualcuno, per De Pisis o Bassani o Boldini o Savonarola o Antonioni, secondo i gusti.
Io incrocio un’altra guida improvvisata che vede in me, immagino, uno interessato, e tra le altre cose lo sfrontato ha l’ardire di sostenere che il palio, cioè quella cosa con i cavalli che corrono per la città, sia stato inventato a Ferrara ben tre anni prima che Siena. Prima o poi mi cascano sempre sul campanile, non c’è niente da fare. Vada là a dirlo, gli faccio, e lui mi racconta che c’è pure andato. Apperò, il coraggio. Mi intrattiene parecchio, svirgola solo di tanto in tanto – «quella popolazione dell’Europa centrale, i Mongoli», saran contenti i tedeschi e quegli altri – ma la sostanza c’è, sbaglia poco e dà indicazioni utili. Bisogna però essere accoglienti in precedenza, secondo me, per far avvenire le cose, lo dicevo qualche giorno fa (ieri, ecco).
Ancora niente nebbione, per ora. Un po’ è il cambiamento climatico, sicuro, ma di sicuro le ultime nebbie del pianeta, qualora dovesse essere così, saranno qui, prima di sparire per sempre. E un giro per la città ottusa dal nebbione è una cosa che nella vita va fatta, secondo me. Fosse anche per una sola manciata di ore, come io, oggi.


L’indice di stavolta

uno | due | tre

per far accadere le cose bisogna stare in giro e contemplare con pazienza

Alcuni giorni fa accompagno un amico all’aeroporto. Perché la giornata non sia buttata, per quanto belli siano gli aeroporti e buoni i cappuccini, vado a vedere un posto non troppo lontano, nella bergamasca, che mi ero segnato sulla mia mappa delle cose da vedere.
Sono tre chiese, per sommi capi, che costituiscono un piccolo, rilevante e abbastanza particolare nucleo di costruzioni romaniche a poca distanza l’una dall’altra. Ci si può andare a piedi ma bisogna un po’ volerlo, perché tocca attraversare statalone sulle quali i furgoncini bianchi dell’artigianato locale sfrecciano insensibili al contesto e attraversare vigneti un po’ a caso. Ma ne è valsa la pena.
I luoghi sono tre, uno eccezionale – rotonda di san Tomè – e due notevoli, San Giorgio in Lemine e Madonna del Castello, li rappresento qui sotto.

Madonna del Castello è più grande perché è lì che poi succede la cosa che mi ha divertito. Siccome è chiusa, io ho finito il mio giro e si sta benone al sole autunnale, mi siedo fuori e contemplo. Dopo poco arriva un signore, settantacinque anni almeno, barba straripante dalla mascherina fatta di stoffa raccattata, mi gira attorno un paio di volte e poi mi apostrofa: turista?, sì, diciamo, la vuol sapere la storia? Eccerto, io le voglio sapere tutte, le storie. Mi racconti.

Son nato qui di fianco, conosco tutto qui. Ottimo, allora. La chiesa è molto molto antica, lo intuisco, ma non è questa, ce n’è una più piccola dietro, che poi è rimasta sotto. Certo, accade spesso, una sopra l’altra in un perenne ampliamento. La chiesa dietro è stata costruita, ci pensa un momento, nel quattrocento. Pausa. Avanti cristo. Epperdio, è il caso di dire, avete qui il record mondiale di antichità di chiesa, oserei dire un caso di eccezionale premonizione, lo guardo interrogativo. Dopo cristo, eh? dice. Eheh.
Poi è arrivata la regina, prosegue. Regina? Passo in rassegna mentalmente ciò che so, per nulla. Che regina? chiedo. Eeeh, la regina, Ostrubotti, Vandalsivi… ehm, la regina. D’accordo, non son qui per piantar grane. E insomma, la regina abitava in quella casa lì a fianco e poi ha costruito il ponte, quello qui a valle, enorme. Undici arcate. Accaspita, per dove si va al ponte, che lo vorrei di certo vedere? Scendo di qua? Eh no, il ponte non c’è più da molto tempo. Ah, che peccato. L’han distrutto i vichinghi. Ommerda, i vichinghi? Maledetti bastardi.

I vichinghi non bastano. Arriva una donna, cinquant’anni suppergiù, vorrebbe attaccare una locandina alla porta della chiesa. Per me, faccia. Ha bisogno di una mano per staccare le puntine dalla bacheca, l’attacchiamo ed è l’annuncio di una maratona di preghiera. Dodici ore di fila, dice. Pregare è importante. Noi annuiamo. Cominciamo venerdì sera alle nove. Senz’altro. Sapete quante volte sono stata a Medjugorje? Nove. Fa il gesto con le dita e noi facciamo le facce da ellamadoi. Il signore si sente defraudato del suo ruolo di guida e interviene: la chiesa è molto antica, ribadisce, e io faccio immagini di padre Pio a punto croce. Patapum, ha calato gli assi. Lei risponde pronta: io sono figlia di uno scultore. Pausa. Di arte sacra.
Lui non si fa intimorire, estrae il telefono e comincia a cercare le foto dei suoi padripii, osti ‘sti telefoni, mentre lui cerca lei approfitta della pausa e va a prendere in auto altre locandine da lasciarci, lui trova una foto sola, gliela mostra: ma no lo sfondo nero, dice lei, ma dietro è bianco, ribatte lui, io indietreggio lentamente sorridendo.

Vanno avanti parecchio, poi vanno all’auto di lui e ne estrae dei fogli, forse qualche pittura estemporanea, e io resto al sole autunnale a guardarli divertito, perché adoro la provincia quando non ci vivo e adoro le avventure, anche quelle piccoline come questa. Ma bisogna far sì che accadano, le cose, bisogna stare lì, aspettare, magari chiedere, provare. Una chiesa chiusa, antichissima, un po’ di sole, un giorno di stanca, i vichinghi, la regina, un po’ di pazienza e magari tutto si combina al meglio, come stavolta. Ne ho un bel ricordo, volendo se ne potrebbe fare un racconto di viaggio alla Rumiz, a me è piaciuto raccontarlo come è avvenuto, con tanto di foto dei due astanti.
Avrò perso qualcosa in sensazione, certo, ma c’era già sufficiente sostanza per non dover enfatizzare nulla. Grazie, signore nato accanto alla chiesa e sì, anche a te, maratoneta della preghiera senza mascherina, è stato divertente.

la realtà mi sorprende sempre in modi e tempi impensabili

Il tizio no-green pass che sabato in manifestazione con il corteo viene fermato dalla polizia e pensa bene di chiamare il 112 per chiedere l’intervento delle forze dell’ordine ci porta tutti in un cortocircuito di surrealtà dal quale sarà difficile fare ritorno. A me gira ancora la testa.
Dopo di che, qualche risposta alle prime domande: no, non gli è ancora stato tolto il diritto di voto, e sì, il suo voto vale come il mio e il vostro. E sì, lui è nella storia.

un’intatta, strepitosa, elegantissima…

Edicola liberty.

Si trova a Mantova, la piazza però ve la dovete trovare da voi, basti dire che è una delle più belle della città, anche se meno nota di altre. Alle spalle ha un magnifico palazzo dal grande passato e di fronte una bella chiesina sporgente sulla piazza che contribuisce a creare un angolo di città davvero gradevole.
L’edicola talvolta si nota poco ma è una vera rarità, di quell’epoca e così conservata.