minidiario scritto un po’ così di un breve giro alla carlona: cinque, momenti, istanti, conclusioni, stalle stelle stalle

Questi viaggi sono per me una successione di piccole gioie. Istanti, attimi di perfezione o quasi, in cui mi fermo e focalizzo la sostanza del momento, sono contento se dire felice forse è eccessivo. Sia in negativo, ovvero per l’assenza di qualcosa, non sono in ufficio coi morti, non sono chiuso in casa, non sono più in lockdown, non ho problemi irrisolvibili, sia in positivo, la cosa che sto facendo o vedendo, un incontro, un momento di contemplazione pacifica, un’esperienza entusiasmante. Per lo più si tratta di istanti legati all’essere in viaggio, contemplare qualcosa di bello e di nuovo ma, e qui sta la felicità, farlo potendolo fare a oltranza, senza impegni, appuntamenti, senza doverlo fare col calendario. Oppure scoprire una cosa interessante per caso e dedicarmici con attenzione senza che ne avessi idea prima. Uno dei momenti migliori, l’ho detto in altri minidiari, è la mattina, quel momento in cui tutto è possibile: restare dove sono e perdere tempo, prendere un treno per una destinazione scelta al momento, restare a fare colazione e pensarci dopo, andare, aspettare, salire, scendere. Anche non decidere. Se poi capita di farlo al caffè di una libreria strepitosa appena scoperta, beh, ho la coscienza del momento e me lo gusto fino in fondo.
Senza arrivare a Piccolo, che è una cosa diversa, sono attimi, istanti che sommati danno il tenore al viaggio, al periodo, alla mattina, alla giornata. Poi passano, il trucco è rinnovarli di continuo. Ne ho in mente molti, ricordo per esempio una colazione a ferragosto a Nancy, un momento perfetto di cui mi resi conto proprio in quel frangente. Fattori concomitanti? Mah, difficile dirlo, un bel posto, faceva più fresco che fuori, ma sono cose piccole, un panino al burro, cose in sé da niente ma che combinate, spesso a sorpresa, fanno l’attimo.

Svolto la strada del ritorno ma frappongo Bonn tra il me di ora e il me sull’aereo. Anche in questo caso è una ripetizione ma va bene così, è una città piccoletta con le strutture di quando è stata capitale, palazzi presidenziali, musei sproporzionati, infrastrutture oggi sovradimensionate, Beethoven dappertutto, nella maggior parte dei casi non ne sarebbe contento.

Al cimitero, la tomba della sua mamma. Con un afflato affettivo insospettato, lui la definì «la mia migliore amica» quando morì nel 1787, giovane lui e giovane lei, e la cosa mi rimane in mente. La casa, in Bonngasse 20, non è né modesta né sontuosa e il giovane Beethoven non lasciò Bonn con astio come Mozart Salisburgo bensì perché rimasto solo con due fratelli più giovani a carico, e bisognava tirare la carretta. Per cui, il rapporto della città con il proprio cittadino più illustre non risulta sfrontato come quello di Salisburgo, al limite è un po’ troppo pop, questo sì. E sì che Schumann fece così tanto perché la sua città lo ricordasse, sembrava non volessero, allora.

Ci sono due gradi sottozero, tira un ventone che te lo raccomando, giro un po’ sulle rive del Reno con grande soddisfazione, incontro solo due ragazze che non rinunciano alla corsa o forse si allenano per l’iditarod. Dopo un po’ opto per un museo, ce ne sono due enormi costruiti, appunto, ai tempi di Bonn capitale sul Museumsmeile. Ma le glorie vanno e vengono e restano i musei, gli edifici, ma ciò con cui riempirli nzomma. Quello che scelgo io propone vasti assortimenti di espressionismo tedesco ma è una finta, in realtà è espressionismo renano, parecchio della gloria locale August Macke e molto contemporaneo, anni Settanta e Ottanta. Eh, mica da stupirsi se siamo meno noi visitatori dei custodi, faccio fatica a catalogare come espressionista un’audi completamente spatasciata contro un palo in bella mostra in un cortile del museo. Però le strutture sono straordinarie, provo a immaginare le difficoltà di una cittadina piccoletta che a un certo punto assurge alle glorie di capitale e di centro della Germania occidentale per poi, cinquant’anni dopo, tornare a essere una città mediopiccola abbastanza ininfluente. Difficile, immagino sarà così anche per gli emirati arabi, o forse lo spero, una volta che avremo smesso di usare il petrolio per devastare il pianeta, carburanti e plastiche.

L’attrazione di Colonia, a meno di mezz’ora, è potente, al punto che – e sembra di essere in Italia – non c’è un modo furbo per andare in aeroporto e l’unica sarebbe appunto andare a Colonia in treno e prendere la metro. Per dire. Però è il posto giusto per la conclusione del viaggio, nell’ultimo spezzone appare anche il sole sempre con due gradi sottozero, prima volta in quattro giorni, e non riesco a credere a chi mi racconta che in Italia ci siano venti gradi e fioriture improvvise dappertutto. Piglio su i miei quattro stracci e mi rimetto in riga, torno a casa e sono pronto a scontare nel modo più duro questa mia fugace fuga. E quindi bon, alla prossima.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro alla carlona: quattro, ho bevuto l’acqua voglio la citazione, Carlo perde il senno, popolazioni gentili qua fuori, la più bella mai vista

