e ci risiamo, maledizione

Negativo ma l’accerchiamento è evidente, positivi dappertutto. Anche in ospedale qualche giorno fa la mascherina è tornata obbligatoria. Per carità, sintomi ragionevolmente contenuti ma la contagiosità è evidente: parenti, amici, nemici, conoscenti e non, davvero parecchi. Io e la mia amica E., che non abbiamo mai preso il covid, almeno non consapevolmente, proseguiamo la gara per vedere quale uno ne resterà. Ma il cerchio si fa stretto, di questi tempi, e lei di certo prima o poi se lo beccherà.

alcune cose da intelligenza artificiale

Che vengono a cascata, di questi tempi. Ma ne raccolgo tre che per motivi diversi mi hanno colpito negli ultimi giorni. Prima la Marvel fa uscire l’ennesima serie, ‘Secret Invasion’, la cui sigla è per la prima volta interamente disegnata da un’intelligenza artificiale, per la gioia del reparto di CGI dell’azienda. La musica no, perché è la parte fondante su cui si regge la sigla che, nonostante l’origine, è più che rispettabile, perché il tratto grafico ben si sposa e con il contenuto della serie e con le capacità attuali dei softwares. Poi qualcuno pubblica il primo magazine online interamente compilato – ‘scritto’ sarebbe eccessivo per questo caso – da, appunto, un’altra intelligenza artificiale, 10 consigli, dieci consigli quotidiani raggruppati per scopi come “guidare un’auto come Dominic Toretto della serie Fast&Furious” o “costruire un impero come i romani”. Appropriati, al limite un filo noiosi, se proprio. Infine, più inquietante, il discorso di Salvini che si rivolge in francese ai conterranei di Le Pen invitandoli al raduno annuale della Lega a Pontida. Il punto è che Salvini non ha girato il video in francese, bensì in italiano, poi è stato dato in pasto a HeyGen che ne percepisce il discorso, lo traduce in un certo numero di lingue, lo interpreta e, nel frattempo, codifica la voce uguale all’originale, poi doppia a tempo il discorso e modifica il labiale di modo che sembri naturale. E il francese d’esito pare essere piuttosto buono. Tralascio gli sproloqui, innumerevoli, come quello di Casellati che ha proposto in questi giorni di far regolare da un’AI l’insieme dei codici giuridici italiani, così da fare ordine dove un milione di legislature di professoroni non sono riuscite.
Cadauno l’immagine per le slides di Powerpoint, per comodità, da mettere nella cartella con la scimmia al pc, il tizio col notebook in spiaggia eccetera.

Poiché gli innegabili vantaggi delle intelligenze artificiali ricadono su tutti, dall’imbelle politico che non conosce le lingue a chi illustratore non è e può produrre immagini a proprio piacimento a chi ha bisogno di un catalogo still life senza spendere una fortuna in fotografo a chi si fa fare il lavoro-base di compilazione di codice da una macchina, per dirne alcune banali, è evidente che non si potrà che andare avanti e i posti di lavoro persi e le professioni che diverranno obsolete avranno rilevanza solo per i casi singoli. Che, a loro volta, avranno qualche vantaggio economico-produttivo da un modesto abbonamento a un’AI. E questo per restare a utilizzi di basso livello e con intenti onesti, da qui in su serve normare tutta la faccenda e, per fortuna anche in questo, l’UE sta provvedendo. A margine, un contributo non marginale sul tema.
Ci servirebbe un altro Rodotà, questo sì, spero si stiano formando.

mille novecento ottanta quattro

L’otto giugno 1949 Secker & Warburg pubblicarono la prima edizione di 1984 di George Orwell.

Stampato in 25.575 copie, ne vennero immesse sul mercato altre cinquemila l’anno successivo. Sei giorni dopo la pubblicazione in Inghilterra, 1984 uscì negli Stati Uniti per Harcourt Brace, & Co. Lì il successo fu ancora più istantaneo, alle prime ventimila copie ne seguirono diecimila il primo luglio e altre diecimila il sette settembre. Nel 1970, ne risultavano vendute più di otto milioni di copie nei soli Stati Uniti e da allora il titolo è sempre nelle classifiche dei libri più venduti.
Questo però, purtroppo, George Orwell non lo seppe mai, poiché morì pochi mesi dopo la pubblicazione, nel gennaio 1950. La moglie Sonia Bronwell vendette per beneficenza l’unico manoscritto esistente nel 1952 per cinquanta sterline ed è, a oggi, l’unica testimonianza manoscritta del lavoro dell’autore.

