minidiario scritto un po’ così di un breve giro per verificare se la semiotica strutturale delle origini è ancora praticata: tre, i migliori del proprio mondo, a casa di Sabonis, dove mettono le auto e la monnezza?

Prendo i miei due stracci e mi inoltro verso il centro della Lituania, con un treno regionale come i nostri, larghezza normale, ma addobbato come una baita transilvana, con tendine di pizzo adesive. Dev’essere una promozione dell’ente del turismo lituanico. Ci avviamo per una pianura tirata a biliardo e punteggiata di fattorie nel mezzo di enormi boschi spontanei, Panierai, Voke, Lentvaris, Rykantai, Lazdenai, Zasliai, Kaisiadorys, Palemonas, in biglietteria faccio fatica anche a ricordarmi la destinazione, oltre a pronunciarne il nome, e poi eccomi, Kaunas. Se avete qualche nozione di basket, allora non devo dirvi nulla. Se non l’avete, in Lituania la pallacanestro è lo sport nazionale, ha espresso squadre e campioni a livello dell’ex Jugoslavia e della migliore Unione sovietica, e Kaunas ne è il centro assoluto, con le final four di coppa in programma la settimana prossima. Magari mi fermo. Ma io non sono venuto per questo, infatti sarei qui in anticipo, io sono qui per le mie esplorazioni, sto seguendo il corso del Neris verso ovest e a Kaunas c’è una poderosa confluenza con il Nemunas, altro fiume di pari grado. Mi piacciono le confluenze, ne ho detto, di questa ne dirò presto perché è speciale. Poi sono qui perché Kaunas è stata un importante membro della lega anseatica, data la posizione sui fiumi, e perché è un esempio fulgido di riconversione di città industriale in città turistica, sportiva, produttiva. Il sindaco della mia città sostiene che la sua sia la migliore in Europa per riconversione tra le città medie e io dico che se viaggiasse in Europa imparerebbe molto, a partire da Kaunas. Almeno a evitare improvvidi superlativi.

Kaunas è abbracciata da due fiumi, come dicevo, uno dei quali, il Nemunas, forma un’isola sulla quale c’è il palazzetto di basket, ovvio, impianti sportivi e giardini a non finire. La città vecchia si sviluppa sulla punta alla confluenza, ha una piazza quadrata con un municipio puntuto che mi ricorda Lüneburg, un bel castello difensivo di cui resta poco e qualche timida casa che preannuncia il gotico baltico. Il resto, le aree industriali, sono state riconvertite o sono in via di, in uffici, musei, alberghi, abitazioni, aree verdi e ricreative, l’università tecnica lituana, anche in un grosso centro commerciale, certo, al cui centro c’è un viale pedonale tutto alberato che sarà lungo non meno di due chilometri. E che le persone usano eccome. Venga, sindaco, venga a vedere.

I parchi e i giardini si sprecano, lungo il fiume dove c’era l’antico porto fluviale l’amministrazione ha ricreato un’arena per spettacoli e con spalti sui quali in tempi normali le persone si siedono a contemplare il fiume e chiacchierare. Intendiamoci, a Kaunas non c’è quasi nulla da vedere, addirittura meno che nella mia città, se non appunto la splendida natura fluviale che la avvolge, un paio di monumenti e una chiesa baroccona e, soprattutto, l’alta qualità della vita che la contraddistingue. È decisamente una versione più avanzata di Łódź, ecco qua, e come allora opto per un albergo ricavato da una fabbrica, bellissimo. Anche in Italia qualcuno c’è, sono stato apposta al Lingotto per quello, la destinazione è naturale. Per molti ma non per il mio sindaco che ha tirato giù una fabbrica per costruire un albergo nuovo. Bravo e non è il solo.

Una casa mi osserva.