Diluvia, ancora. So che quest’estate rimpiangerò questi momenti, ora l’unica è fare come fanno qui, stivali di gomma, cerata e via, sguardo in alto. Gli ombrelli si rompono. In centro ad Aquisgrana c’è un padiglione neoclassico che offre un getto di acqua termale a cinquantadue gradi e dall’inconfondibile odore di zolfo, uova marce. Sembra l’acqua che esce dai rubinetti di Pavia. Cinquantadue gradi sono parecchi, devo dire, a toccarli e a berli. Comunque, sulle pareti sono murati gli elenchi dei visitatori celebri, principi, zar, scrittori, uomini e donne, che si sono abbeverati alla fonte, di cui da sempre sono riconosciute le caratteristiche benefiche. Oggi no: siccome il ministero riconosce il potere medicamentoso delle acque, allora sono equiparate a un medicinale e, come tale, non può essere somministrato liberamente. Quindi l’acqua non si può più bere. C’è però da dire che è un divieto formale, è scritto grande, se uno vuole la beve. Ne bevo un po’ perché sono qui e devo ma fa abbastanza schifo. A chi mando nome e cognome per la gloria imperitura?

la prima pianta fiorita qui

Tra i nomi scritti, c’è quello di Petrarca, passato di qui nel 1333 per conto del cardinale Giovanni Colonna. Abbiamo una lettera, credo sia nelle Familiares, in cui racconta il suo arrivo a Colonia e il passaggio ad Aquisgrana. A onor del vero, Petrarca non dice granché sulla città, mentre è entusiasta di Colonia e soprattutto delle donne lì incontrate al tramonto, ma racconta piuttosto una storia su Carlo Magno. La riporto, maciullandola inevitabilmente. Carlo è innamorato perdutamente di una donnicciola da poco, una mulieruncola, e trascura i doveri del governo ed è senz’altro «demente» per questo sentimento, facendo cose che Petrarca riferisce come irripetibili. Anche quando la fanciulla muore, Carlo è inconsolabile e veglia il cadavere senza posa. Il vescovo, preoccupato dell’andamento delle cose, cerca di riportare Carlo alla ragione senza però riuscirvi; per caso, si accorge che il cadavere ha un anellino da niente sotto la lingua, lo preleva e lo tiene con sé. Ed è così che improvvisamente il re si rende conto dell’aspetto orribile delle spoglie dell’amata e ne ordina la sepoltura. Non basta. Carlo a questo punto comincia a pendere dalle labbra del vescovo e ne esegue ogni ordine e volere, Petrarca allude anche alle gonne di questo. Il vescovo ne approfitta per un po’ ma poi si rende conto che è necessario che Carlo rinsavisca, per il bene del regno e della popolazione, e così getta l’anello in una palude. E Carlo? Ovviamente la elegge a suo luogo prediletto, ove andare a riflettere e passare il tempo. Non solo, dai e dai, alla fine la palude gli piace così tanto che decide di fondarvi la sua capitale, in mezzo al fango: Aquisgrana.

Non si fraintenda o semplifichi, il discorso è un ragionamento sull’irrazionalità delle azioni umane e sul caso che spesso sovrintende l’andamento delle cose, certo è che, comunque, Roma e Firenze erano lontane e certi costumi piuttosto diversi. Il punto è, però, a parer mio Petrarca stesso, un altro prototipo di homo europaeus, viaggiatore conscio della storia e della natura dei luoghi che visita, per il quale gli onori romani come i soggiorni avignonesi o quelli milanesi o tedeschi fanno tutti parte di un’unica cultura declinata in varie forme e tempi. Lui è in grado di leggere ciò che vede e di trarne ragionamento e si muove con disinvoltura in tutta Europa. Chiaro che ne traggo ispirazione. E comunque il Carlo completamente rimbecillito che decide di vivere nella palude in effetti fa un po’ ridere, anche se nulla ha a che fare con lo spirito del racconto.

Prima di andarmene, vado a visitare il Centro Ludwig di Arte Internazionale – ancora quel Ludwig di Colonia – perché ha sede in una ex fabbrica di ombrelli costruita in stile internazionale negli anni Venti. Ed è bellissima, la metto qui sotto al contrario di quanto faccia di solito. Giro le sale non apprezzando fino in fondo un’artista cubana che espone un milione di opere quando mi raggiunge la direttrice del museo, con cui facciamo una lunga chiacchierata per tutto il museo. Si scusa perché tutto è ancora in allestimento, mi dice che dopo il trenta aprile sarà tutto magnifico come al solito, io replico che il posto è già magnifico, e lo è, vedo che si illumina. Tornerò, le dico, e giroliamo per il museo.

Racconto questa cosa per svariati motivi. Il primo è l’accesso di gioia che mi prende tutte le volte che constato l’esistenza di una lingua comune. Nemmeno europea, mondiale. Il latino dei nostri tempi, quella lingua che permette a uno come me, che non parla tedesco, polacco, ungherese, mandarino, russo, afrikaaner, di andarsene in giro per il mondo e di avere, pure, soddisfacenti conversazioni. Ricordo io stesso i tempi in cui si veniva in Germania e bon, si andava a tentoni, manco fosse slovacco dialettale. Oggi faccio fatica solo con le casse automatiche al supermercato, se non hanno figure, ma con i colori ce la si fa. È così che mi capita spesso di avere ragionevolmente approfondite e piacevoli conversazioni con persone senza che entrambi si parli la lingua dell’altro. Ed è una cosa che va ampiamente al di là dei sogni più lubrichi del me giovane viaggiatore di qualche decennio fa.
Il secondo motivo, per dire, è che anche in Germania, dove di solito le persone sono descritte come chiuse e poco disposte, io faccio meno fatica che a casa mia a instaurare un qualche tipo di discorso con estranei. Oso andare più in là: sarà che vivo in un posto ancor più chiuso, qui sono pure più gentili e sorridono più spesso. Certo, poi magari ti deportano per aver calpestato un’aiuola, chissà, ma al momento il vivere quotidiano ne guadagna enormemente. Non c’è giorno in cui non mi capiti di attaccare bottone con qualcuno e, lo confesso, molto raramente sono io a fare il primo passo. A casa, mai. Sarò io, certo, sarà la mia disposizione, non c’è dubbio, ma così è. E in giro mi diverto di più.