La stupidaggine detta a scuola che il titolo sarebbe l’inversione dell’anno di scrittura, 1948, è, appunto, una fola e il titolo sarebbe dovuto essere The Last Man in Europe, fu poi su consiglio dell’editore Warburg che venne adottato 1984. Tra l’altro, ed è rilevante, il titolo corretto dovrebbe essere nella sua versione estesa, ovvero Millenovecentottantaquattro, Nineteen Eighty-Four, come riportato nella prima edizione. E come, scaduti i diritti nel 2019, anche molte edizioni italiane ora preferiscono titolare.
A proposito delle prime edizioni, né l’edizione inglese lasciava trasparire dalla copertina il genere del testo, né la prima edizione italiana, tradotta da Gabriele Baldini per Mondadori, adeguò in modo appropriato la lingua e il registro al contenuto, pubblicando una versione eccessivamente elegante e sostenuta.

Soltanto nel 2021 e in Italia ne ho contate tredici nuove edizioni e ristampe, spesso con nuove traduzioni: Feltrinelli, Newton Compton, BUR-Rizzoli, Bompiani, Giunti-Barbèra, Einaudi, Sellerio, Garzanti, Fanucci, Chiarelettere, My Life, Urban Apnea Edizioni, GOODmood. Per dire del successo persistente ed è un testo senza dubbio che è meglio avere in catalogo, specie se gratis.

«persone grigie e timorose, caute e pronte a spendersi soprattutto per una rivalità»

Non ho votato e non voto alle primarie perché non credo sia lo strumento adatto per la scelta del segretario di un partito, credo che la decisione debba venire dall’interno. Altrimenti, la scelta verrà effettuata da cittadini più o meno consapevoli delle dinamiche interne al partito e alla politica e perlopiù sulla base di indizi, preferenze personali e caratteristiche che tendiamo tutti ad attribuire arbitrariamente ai candidati e senza tenere conto di elementi essenziali. Capisco molte delle motivazioni contrarie, condivisibili, favorevoli alle primarie, ma resto sul mio.
Bene, vince Schlein. Donna, giovane, attenta ai diritti. Questi i fatti e proprio in virtù di essi, perché è giovane e donna, elementi nuovi nel PD, le si attribuisce la carica di novità, la capacità di dare una svolta al partito e di rompere l’immobilismo che regna al suo interno da molto. Però buona parte dell’estabilishment del partito e in particolare l’area socialdemocratica e cristiano dem, i democristiani, ovvero quei capibastone delle correnti che l’elezione di Schlein si spera elimini, appoggia la nuova segretaria ed esulta per l’elezione. Bettini, Orlando, l’orrendo Franceschini che io identifico come emblema di tutti i mali, Zingaretti, Gualtieri, tutti quanti belli contenti nonostante, va detto, alcuni mesi fa la osteggiassero vivacemente. E allora?
Per lo stesso principio, ma è teoria, immagino che le votazioni degli iscritti al partito, che hanno preceduto le primarie, siano avvenute sulla base di una maggiore consapevolezza della natura dei candidati, delle reciproche posizioni nel partito, delle opportunità future, rispetto alle primarie cui poteva partecipare qualsiasi cittadino consapevole e non. E loro hanno scelto Bonaccini, nonostante non appartenga ad alcuna corrente. Che per carità, la sua sbandata renziana l’ha avuta e non è esente da critiche, però il fatto resta.
Ha vinto Schlein, viva Schlein quindi. Incarna il nuovo e la svolta, i prossimi tempi diranno se si tratta di realtà o di proiezione delle aspettative degli elettori, di sicuro però con questa elezione non cambia molto all’interno del partito, anzi alcune aree ne escono enormemente rafforzate. Che è un po’ il problema. Fin da settembre si diceva, l’ho detto anch’io, che si sarebbe dovuti partire dalle tesi per arrivare al congresso e non dalle persone e così, ancora una volta, non è stato. Vediamo, al momento viva Schlein, speriamo non sia la solita delusione PD.