Ma Kaunas è una città ricca, si potrebbe dire. Certo, vero, ma anche la mia lo è. Anzi, a ben vedere, la mia ha avuto alcune decine di anni in più di pace e autodeterminazione che le avrebbero dovuto permettere di migliorarsi molto di più. Quando Vilnius fu occupata dai polacchi nel 1920, Kaunas divenne capitale provvisoria finché non fu occupata dai tedeschi nel ’41, quando furono sterminati oltre trentamila cittadini ebrei e oltre diecimila qui deportati da altre parti del reich. Poi nel ’44 divenne sovietica e così fino al 1990, in un susseguirsi di occupazioni e oppressioni. Quindi sono solo trent’anni che il nuovo corso in città è avviato e certamente anche grazie ai fondi UE, non c’è dubbio. Ma forse i fondi UE ci sono inaccessibili? Il caso del PNRR spiega molte cose. Nella mia città si tolgono le panchine e i luoghi di socialità, qui si aggiungono, nonostante il clima sia certamente meno favorevole. La mia città è tutta piena di auto parcheggiate e di cassonetti, qui non vedo né gli uni né gli altri e sono abbastanza certo che i lituanici non abbiano le ruote e non mangino spazzatura. Ma la sua è la migliore città d’Europa, tra le medie. Per carità, le città sono organismi complessi e difficili da governare, non voglio dire il contrario. Invito solo, caldamente, a guardarsi attorno e avere l’umiltà – direi intelligenza però poi si offendono – di andare a vedere come sono stati risolti gli stessi problemi nelle altre città, anche solo, per dire, per evitare di fare gli stessi errori. Santoddio, sarebbero tutte tremende banalità, queste.

Anch’io ho le mie colpe. Tra due giorni si vota per il Comune, appunto, e io per la prima volta non ci sarò. Penso di avere le mie ragioni ma non conta, il punto è che come dice Berlusconi non sono un buon italiano. Bella scoperta. Ciò però mi porta a una conseguenza: non votando, non potrò criticare la nuova amministrazione. Severo, e difficile, ma giusto. Quindi potrò solo continuare a criticare la vecchia, che noia.

Tanto c’è il ballottaggio. Forse.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro per verificare se la semiotica strutturale delle origini è ancora praticata: due, notti quasi bianche, la storia sono loro, cibi con patate, diversità programmatiche tra noi e i compagni ferrovieri lituani

La cosa che balza letteralmente agli occhi è che il sole tramonta alle dieci e sorge alle cinque, di fatto proiettandoci in giornate da diciassette ore. Anzi di più, perché c’è chiaro per un po’ sia dopo che prima, diciamo che bisogna scordarsi di andare a letto col buio e alzarsi col chiaro, andando a occhio. La cosa cui è invece impossibile non pensare è la questione dell’indipendenza delle repubbliche baltiche, citata e ricordata ovunque. Indipendenza che si declina nei secoli, perché mai conquistata in maniera definitiva né stabile. Per restare alla Lituania e agli ultimi secoli, nel 1863 e nel 1918 la riguadagnò dalla Russia e dall’Unione sovietica per poi perderla nel 1939 con la clausola segreta dello scellerato patto Molotov-von Ribbentrop. Non fu, infatti, solo la Polonia a essere spartita ma le repubbliche baltiche furono annesse all’URSS senza reazione inglese o francese. In Lituania cominciò allora un movimento di resistenza armata che avrebbe capitolato solo nel 1953, abbattuto dagli arresti e dalle esecuzioni. Impressionante. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta, e questo mi colpisce perché c’ero e ne avevo capito ben poco, fu di fatto un’occupazione armata sovietica ai danni delle tre repubbliche, l’unica occupazione esistente in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. E ancora più oppressiva perché i popoli baltici nulla hanno a che spartire con i popoli russi, né etnicamente, né linguisticamente, né culturalmente. E se ti viene imposta una lingua è già insopportabile, se poi è pure in cirillico la cosa diventa tremenda. Ragazzi, l’ora di storia non è ancora finita, pazientate, io bevo un espresso accompagnato dal tipico bicchierino di acqua in vero stile napoletano.

Dicevamo. Boni, là in fondo, che manca poco. Alla fine degli Ottanta, con la cosiddetta ‘rivoluzione cantata’, sia in modo nonviolento che schierando i carri armati, la Lituania e poi le altre repubbliche riguadagnarono l’indipendenza prima della caduta dell’URSS. Aderirono convintamente all’Unione Europea, all’euro, a qualsiasi tipo di convenzione pur di non sentire mai più parlare dei russi ed è per questo che oggi sugli autobus lituani invece della destinazione c’è una dichiarazione d’amore per l’Ucraina, col cuoricino, e nelle chiese cattoliche e ortodosse le cassette delle elemosine hanno la bandiera gialloblu. Finalmente indipendenti, le tre repubbliche non furono riconosciute da alcun paese al mondo, tranne l’Islanda. Nemmeno da quell’Europa occidentale filoamericana cui ci pregiavamo di appartenere, la libertà altrui conta finché non crea imbarazzo. Caduta l’URSS, allora sì, finalmente le vedemmo.