Ora ho scavallato e mi tocca riprendere in qualche modo la strada di casa, pur con una tappa in mezzo, ancora. Pronto a inzuppare di nuovo tutta la mia roba mi incammino ma non senza inserire qui la fotografia della più bella libreria che io abbia mai visto e dove sia stato, sono abbastanza certo lo sia.

Certo. I mercanti sono già nel tempio. Ma in questo caso sono più indulgente, anche perché c’è pure il caffè nell’abside in fondo e io, francamente, ci sto piuttosto bene. Mi sa che son mercante pure io.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro alla carlona: tre, sconfinamento, la mostra più mostra, insegnamenti moderni, la Palestina come i Paesi Bassi, bestie grandi

Aquisgrana è vicina al confine, anzi ai confini: il drie landen punt è qui vicino, il luogo dove convergono Germania, Paesi Bassi e Belgio. Ed è così, la stessa Aquisgrana è stata nel tempo nederlandica, belga, tedesca. Le case in alcune vie sono olandesi, le pasticcerie belghe, le carni tedesche. Il riferimento culturale è quasi più Bruxelles che Berlino, qui. Il concetto di Europa unita è molto più reale e concreto, è ciò che si sperimenta ogni giorno. Voglio sperimentarlo di più, opto per un’incursione nei Paesi Bassi, vado a Maastricht. È sulla mia mappetta di segnalini di cose da vedere, che luogo più simbolico di questo? E che ci vado a fare? A stringere degli accordi, ovvio. I tre pilastri dell’Europa unita sottoscritti qui nel 1992 furono epocali nel percorso dell’Unione, alla fine degli anni Ottanta furono uno degli argomenti dirompenti e ci attendevamo tutti di dover parlare tedesco da allora in poi.

i tulipani sono quasi pronti

Faccio una breve ricerca sugli alloggi e mi accorgo con un certo stupore che ci sono solo quattro camere disponibili in città e mediamente costano più di trecento euro a notte. Umm. Qui gatta ci cova, stanno facendo qualcosa e non mi hanno avvertito. Ci metto poco a scoprirlo, è la settimana di punta del Tefaf, la mostra di arte e antiquariato più importante del mondo, mondo!, se uno desidera un Brueghel questo è il posto. Magnifico, finalmente troverò un trumoncino come iddio comanda. Ripiego sulla puntata in giornata, il comodo bus da Aquisgrana ci mette circa un’ora, in mezzo all’ondulata campagna nederbelgotedesca. Ecco, se mi fossi mai chiesto dove sia il Limburgo (no), ora lo so. Soddisfazioni.

non è per nulla umido

Sono ogni volta incredulo di quanto sia comodo viaggiare con telefono e rete, non posso non ripensare a quando, cartina alla mano, era necessario dedicare alcune ore alla ricerca di un posto dove dormire, chiedendo ostello per ostello, alberghino per alberghino, campeggio per campeggio. E se si era a piedi, come me ora, era davvero lunga, non era raro finissimo nelle stazioni o sulle panchine. Ogni volta son contento. Che meraviglia le città di medie dimensioni belle complessivamente ma senza nulla di particolare da vedere, penso a Toruń, Bordeaux, Delft, Cremona, Bamberg, Siviglia, per dirne alcune, Maastricht. Perché si può vagolare a caso, destra o sinistra a sentire del momento, compreso fermarsi a contemplare senza fretta. Senza il pensiero che qualcosa chiuda. Che poi mica vero, c’è sempre qualcosa da vedere e anche stavolta: il museo di scienze naturali. Infatti, sapevamolo, qui una volta era tutto mare tropicale, ora è tutta campagna. E nel mare tropicale c’erano le conchigliette che nel cretaceo fecero poi un solido strato di calcare in cui cementarono ogni cosa sul fondo del mare. Tra le ogni cosa, a fine Settecento trovarono una bestia lunga lunga e sconosciuta che chiamarono “il grosso animale di Maastricht” e che li fece sospettare che il mondo non era sempre stato identico a sé stesso.

Decenni dopo, dato che in città scorre la Mosa, lo chiamarono amichevolmente Mosasauro e tale è rimasto finora: un lucertolone nuotatore lungo dodici metri con denti che li raccomando e artigli e agile più di una guizzante sardina. Ne trovarono alcuni esemplari e uno scheletro intero, probabilmente divorato da squali una volta morto o lì vicino. Non conosco l’olandese e non riesco a capire se sia estinto o no. Nel dubbio, sto lontano dai canali. Il museo è poi pieno di conchiglie e fossili di ogni tipo e forma e dimensione ma è chiaro che da profano resto rapito dal grosso animale di Maastricht. Sento un amico restauratore, per qualche tempo pare riesca a trovare un invito per il Tefaf ma poi niente, è una cosa esaurita da mesi in cui si favoleggia si pasteggi a ostriche i primi due giorni riservati agli operatori. E addio al mio trumoncino. E al Brueghel. A proposito: in città, al Bonnefantenmuseum, c’è un bel dipinto di Brueghel in cui rappresenta il censimento di Erode in Palestina al tempo di Cristo ed è buffo perché è esattamente come gli altri suoi quadri con le scene campestri o cittadine nei Paesi Bassi, con le case a punta e con la neve e la gente che pattina. Ora, lo so che Brueghel sapeva, immagino fosse perché comunque la sua clientela era nederlandese e quello amava o, forse, rappresentare un soggetto sacro lo metteva al riparo da qualcosa, al momento non so, ma è piuttosto buffo da vedere.