UE: i blu e i rossi

La cosa interessante, tra l’altro, è che tra i più ostinati oppositori all’Europa unita ci sono le nazioni che ricevono più soldi, ovvero hanno il saldo più favorevole tra quanto dato e quanto ricevuto. L’Irlanda, voglio dire. Le ragioni sono molteplici e parecchie di abbastanza facile comprensione ma ciò nulla toglierebbe al piacere di prendere un po’ a calci nel culo gli euroscettici polacchi e ungheresi. E anche i belgi, ma quella è una cosa mia.

l’invasione, giorno sedici: quanto dura la mia compassione?

Facile dire facciamo fuori Putin. E poi? Perché gli errori madornali sono già stati fatti, per restare in tempi recenti, con Saddam e Gheddafi, appuntarsi la medaglietta di liberatori per poi consegnare i rispettivi paesi al caos, generare l’ISIS, le guerre tra bande, lo sfruttamento dell’immigrazione e la detenzione illegale e tutto ciò che ne consegue. Bisogna sapere con precisione da che padella ma soprattutto in che brace si vuole cadere. E questo vale anche per questa invasione, nel senso che la frattura all’interno del popolo ucraino – qualche iddio pietoso mi perdoni per le generalizzazioni – è ormai del tutto consumata da decenni di dipendenza prima e di guerra dal 2014 ora, e sarà difficile ricomporre la distanza tra filorussi e filoucraini senza che sfoci essa stessa in una guerra civile. Come mi faceva notare un amico, con il quale peraltro concordavamo sul fatto che si dice NATO ma si intende UE, se non politicamente almeno per tipologia di vita e sviluppo, lo spostamento a occidente dell’Ucraina – libertà economiche e civili, politiche, di dissenso, tenore di vita e così via – mette in crisi l’esistenza stessa della Russia, ne mina alle fondamenta la natura stessa. Almeno della Russia putiniana, se questa non è una lettura che risente di schemi di analisi vetusti.
Comincio a temere che sarà lunga.

Rothko, ma non penso indicasse l’Ucraina. O sì?

Alcuni giorni fa, questa cosa non voglio lasciarla cadere, il Corriere è uscito in edicola allegando una bandiera ucraina al giornale, riutilizzando lo slogan usato ai tempi per Charlie Hebdo: «Siamo tutti ucraini». Per carità, ben intenzionati e sinceri democratici tutti, ma no, perdio no: non ero Hebdo allora e non sono ucraino ora. Non è nemmeno la terza via di Montanari di qualche giorno fa, è proprio il rifiuto di un modo vigliacchetto di sintetizzare la disapprovazione per un sopruso, se fossimo davvero ucraini – almeno non filorussi – allora saremmo intervenuti militarmente, altroché. E invece no, non lo siamo affatto, basta per favore con queste semplificazioni idiote. Almeno il primo quotidiano del paese, eddai.
Devo ritrattare una cosa detta ieri, errata: la pronuncia Ucràina – lo dice la Crusca, quindi mi allineo senza dubbio – non è russa, bensì semplicemente più arcaica di Ucraìna. Non c’è, quindi, prevaricazione culturale. L’invito, dunque, è a utilizzare ciò che si preferisce, senza sfumature di qualità. E allora io torno al mio più confortevole Ucràina, che si confà anche meglio al mio arcaismo di facciata.

