Ma certo, è tutto viaggio, il senso stesso sta nell’avvicinamento alla meta, il viag… eh, ho capito, ma son sette ore di ritardo. Ho capito il senso, ho capito tutto, ma son pur sempre non luoghi e il nuovo aeroporto di Istanbul, per quanto enorme e molto bello, non è che sia un granché per bivaccarci. Oddio, in realtà, arrangiandosi un po’, potrei farcela.
Comunque la mia prima notte al gioiello sovietico Hotel Uzbekistan è appena saltata, va bene, Turkish non è più quella di un tempo. Ma arrivo, alla fine, arrivo a Tashkent che albeggia, è un lunedì mattina estivo e lavorativo, per loro, dormo un’ora su una poltrona dell’albergo, assumo un tolotto di caffè qualsiasi cosa sia e mi butto anch’io nella mischia. Tra corani insanguinati del settimo secolo di pelle di cervo, venerate tombe di interpreti del sacro testo e di fini calligrafi, centoventisette sono le diverse grafie riconosciute dell’arabo artistico sacro, statue di Tamerlano, eroe uzbeko per eccellenza – nessuno mai insinui la sua nascita tajika -, teatri russi costituiti da ex prigionieri giapponesi della seconda guerra mondiale, ho le mie belle soddisfazioni.
Interagisco fin da ora con uno degli assurdi -stan partoriti da mente sovietica e tracciati con la logica delle cose viste da Mosca, per cui le capitali son dove fa più comodo, e devo dire che mi piace questo inizio di relazione con l’Uzbekistan. Tashkent è la capitale per decisione sovietica, come dicevo, perché vicina a Kazakhstan e Tajikistan ma insensata quando Samarcanda chiama a tutta ragione il titolo. Sebbene la via della seta sia tramontata da parecchio e il paese sia rimasto più isolato – è uno dei due soli paesi al mondo che non solo non ha il mare ma è pure circondato da paesi che non hanno il mare, l’altro è in Europa continentale -, è ancora un vero crocevia di stili, storie e persone: cinesi ovviamente, russi comunque, europei in riscoperta, -stani di ogni tipo, mongoli, qualche indiano, molti turchi. È loro la predominanza economica e culturale qui, le infrastrutture le costruiscono come fanno i cinesi in Africa, stesso guadagno, stesso ritorno. Ci sono anche loro, i cinesi, in ogni caso, auto, camioncini, ruspe sono tutti di importazione, Chevrolet, prodotte tutte in Corea. Tutte bianche e sono tutte a gas, camion compresi. Per forza.
Compro dei soldi ed essendo il tasso di cambio uno a tredicimilatrecento mi riempio tutte le tasche di biglietti da diecimila sum uzbeki e inizio a comportarmi come un satrapo locale produttore di musica rap. Potrei anche comprarmi una pelliccia di cincillà*, che ne è pieno, sarebbe opportuno, stivaletti imbottiti e un gigantesco colbacco. Ora che possiedo circa un milione di sum, ovvero circa ottanta euro, il che la dice lunga sullo stato di alcune cose qui, vado al mercato. Ovvio.
Il mercato è strepitoso, la cupola centrale è sovietica, bellissima sia dentro che fuori, secondo la robusta tradizione dei mercati in territorio socialista, da Riga a Vladivostok. Frutta secca sopra tutto – e sto facendo un errore madornale, lo so, comprandone otto chili -, carne, cavallo più che altro, tè, formaggio essiccato, frutta e verdura tra cui le ignote carote gialle, pinoli della Siberia, banchi di carne alla griglia, vestiti, anche imbottiti che viene da ridere in questo momento ma d’inverno qui va sotto zero anche di venti gradi. Si contratta, gentilmente, nessuno si impone o richiama l’attenzione.
Ebbro di frutta secca e di carnazze, percorro i vialoni di Tashkent, possibilmente all’ombra, fino alle tre statue di Tamerlano, al palazzo del presidente e alla sala del gran consiglio, tutte realizzazioni posteriori al 1993, fino all’hotel Uzbekistan, leggendario simbolo della presenza sovietica in città, nonché edificio bellissimo a parer mio. Prendo un caffè all’ultimo piano in favor di veduta, chiacchierando piacevolmente (?) con Breznev e mi accingo a proseguire.
Il resto poi.
*volevo dire astrakan, quella roba spaventosa lì, non cincillà.
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