quello al centro, verde, è gouda al pesto

Un fatto piuttosto interessante di Maastricht, curioso invero per un italiano, è che possiede una storica e grande università in cui l’insegnamento è basato su dibattiti e discussioni in classe tra gli studenti, i quali sono coordinati da studenti degli anni successivi, i tutors. Le lezioni con i professori sono assai rare e se ne vedono poche. Ho un amico che sarebbe molto molto contento di insegnare in questo modo, accorri, questo è il tuo posto. L’approccio pedagogico, l’apprendimento basato sui problemi, PBL, è affascinante, non ne so abbastanza per dirne qualcosa di sensato. Di sicuro, è un modo plausibile, un modo creativo, per superare quell’«intelligenza novecentesca» di cui parla Baricco che citavo alcuni post fa. Per quel poco che so, mi sa che se a Latino I mi avessero messo a discutere con i miei colleghi sarei probabilmente ancora là. Senza trumoncino, mi muovo verso est e torno indietro.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro alla carlona: due, piccoli inghippi contemporanei, il nulla renano, grafica antica ma moderna, sì, proprio dietro san Remi

Prendo l’espresso del Reno per Aquisgrana, posto importante in cui vale la pena tornare tutte le volte che si può. Mi metto comodo, stendo un po’ di roba ad asciugare sui sedili, metto le cuffie e comincio a scrivere queste cosine qui. Dopo una mezz’ora mi accorgo che il treno è fermo e una giovane donna mi sta spiegando che dovrei scendere, che questo treno non andrà più da nessuna parte. Scendo e sono nel nulla renano.

Düren. Se non fossi un signore, direi che sono a inculandia. È il bello del viaggio e di quella poca avventura che i tempi moderni ci concedono ancora, bisogna approfittarne e cogliere l’occasione. Le condizioni meteo sono abbastanza proibitive, la città non merita più di tanto un giro, che comunque faccio, e poi torno in zona stazione per capire se e quando ci sarà un prossimo treno. Mi assiepo con gli altri viaggiatori al baretto della stazione, che è caldo e confortevole, conquisto una seggiola a fatica e mi metto a leggere e scrivere. Assisto alla composta e civile lotta per le prese della corrente ed è già molto che ci siano, figuriamoci da noi.

Deformazione mia, non riesco a non pensare ai nazisti e alle deportazioni se sto in una stazione tedesca sotto la neve, in particolare ad Auschwitz e quel gennaio là. Non so che farci. Vado ad Aquisgrana perché, devo dirlo?, c’è la cappella Palatina e il trono di Carlo Magno, i luoghi di corte e la cattedrale ed è un luogo cui sono affezionato. Oltre a essere una bella città. Ho un ricordo di parecchi anni fa, ormai, una mattina appena sveglio in cui davanti alla Marschiertor lessi che Robin Williams se n’era andato e mi spiacque, perché aveva quella vena malinconica che ogni comico dovrebbe avere e, anche, perché mi era molto piaciuto nel Re pescatore. Ricordi così. Niente, ancora fermi nella stazione nel nulla renano.

Poco fa, dal treno, ho scorto due enormi Bagger 288, ovvero le più grandi escavatrici del mondo, alte novanta metri e lunghe duecento. Sì, per davvero. È sempre Ruhr, ci sono ancora enormi miniere di lignite a cielo aperto che si fanno pochi problemi, anzi nessuno, ad abbattere campi e paesi pur di avanzare. Lützerath, un paesino abbandonato non lontano da qui, è stato al centro delle cronache a gennaio per la protesta dei cittadini contro l’abbattimento, al punto che partecipò anche Greta Thunberg. Le immagini della polizia che la porta via di forza hanno fatto il giro del mondo. Lo so, e io sto con loro, ma santoddio che bestia la Bagger 288, non l’avevo mai vista. Qui non è questione di umarell, è questione di rapimento estatico di fronte alle ruspe e alle macchine da lavoro. E questa è la più grande di tutte, come aver visto Giove col telescopio per un astronomo dilettante.

A un certo punto l’obstakolo sui binari è rimosso e andiamo. Ora il giro diventa davvero alla carlona, come da titolo, perché ci sono: Aquisgrana. In realtà sono piuttosto sistematico ma stiamo a vedere. L’importanza di Aquisgrana è legata al fatto che Carlo Magno decise di smettere il costume della corte itinerante e decise di far sede qui. La scelta era oculata ma andrebbe vista con gli occhi dell’Austrasia di allora, cioè quell’insieme di territori che andavano dall’odierna Francia dei pipinidi alla Germania al nord Italia, periferica invero, e allora tutto torna: è abbastanza al centro. E poi c’erano già le terme romane e, chiaro, l’acqua calda. Poi bisogna pensare a un centro amministrativo perlopiù, certo c’era un palazzo ma il fulcro erano senz’altro la cappella Palatina e la cattedrale, ancora oggi visibili, e la sala delle udienze e dei convegni, sulle cui fondamenta dal Cinquecento c’è il municipio. Ma possiamo senz’altro farci un’idea abbastanza precisa di come fosse guardando alla sala costantiniana di Treviri, impossibile da non considerare anche allora. E gli esempi in Italia e nei resti dell’impero romano erano ovunque. Siccome poi il papa stesso autorizzò gli architetti a prelevare colonne e arredi da Ravenna e Roma, il gioco è fatto. Se Carlo avesse visto, che so?, Versailles, si sarebbe messo a ridere.