Queste considerazioni mi fanno comprendere che sto lentamente tornando alla vita normale, nel senso che l’angoscia e la preoccupazione restano, l’impegno per essere utile per gli ucraini pure, ma dopo due settimane cominciano a riaffacciarsi le abitudini e le attività consuete, che si inframezzano alle notizie di guerra. È un processo normale, lo so, lo facciamo tutti per una semplice questione di sopravvivenza al di fuori – fossimo parte coinvolta sarebbe tutt’altro, è ovvio – e lo spavento e l’ansia dei primi giorni pian piano si attenuano. È del tutto vero che ci abituiamo a tutto, serve solo il tempo giusto. È anche una strategia, perché qui le cose hanno tutta l’aria di proseguire a lungo, lo sospettavamo fin dall’inizio. È successo anche con la pandemia. Non avevo più ascoltato musica, non avevo più letto i miei libri, non ero più andato a camminare in montagna, non ero più uscito a cena. Ora pian piano mi accorgo che sto ricominciando. Non mi pare di correre il rischio di dimenticare, è sempre la parte centrale della mia giornata, ne parlo comunque con amici e conoscenti, la tensione non diminuisce oltre un certo livello, però le cose effettivamente cambiano. Si fanno anche più sfumate, nel senso che l’appoggio incondizionato che provavo due settimane fa ora è più circoscritto, è rivolto alle vittime, non a tutti gli ucraini indistintamente. Forse è un errore, forse è sbagliato, lo è di certo nei confronti di chi invece questa situazione la subisce da settimane con intensità crescente, è vero. Inutile però far finta che la distanza non conti, perché conta, eccome. E il trasporto, la compassione, la simpatia – tutti in senso etimologico – tanto sono intensi al momento quanto poi tendono a scemare nel tempo, perché semplicemente i battiti cardiaci non si normalizzerebbero, la vita sarebbe stravolta. Dico questo, lo ripeto, perché ne siamo al di fuori. O, meglio, ne siamo dentro ma in maniera diversa. Come è emerso da alcune conversazioni in questi giorni, siamo in guerra anche noi, inutile far finta che non sia così. Ma in una guerra diversa, sanzioniamo creando danni e ne subiamo di conseguenza, per ora costi energetici, forse la pasta, non tanto ma è così. Non ci bombardano, grazie a dio, ma siamo comunque in conflitto, in quello che molti analisti chiamano da parecchio tempo «la guerra contemporanea». E riconoscerlo è già un passo avanti, secondo me.

l’invasione, giorno quindici: cosa possiamo fare da qui, compreso mettere gli accenti nei posti giusti

L’invasione prosegue. I colloqui, stavolta in Turchia, paiono non aver dato risultati apprezzabili, a tirar missili prima o poi si prendono centrali nucleari, settimana scorsa, od ospedali, l’altro ieri. Ma evitare i civili non pare affatto una preoccupazione russa, anzi. Se dagli Stati Uniti, Harris, fanno sapere di aver consegnato dei missili patriots alla Polonia, e la cosa non rassicura per nulla, da Mosca invece riportano che Putin ha avuto telefonate con Macron, l’unico a tenere un filo costante, e Scholz. Riesco a malapena a figurarmi quale possa essere il tenore di questo tipo di telefonate, ho anzi il sospetto che non mi piacerebbe sentirle. La Svezia, nel frattempo, che storicamente è uno dei paesi più intimoriti dalle recrudescenze russe, annunciano che investiranno il due per cento del PIL nazionale in riarmo, “as soon as practically possible”. Di contro, il governo russo fa sapere che non parteciperà più alle sedute del consiglio d’Europa. La seduta di oggi di Putin e del comitato centrale sarà dedicata alle strategie per ridurre l’impatto delle sanzioni, dicono, il che posso immaginare includa anche l’ipotesi di nazionalizzare le proprietà delle aziende straniere che hanno interrotto i rapporti commerciali con il paese. Vengono mandate in onda immagini di moscoviti all’assalto dei negozi che chiuderanno a breve, dalle mutande da Victoria’s secret ai panini da McDonald’s. Ovvii i paragoni infausti e gli articoli che parlano di ritorno all’URSS.

Notizie sparse, insomma, il clima non è buono e non tira aria di grandi aperture o distensioni. Qui ci si organizza per quel che si può, spedire beni in Ucraina, si continua, accogliere i profughi in arrivo. La pressione sui paesi limitrofi è ovviamente molto alta, oltre il milione nella sola Polonia, dove abito io le prefetture stanno raccogliendo le adesioni di hotel e residence, facendosì carico delle spese per una quota pro capite di circa ventisei euro al giorno. Tra le cose che possono, in qualche misura, contribuire, un amico mi propone di aiutarlo a ripubblicare un libro di pensieri poetici di donne ucraine. Volentieri, alla fine delle finite molti di noi, io di sicuro, hanno bisogno di agire, di fare qualcosa che sia utile. Per impostare il lavoro, oggi ho installato la lingua ucraina sul pc e, per un momento, tutto il computer era in cirillico. Sono dovuto andare a memoria delle posizioni del pulsanti per rimettere la solita lingua, perché ancora l’ucraino lo mastico poco. Però è stato buffo, è stato un attimo di partecipazione più profonda.