Dell’Unione sovietica rimane poco, a parte l’architettura, casermoni nelle periferie che sembrano un glitch nel Matrix, qualche piatto commisto e i binari a scartamento aumentato tipici russi. Nel senso: i binari sono più larghi dei nostri, di conseguenza anche i vagoni, che hanno quattro posti per lato e sono davvero enormi. Tra le leggi della Storia, quella del non invadere mai la Russia ha anche a che fare con questo, ovvero che i nostri treni non vanno sui loro binari e i nazisti dovettero fare grandi trasbordi e inventarsi certi carrelli-adattatori per far salire i propri. Per ragioni commerciali, i lituanesi hanno mantenuto parte della vecchia rete per comunicare a est ma le nuove ferrovie hanno lo scartamento europeo. Per questo, ecco la mia foto qui sopra, nelle stazioni i binari hanno buffamente un largo spazio vuoto a fianco. E se scendi dalla parte sbagliata muori.

Non è che pensare alla resistenza – e qui noi italiani caschiamo nell’equivoco – implichi valori politici e morali di sinistra. Anzi, essendo l’occupante formalmente socialista qui la resistenza fu ispirata perlopiù da valori che oggi chiameremmo cristiano-sociali, per stare alla terminologia del nord Europa. Centrodestra, per capirci. Ma – e anche qui noi fatichiamo a capire – è quella destra democratica, costituzionale, liberale che appoggia e protegge i diritti civili, immigrati, LGBTQ+, minoranze, cioè quella che tanto tanto manca a noi e che baratterei con la nostra destra senza pensarci un minuto. Mi toccherà barattare me e alla fine venire a vivere in posti come questi. Va da sé che la vita per i pochi russi rimasti, perché figli di o nati qui, è piuttosto difficile, l’avevo già visto in Lettonia, spinti ai margini della vita sociale ed economica e spesso senza la possibilità di andare altrove, non essendo riconosciuti come veri russi nemmeno di là.

Dato lo sforzo, mi merito un piatto tipico lituanico e opto per le bulviniai blynai, polpettone frittellone piatte di patate con poca poca salsina yogurt a fianco. Buone, peccarità, non fosse che sono sette e grandi, il mezzo chilo di patate secco secco c’è e non è possibile negarlo. Certo, uno potrebbe anche optare per altri piatti tipici: i vedarai, salsicce di patate, i cepelinai, grandi gnocchi di patate, il kugelis, sformato a base di patate… D’accordo, la sto mettendo giù ripetitiva per amor di scrittura, in realtà la cucina lituana è buona anche se, di fatto, è impossibile prescindere dai grandi quattro: patate, barbabietole, zuppe e carne. Io vado d’accordo con tutti, quindi a posto. Anche con le orecchie di maiale affumicate, che si mangiano come le patatine o la cotenna fritta da noi.

C’è un’altra cosa rimasta legata all’URSS e ha sempre a che vedere con i treni: le biglietterie, invariabilmente presidiate da robuste donne sessantenni che non parlano alcunché non sia materno, vendono anche snacks, bibite e specie di menù combinati. Non che non sia utile, uno fa le cose in una volta sola, però mi colpisce, trasmette un’immagine che da noi sarebbe ritenuta degradante per l’azienda e gli impiegati, chissà che casino farebbe la corporazione dei baristi da stazione. Lo stesso accade con i controllori, anch’essi invariabilmente lo stesso tipo di donna, mai visto un uomo, che hanno un cestinello di vimini con dentro due crackers, due merendine e due bibite. Politica aziendale, chiaramente, identica in Lettonia, Bulgaria, alcune stazioni in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e così via.