Carlo parlava molte lingue ed era tutt’altro che ignorante, oltre a una visione politica molto avanzata. Non è certo però se sapesse scrivere, probabilmente poco o nulla, ma il suo monogramma è fenomenale, è quello qui sopra che è ovunque in città, graficamente stupendo. Invito a guardare con attenzione il centro, la A inscritta nella O, eccezionale. E il quadrato nel quadrato, ruotato di novanta gradi con, ovviamente, la croce, perché era pur sempre Sacro. Era la sua firma. Vien proprio da pensare a quel giorno di natale dell’ottocento, 800.

Nevica piove nevica. Alcune ragazze hanno fiori gialli in mano, non mimose ovviamente. In Germania l’otto marzo, la giornata internazionale delle donne, è festa e le aziende sono chiuse. I negozi no e sfugge un po’ la differenza. Nessuna manifestazione in vista o, almeno, non l’ho vista io. Di sicuro, qui la parità è più misurabile concretamente. La pasqua incalza. Mentre contemplo la volta della cappella Palatina proprio al centro esatto, faccio la conoscenza di Massì, così si pronuncia lui, che vuole fare la stessa foto. È di Reims, altro luogo di cattedrali sensazionali, e viene da un giro nel parco nazionale dell’Eifel, zona bellissima da visitare senza dubbio. Gli faccio i complimenti per Reims, è stupito conosca San Remi, ne raccontavo qui, perché ha una farmacia proprio lì dietro. Chiaro che ne capisce eccome di cattedrali gotiche, meno di architettura bizantina e preromanica come è la Palatina e come è Ravenna, che gli consiglio. Chiacchieriamo a lungo anche di come tutti i mosaici delle volte, dorati e magnificamente colorati, devono essere immaginati come illuminati dalle fiaccole e dalle candele e non, come è, dalla statica luce elettrica. Tutta un’altra cosa. È il bello del viaggiare da soli, capitano spesso interazioni come questa. Ci salutiamo, dicendoci che ci vedremo in giro. E con in giro intendiamo senza dovercelo dire l’Europa, la nostra casa.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro alla carlona: uno, luoghi per gli acquisti, scherzi del tempo, il centro del dibattito

Soprattutto nei paesi di lingua spagnola, gira una storiella ridicola che fa partire da Colombo, Colon, il concetto e il termine stesso di colonialismo. Ridicola nel senso che l’etimologia è del tutto un’altra, dato che il povero Colon avrà tante colpe ma non questa, ed è, ovviamente latina, coloniă, coloniae. Il significato è chiaramente slittato verso una connotazione negativa a seguito delle vicende coloniali, appunto, più recenti, ma l’etimo resta. Per dipanare ogni dubbio, basti pensare a Colonia, la città, per fare un unico esempio, con evidenza preesistente a Colombo, avamposto romano a presidio delle rive del Reno e del confine nord continentale dell’impero. Ed è, il caso, proprio dove sto andando io.

Un pretesto, una conferenza di lavoro, via. A Colonia son stato più volte, siccome era il posto sul quale i bombardieri alleati sganciavano le bombe sia in entrata che, soprattutto, in uscita, ne resta pochino. Il duomo, certo, colossale e frutto in buona parte del revival medievalistico di fine Ottocento, ne ho raccontato, un bel museo romano e uno di arte contemporanea, il museo Ludwig, nato dall’acquisizione coraggiosa di arte degenerata durante il nazismo da parte di un lungimirante industriale, per evitarne la scomparsa. D’altronde, quella scena era particolarmente vivace qui, prima della guerra, basti citare Max Ernst e la scena surrealista. Poi non molto, se non robuste dosi di acqua di Colonia, serve dirlo?, un meraviglioso fiumone, un’università importante e una certa vicinanza ad altre cose interessanti.

Al centro della Renania settentrionale-Vestfalia, Colonia fa parte di quell’agglomerato incredibile di industrie e persone, la Ruhr, la chiamano la megalopoli europea, che ha da sola un PIL di oltre settecentomila miliardi annui. Non è un numero per dirne uno alto. Cammino per un paio di vie del centro della città, dritte e lunghe qualche chilometro, completamente foderate di negozi di grandi catene, ininterrotti. Sono talmente tanti che si ripetono più di quanto non direi, c’è un DM o un Rossmann ogni duecento metri, evidentemente c’è necessità di cristallo di rocca. Piove, anzi no: nevica. Nevica eccome e, secondo le profezie del meteo, durerà. Non bene, però, per il gran numero di persone che sta per strada, imbacuccati alla bell’e meglio per racimolare qualche aiuto. Certo, è una grande e ricca città e i rivoli di tutto questo consumo da qualche parte vanno, però sono davvero tanti. Alcuni mi dicono che sì, hanno dei posti riscaldati dove andare la notte ma altri hanno il sacco a pelo. Perlomeno, è un risvolto positivo del consumismo, si riesce a mangiare con poco. Il contrasto è, come sempre, forte, ma che senso ha scoppiare di merci da una parte e non avere niente dall’altra?