Tu cosa fai per l’Ucraina? Eh, io ho messo la lingua nel computer e da alcuni giorni lo uso così. Resistenza! Vabbè. Almeno ho imparato che sarebbe meglio dire Ucraìna e non Ucràina come io ho sempre detto, sebbene entrambe le pronunce siano tollerate. In particolare, perché la mia, Ucràina, è la pronuncia russa e, di conseguenza, anche in questo cerchiamo di essere corretti. Peraltro, nella stessa ricerca ho anche imparato che si pronuncia narvàlo e non nàrvalo, ho sempre sbagliato anche quella. Bene. Andiamo avanti così.

l’invasione, giorno dodici: richieste vere o false

Da quanto trapela dai negoziati, le richieste della Russia per cessare l’invasione sarebbero l’introduzione di un articolo nella Costituzione che impedisca l’entrata dell’Ucraina in qualsivoglia blocco dalla NATO all’UE, il riconoscimento della Crimea come russa, il riconoscimento di Donetsk e Luhansk come stati indipendenti, il fatto che Zelenskyy rimanga come presidente pro forma ma che Yuriy Boyko sia il primo ministro. Zelenskyy ha risposto no.

Io, a questo punto, avrei valutato molto seriamente. Inoltre, se queste effettivamente sono le richieste, parrebbero volere il riconoscimento ucraino della situazione precedente all’invasione, presidente a parte. Per cui, posso immaginare che, sotto la pressione delle bombe, il fronte che sostiene Zelenskyy si possa fare meno compatto e che una parte dell’opinione pubblica ucraina e del governo e dei settori produttivi possa cominciare a fare pressione sul presidente per un accordo. Peraltro, sarebbe più corretto e comprensibile considerare questa invasione come un passaggio, drammatico, di una guerra che va avanti da otto anni e della quale il mondo non ha avuto alcuna percezione o quasi, e non un’escalation improvvisa dovuta ai ghiribizzi di un pazzo o all’immarcescibile imperialismo russo. Di certo, il rifiuto di quanto richiesto ha già spezzato il fronte ucraino e, fosse anche solo quello l’intento dei russi, la mossa avrà senza dubbio delle ripercussioni interne. E la valutazione della Cina, che è storicamente e culturalmente restia a parlare, che indica la Russia come il proprio partner strategico principale non può essere di certo ignorata né presa con leggerezza.
Tra l’altro, basta guardare questa fotografia spaventosa delle evacuazioni di Irpen per essere meno saldi nel proposito di resistere, secondo me.

Da noi, mentre un’ampia parte della popolazione si è attivata per inviare aiuti in Ucraina e per assistere i rifugiati in arrivo, un’altra, più piccola, si dedica alle ricerche in rete per i costi di costruzione dei bunker casalinghi e all’acquisto sconsiderato delle pastiglie di iodio, per sentito dire in caso di contaminazione nucleare. I giornali, certo, la tv, sicuramente, ma molti suggestionabili e molti egoisti. E questo non lo scopriamo ora, dopo i due anni appena passati.

Nel frattempo, una vicenda personale che deriva però da una situazione generale, pandemia e Ucraina comprese: mi è arrivata la bolletta della luce del bimestre dicembre-gennaio. A parità di consumo rispetto all’anno scorso, la tariffa è esattamente raddoppiata, grossomodo 34 centesimi a kW/h. E questo accade dopo che il governo ha investito una quantità enorme di denaro per compensare l’aumento del costo dell’energia, noto da mesi alla borsa energetica di Amsterdam. Per il gas, gli aumenti dovrebbero cominciare, pare, da aprile, il che è una buona notizia in termini di riscaldamento. Non per me, che ho induzione e pompe di calore e quindi pago tutto fin da ora, bel salasso ma vabbè, il particolare conta poco. Conta il generale e di certo questa cosa da un lato creerà difficoltà a un sacco di persone e, dall’altro, acuirà la spinta irragionata verso il nucleare. Scommettiamo? Ma considerando che il pagare di più l’energia al momento è la cosa peggiore che ci capita, visto quel che succede in giro, va benissimo e, anzi: ringraziare per tanta fortuna.