Ora me ne vado in un negozio di galanterijos, che domani mi muovo e voglio essere elegante. Prima, però, un suggerimento di viaggio, un’ipotesi che chi vuole raccoglie. In treno, oggi va così. Data la politica di espansione dell’UE della rete ferroviaria, e non solo ad alta velocità, è bene tenere d’occhio il progetto di Rail Baltica, ovvero il collegamento Varsavia-Kaunas/Vilnius-Riga-Tallinn-Helsinki, in fase di realizzazione entro il 2026. C’è qualche ritardo, in effetti, ma l’idea avanza. E il progetto prevede ampio uso dei treni notturni, per cui il viaggio si fa interessante. Vado oltre nella proposta. Non è che sia necessario attendere il 2026, i collegamenti già ci sono, semplicemente non è una linea unica e qualche tratta è un po’ vecchiotta, si può fare tranquillamente. Quindi, al giro delle capitali baltiche, almeno fino a Tallinn, io aggiungerei un tratto in partenza, il Berlino-Varsavia, agile e facile da prendere, con tappa intermedia a Poznań (ne avevo detto qui). Molto Brandeburgo, cavoli e pianure, secondo me ne vale la pena. Berlino-Tallinn in treno, un po’ di notte, un po’ di giorno, quasi all’insegna della vecchia Prussia, un modo furbo per capirne qualche bandolo, guardando fuori dal finestrino e camminando per città interessanti e, quasi tutte, di grande fascino.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro per verificare se la semiotica strutturale delle origini è ancora praticata: uno, blocco 138, un primo sguardo, qua fuori ci sono i colori

La giornata è eccezionale, il cielo terso e il sole caldo, il vento è fresco e mai meno che piacevole, la natura è esplosa e sta germogliando a più non posso, dickensianamente all’ombra è inverno e al sole estate, i fiumi sono abbastanza gonfi d’acqua, si mangia fuori ma di notte fa freddo. Insomma, tutto è perfetto dal punto di vista del contesto. Con una giornata così, anche i casermoni che ho di fronte diventano tutto sommato non male, sono circondati da prati, alberi, spazi di vegetazione spontanea, il verde e l’azzurro attorno al grigio fanno molto. Non sono condominii, sono proprio blocchi brutalisti di abitazioni ciascuno numerato su un fianco o su una facciata, tutti davvero uguali e, se non per il numero, per me indistinguibili. Alcuni sono collegati da archi, altri sono su piccole colline, altri in basso in linea, sono arrivato al 138 e non ne vedo la fine, è un quartiere che è una città, ovviamente un lascito sovietico. Nonostante la giornata sia splendida, il posto dà da pensare e mette i brividi, perché sono a Pryp”jat, la città morta dopo lo scoppio di Černobyl.

Non è vero, non sono a Pryp”jat. Sarei deficiente se lo fossi, primo perché è un luogo contaminato, secondo perché trovo stupido fare turismo in una città devastata e abbandonata per un incidente nucleare. Nonostante, credo di non dire nulla di nuovo, in realtà il turismo lì imperversi eccome. Comunque no, io sono a Fabijoniškės, il distretto di Vilnius che ha impersonato Pryp”jat nella strepitosa serie HBO Chernobyl. È talmente sovietico e intoccato che è stato scelto come set di tutta la serie, ambientata ovviamente nel 1986. La centrale, invece, l’ha impersonata la sua gemella lituana, la centrale elettronucleare di Ignalina, Ignalinos Atominė Elektrinė, che ha lo stesso tipo di reattori. Una delle clausole di entrata della Lituania nell’UE riguardava proprio lo spegnimento di Ignalina. Che, a seguito della serie, è una meta turistica molto richiesta.

A Fabijoniškės credo ci vivano almeno alcune centinaia di migliaia di persone e non è che Milano 2 sia meglio, eh, e lo ZEN di Palermo, per dire, è imparagonabile per svantaggio. In realtà, a parte la ripetizione inquietante dell’architettura sovietica, il distretto è molto appetibile, per spazi verdi, quiete, posizione. Non è raro vedere parcheggiate BMW e Audi che convivono con la signora di una certa età che fa ancora l’orto ai piedi del blocco fumando tzigarra bucuresti e che potrebbe così com’è fare la comparsa nella serie.