Colonia, più della vicina ma piccola capitale Bonn, fu uno dei centri della ricostruzione materiale, morale e intellettuale del secondo dopoguerra nella Germania occidentale. Se coi mattoni si fa prima, la questione dei conti col nazismo e con uno Stato ancora largamente formato da gerarchie del regime fu tardiva ed ebbe inizio alla fine degli anni Cinquanta per buona parte a Colonia e grazie, anche se non solo, al cittadino Heinrich Böll. Il suo Opinioni di un clown, sebbene io allora l’abbia collocato nella situazione che vivevo, quella italiana, e non in quella tedesca, che non conoscevo, ha segnato la mia crescita. La critica di Böll ad Adenauer – già sindaco di Colonia – e alla sua indifferente e opportunistica politica di proseguimento della saldatura tra borghesia, industria e frange reazionarie a colpi di amnistie fu solida e costante, efficace in particolare perché formulata da un cattolico e dall’ambiente che lo stesso cancelliere rappresentava. Come spesso poi fanno i tedeschi, andarono all’estremo opposto e ancora oggi, per dire, è proibito rappresentare la svastica persino nei musei. Per dirne un’altra, è solo da qualche anno che si è deciso di ripubblicare Mein Kampf, con un robusto apparato critico, per ovviare al fatto che in rete si trova ovunque privo di ogni nota di contesto. Prima era vietato.

Come successe a Londra col Tamigi, l’unico ponte stabile sul Reno fino al 1811 lo costruirono i certi chiamati Romanes. Ed era un ponte enorme, il fiume è larghissimo. Poi, vedi il tempo, i barbari, il ponte andò in rovina e questi rimasero millecinquecento anni senza un ponte degno di questo nome mentre noi si era già da tempo ammazzato un Giulio Cesare. Poi nell’Ottocento ne fecero uno colossale, di quelli col kaiser e gli odini qua e là che resistette fino al marzo 1945, quando gli stessi nazisti lo fecero saltare. Il genio militare alleato lo sostituì con una passerella da carri armati e tale rimase fino agli anni Cinquanta. Le foto sono impressionanti. Come abbiano fatto a non tirar giù la cattedrale, proprio a fianco, durante i bombardamenti, resta un bell’interrogativo – siamo stati fortunati – con cui chiudo e vado a domani.


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mai più secondo Baricco

Ci sono arrivato tardi ma, questo conta, l’ho trovato.
Nel marzo 2021 Alessandro Baricco ha scritto un lungo articolo per Il Post intitolato “Mai più” nel quale riflette a partire da alcuni aspetti della reazione italiana alla pandemia che hanno, sostiene, messo finalmente in luce l’inadeguatezza dell’«intelligenza novecentesca» al contesto attuale. Essa, infatti, secondo Baricco è scarsamente flessibile e lavora solo su dati stabili, è specialistica, si applica per ottenere soluzioni senza capacità di adattamento e, quarto, si crede razionale ma non lo è. Serve un’intelligenza nuova, anzi servono più intelligenze, basate su fondamenti diversi e, sorpresa!, esistono già e sono all’opera.
Beh, ci sono arrivato tardi perché non l’avevo letto allora e non sono un assiduo di Baricco, però ieri ero in treno, chissà perché ci sono incappato e, devo dire, è stata una lettura coinvolgente, convincente, poderosa in certi tratti che ha incontrato, per larga parte, il mio favore, visto che nel mio piccolo sostengo maldestramente alcune tesi toccate da Baricco. L’ho riletto un’altra volta, ieri sera, e stamane l’ho ascoltato viaggiando, per capire meglio. Sì, c’è anche un podcast, letto da Luca Bizzarri, per chi preferisca. Devo dire che interpretato ha un suo valore.
Ha trovato il giusto modo Baricco, secondo me, per dipanare la questione, il concetto di «intelligenza novecentesca» riassume bene l’insieme di ciò che caratterizza molto del nostro ragionare, io stesso ho discusso a lungo in tempo del primo lockdown su come mancasse una risposta contemporanea alla pandemia e praticassimo, invece, la sola risposta medievale che si può leggere parola per parola in Defoe. Sia per misure pratiche ma, soprattutto, per il pensiero retrostante, di cui ho patito e patisco ogni giorno l’arretratezza. Quantomeno, nonostante politicamente lontana, ho apprezzato la risposta svedese, perché diversa da quanto si è visto in Cina o in Italia.
Ma il discorso pandemia è l’avvio, il ragionamento è più ampio e tocca molti aspetti della nostra cultura contemporanea, italiana in particolare, e delle strutture di cui ci siamo circondati. Vale la pena leggerlo e sentirlo, eccome, io stesso lo sto diffondendo come faccio ogni volta che scopro qualcosa di valido e interessante. Riconosco anche il me stesso di trent’anni fa che scelse, consapevolmente, di inseguire un sapere non specialistico rinunciando a riconoscimenti e carriere in favore di un approccio più confacente al sé di allora. Confermo quella scelta e patisco come allora tutte le intelligenze ferme e non adattabili, compresa la mia quando non lo è. Magnifico, quando capita di leggere cose del genere.

gezicht op Delft

Passando da Delft, a dire il vero andandoci apposta perché bisogna cercare il punto esatto, capita di vedere uno scorcio di città in effetti non particolarmente significativo se non per la vista della Nieuwe Kerk e se non erro la porta orientale a destra, con le guglie gemelle. Poi è una vista qualsiasi di una città dei Paesi bassi o di quei posti lì.

E invece no. Come nel caso della Stradina di Delft, l’avevo raccontata qui, questo è un punto di Delft la cui visuale è rappresentata in un quadro di Vermeer, la Veduta di Delft, l’altro unico suo paesaggio noto.

Conosciuta come «la città di Delft in prospettiva, vista da sud, di J. Van der Meer di Delft», è uno dei primi esempi di rappresentazione cittadina non eseguita, come usava, su commissione privata o pubblica ma per essere venduta sul mercato libero. Sul quale, peraltro, ebbe un successo clamoroso. E duraturo, visto che Proust cita il dipinto nella Recherche e, anzi, ci costruisce attorno un lungo episodio in cui il quadro è una madeleinona davanti alla quale si può pur morire.
La rappresentazione di Vermeer, nonostante si riconoscano molti elementi della città, tra cui la zona del porto, le porte di Schiedam e di Rotterdam e il campanile della Nieuwe Kerk, e nonostante è probabile che l’autore abbia utilizzato la camera oscura, come si deduce da alcuni riflessi al contrario, non è realistica e veritiera, bensì in ampie parti rappresentata a memoria o a piacimento, cosa che ne fa un quadro di interpretazione di ancor più grande interesse.

Il dipinto di Vermeer è del 1660-61 e a interesse si aggiunge interesse: infatti, nel 1654 in città scoppiò un deposito di polvere pirica, circa quaranta tonnellate, che rase al suolo mezza città e che le fece perdere la propria supremazia nelle Province Unite a favore de L’Aja e Rotterdam. Egbert van der Poel, uno degli innumerevoli pittori cittadini della gilda di San Luca, assistè all’esplosione e rappresentò più volte i danni subiti dalla città. Qui il suo Esplosione di Delft del 12 ottobre 1654:

Vermeer, quindi, documentò la città pochi anni dopo lo scoppio.
Per fare, infine, un facile confronto tra l’eccellenza della veduta di Vermeer e una veduta dello stesso periodo, di ottima fattura ma distante per qualità, ecco la Veduta di Delft di Jan van der Heyden del 1675. Con tutta la buona volontà, il trasporto che i dipinti suggeriscono è evidentemente diverso.

Un paio d’anni fa, l’astronomo e professore di fisica Donald Olson della Texas State University si mise a capo di un progetto per stabilire la datazione esatta della Veduta di Delft di Vermeer, osservando le luci e le ombre secondo una disciplina che lui stesso chiama “astronomia forense”, ricostruendo con software appositi le condizioni e la posizione del sole, osservando gli elementi del quadro come, per esempio, la lancettona dell’orologio della torre, che è vicina alle otto del mattino. Per farla breve, il professore propone il 3 settembre del 1659 come data in cui il pittore avrebbe rappresentato la città. Poi però Olson ammette che potrebbe trattarsi della stessa data ma dell’anno procedente, o di due prima, poi noi sappiamo che Vermeer dipingeva molto lentamente e quindi bon, chi se ne impippa, calcoli del genere non hanno nessuna utilità se non per gli autori dei calcoli stessi. Resta immutata la bellezza del quadro, fortuna nostra, e della città, che merita eccome una visita.

minidiario scritto un po’ così di un breve giro a ovest: tre, trasferta, informatica eporediese, una via bimillenaria

Dopo una salubre passeggiatina lungo la pista di collaudo della Fiat, quella sul tetto del Lingotto con le due paraboliche per cui si saliva dalla celebri rampe elicoidali, fabbrica mirabolante negli anni Venti, piglio su le mie cose e vado in trasferta. È quasi carnevale, impazzano le celebrazioni storiche e le lotte col demonio, decido di andare a vedere Ivrea. Quella delle arance e dei computer. E delle parole crociate, eporediesi, una delle risposte più note insieme al nome di Ughi. E così capisco un po’ anche il canavese, che non lo so.

Dire che gli eporediesi siano agitati è dire poco, dappertutto ferve il carnevale, le contrade, i rioni, gli scorpioni, i sailcavolo, da domenica a martedì tirano le arance e dappertutto sono segnalate vie di fuga e istruzioni su come coprirsi la faccia. Essenziale portare il berretto frigio per non diventare bersaglio. Esso richiama, ovviamente, la rivoluzione francese e gli ideali di rivolta ma la lotta ai despoti fa parte del carnevale da ben prima, con le tipiche inversioni della festa, con i più balenghi a far da amministratori. Oggi lo fanno i bambini che, vorrei dirlo, sono il nostro futuro. Oh. La stessa figura della mugnaia, la bella dell’anno, rimanda a una Violetta che non si piegò al potere degli occupanti.

La città, oddio è un paesone, è a dir poco in subbuglio, lungo le vie delle arance sono impegnati a coprire ogni edificio con teli di plastica per salvare gli intonaci, persino la chiesa, figuriamoci. La retorica è quella dello stadio, purtroppo, fazioni e proclami un po’ destroidi di lealtà fino alla morte, l’estetica è quella del gladiatore e del signore degli anelli, il leghismo ci sguazza parecchio. Immagino sia difficile essere eporediesi (eh!) con una posizione critica sul carnevale, come minimo si rischia l’isolamento sociale o si vien tacciati di essere radical chic, tempacci.

Ivrea fu un avamposto di una popolazione, i Salassi, che fondarono la città e occuparono il canavese fin dal sesto secolo avanti Cristo. Nel secondo secolo avanti cozzarono, era inevitabile, con certi chiamati Romani che li liquidarono come generici celti e, di conseguenza, da annettere all’espansione irrefrenabile. I Salassi, c’entra ovviamente il sale ma non la pratica di sottrarre sangue, non furono d’accordo, chiaro, e furono costretti a capitolare e a ritirarsi più su, in valle d’Aosta. Eporedia divenne colonia e importante presidio romano lungo le vie verso nord, ne fanno testimonianza un imponente anfiteatro e qualche restuccio di un colossale ponte ad archi sulla Dora Baltea lungo quasi cento metri. Fu poi fondamentale centro longobardo con Arduino, nome piuttosto diffuso tuttora. Il picco fu però toccato nel Novecento con l’Olivetti, è noto, peculiare esperimento di capitalismo sociale e familiarista che aveva le proprie radici nelle esperienze di primo novecento, per esempio, dei Crespi e il villaggio industriale. Poi vi furono Infostrada, Omnitel, Vodafone Italia che ha ancora sede qui nonostante la proprietà sia andata ma, ormai, si era sulla via del declino. Oggi del complesso industriale olivettiano si percepisce poco, voglio dire: si colgono perfettamente le strutture produttive, storiche e contemporanee, ma sfugge il contesto sociale, le case si sono mescolate alle altre, sì coglie l’asilo, in generale bisogna stare attenti agli edifici di design per identificare le strutture di un tempo ma il tessuto complessivo si è perso.