Questo però è un distretto esterno di una grande città, oltre settecentomila abitanti, il cui centro è sulla confluenza tra Neris e Vilnia e appoggiato su dolci colline boscose. Se Riga e Tallin sono più belle, più omogenee e armoniche, Vilnius è in una gran posizione, alterna barocco a neoclassico a residenziale povero otto e novecentesco in via di recupero a brutalismo a edilizia dirigenziale dei nostri anni. Certe casone mitteleuropee a due piani, simili in Romania, Bulgaria, Polonia, spesso vicine al centro e con giardino, sono in vendita, calcolare il completo rifacimento. Le case povere, agricole, che chiamare di ringhiera sotto il socialismo reale sarebbe davvero eccessivo, come le case georgiane in legno vanno invece sparendo. Una delle cose che si nota nelle repubbliche baltiche, per stare in Europa, è l’età media della popolazione, bassa per i nostri standard, senza però che i giovani sembrino avere accesso più di tanto alle risorse, problema diffuso. Air Jordan, telefono bello, spesa in accessori e quasi tutto il resto in economia. Tutte e tre le repubbliche puntano molto sulla digitalizzazione, la Lettonia più di tutte, importano ed esportano apparecchiature informatiche e ospitano senz’altro sedi più o meno reali di aziende di tutto il mondo, si sono inventati l’identità digitale, che è una cosa realmente e concettualmente davvero complicata. Non pensate alla SPID. Eppure le linee non sono velocissime, almeno non lo sono quelle cui riesco a collegarmi io per scrivere questo minidiario.

Bene, sono di nuovo in giro e questo conta per me, anche se brevemente. Ma perché me ne vado in giro? Qual è il senso e quale il significato? È viaggio è turismo? Cosa cerco? E soprattutto cosa trovo? Vabbè, domande, io un po’ di risposte le ho già, sarei sciocco non ci fossi arrivato nel tempo, non son cose che comunque importano qui. Ci sono una o due cose utili da dire ma non ora. Ora una domanda potrebbe essere: vale la pena visitare Vilnius? Certo, per me varrebbe la pena visitare anche una fogna di Calcutta, sapendo però cosa si stia vedendo. Ne vale la pena, non v’e dubbio, magari avendo già visto alcuni posti con somiglianze comparabili. Dico: Cracovia, Riga, Tallin, Padova, Bordeaux, Tubingen, Ratisbona, Dresda, Weimar, Timisoara. Ecco, per dirne.


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ma porcocane, Michela Murgia

Ma porcocane, Michela Murgia, che brutta notizia.
Una persona intelligente, un’intellettuale per davvero che si interroga e non si tira indietro quando deve, una persona sensibile e interessata al contesto umano e materiale in cui vive, una donna che ha vissuto e vive molte vite, scrittrice, studiosa di teologia, operatrice in call center e così via, politicamente dalla parte giusta, ma porcocane. Noi, io, abbiamo bisogno di persone così, e anche i melonisti salvinisti menefreghisti, anche se pensano di no e sono incapaci di compassione. Michela Murgia, nome e cognome perché non ti conosco di persona, donna che sono sempre stato contento ci fossi anche se non ti seguivo da vicino e non sono mica d’accordo con te in buona parte delle cose, oh, che anche in questa occasione hai detto cose intelligenti e di cui c’è gran bisogno – no alle metafore di lotta e combattimento nelle malattie, per esempio -, Michela Murgia, ti auguro tutto il bene di cui sono capace, qualsiasi sia il tuo percorso sperando ovviamente nel meglio, e se mi verrà in mente qualcosa per essere più utile, lo farò.

«Può esserti utile sapere come riconosco io il fascismo quando lo incontro: ogni volta che in nome della meta non si può discutere la direzione, in nome della direzione non si può discutere la forza e in nome della forza non si può discutere la volontà, lì c’è un fascismo in azione. In democrazia il cosa ottieni non vale mai più del come lo hai ottenuto e il perché di una scelta non deve mai farti dimenticare del per chi la stai compiendo. Se i rapporti si invertono qualunque soggetto collettivo diventa un fascismo, persino il partito di sinistra, il gruppo parrocchiale e il circolo della bocciofila».
(Da un post sul profilo ufficiale FB, 2 settembre 2017)

Per citarne una, a noi le teste così servono. Pensanti.

finalmente anche lui confessa!

Detto questo, io capisco tutto quanto dell’intervista di Schlein a Vogue, capisco il volersi andare a prendere una fetta specifica di coetanee uscite marginalmente dall’area o meno e parlare a un certo tipo di persone, lo capisco e ben comprendo. Capisco meno fare il nome, lo spottone, della professionista amica, bastava una risposta generica, e nemmeno l’accenno all’armocromia, ben sapendo che sarebbe rimasto solo quello di un’intervista lunga e articolata, ma vabbè, mica devo capire tutto io.