Vado più su, c’è una via che mi interessa e che punto da parecchio. Arrivo a Pont Saint Martin, che si chiama ponte proprio perché, indovina?, c’è un ponte. Romano, notevole, un arco imponente. Sotto, è carnevale, c’è un diavolo impiccato, il ripetuto racconto dei ponti storici: non c’è verso di costruire un ponte che stia su, si propone il diavolo per costruirlo in una notte in cambio della prima anima che lo attraverserà, così è e si stringe il patto, il mattino dopo il vescovo furbo ci fa passare un cane, una capra, qualche animaletto e il diavolo è gabbato. Storia sentita innumerevoli volte, bella per certi aspetti almeno per attestare la forza e la durevolezza del ponte, meno per la figura da scemo che regolarmente fa il diavolo, che è pur sempre il diavolo e si dovrebbe portar rispetto, e la speculare bella figura dell’ecclesiastico di turno, poi si decida: o le bestie l’anima ce l’hanno oppure no. Una volta per tutte. In alcune varianti, il diavolo arrabbiato comincia a distruggere il ponte e il vescovo, sempre più scaltro, pianta una croce nel mezzo sconfiggendolo definitivamente. E questo vale se sul culmine c’è una cappelletta o edicola sacra. Pavia, Cividale e così via.
Quel che però a me interessa è la via delle Gallie, che partendo da Milano passa proprio da qui e prosegue su su, appunto, verso le Gallie. Quando Cesare con le legioni andò a civilizzare il nord con il bello Gallico utilizzò evidentemente questa via e la città stessa di Aosta è conseguenza di questa via che andava poi al Gran San Bernardo e Bernardino. Oltre all’importanza storica e culturale, la via in alcuni passaggi è una testimonianza della davvero evoluta capacità ingegneristica romana, per esempio il passaggio a strapiombo del ponte romano di Saint-Vincent, aggrappato direttamente alla roccia. A me che tutte queste cose piacciono, ne voglio fare un pezzo a piedi e così faccio, con grande soddisfazione ed emozione.

Termine storico del percorso è Aosta, da cui si dipartono vie diverse, a seconda. Il corredo romano antico della città la rende una tappa significativa e su tutto svetta il teatro. Il resto, non me ne vogliano, è gradevole, bella posizione, un altro bel ponte romano e una porta imponente, un chiostro romanico a Sant’Orso dai bei capitelli, un criptoportico che parla della grandiosità antica, qualche buona valdostana e bon, più o meno ci siamo. Ma siccome non c’ero mai stato, eccomi. Arrivandoci, ed è un po’ buffo e un po’ no, si passa dal forte di Bard, arroccato su una strozzatura della valle, famoso di recente per un’insistita scena di non so quale film degli Avengers, insieme a qualche località attorno. I cartelli che spiegano la cosa si sprecano, con la facciona di Thor piuttosto che Iron man, e le visite al forte si sono decuplicate, minimo, tanto da farci sotto un bel parcheggio multipiano e una cremagliera per tutti i gusti.
E poi giù per la valle e la pianura, che c’è di nuovo un appuntamento al palazzetto a conclusione di questo piccolo giro che ha colmato parecchie mancanze.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro a ovest: due, arte contemporanea in residenza, una visita più posata, dal balcone, una visita doverosa

Le residenze, dicevo. Venaria è già andata, chiusa per riprese di un qualche film, opto per Rivoli. Non è difficile. Su un’altura predominante, è il classico castellotto medievale che poi si chiama Juvarra e glielo si fa abbellire con genio. Se ne dice poco di Juvarra ma bisognerebbe di più, perché di grande valore, una docente con i ragazzi spiega prima di entrare e lo chiama Giuvarra. Poi però finiscono i soldi o gli interessi convergono da qualche altra parte e non si intonaca più, resta la manica lunga, un edificio lungo centoquaranta metri di corridoio, e il colonnato che prelude a un articolato spazio di ingresso resta incompiuto. Ma è la gioia dei fotografi, specie con le luci giuste la mattina presto. L’operazione intelligente sul castello di Rivoli è stata quella di farne un museo di arte contemporanea di alto livello, con una permanente di opere concepite on site sull’esempio di villa Panza, per esempio. Poi ci sono le temporanee, adesso è in programma Olafur Eliasson, un artista che crea caleidoscopi tremolanti al buio e io la manica lunga la devo misurare a passi e farmi impressionare da fuori.

Il tempo di un’arancia in contemplazione del panorama, fumoso sul fondo come detto, e ripercorro la tangenziale per andare a Stupinigi. È una palazzina di caccia, infatti basta tirare una riga rettilinea da piazza Castello, cioè la riga c’è, e si arriva qui per quello che una volta era il parco. Ma palazzina barocca e indovina? Giuvarra. Perché va bene la caccia ma anche i salottini, un gran salone da ballo e la ricreazione per signori e dame. Basta guardare palazzo reale, i Savoia acconsentirono ai divanetti, ai tavolini, alle biblioteche e alle sale da tè cinesi perché servivano ed era la moda, ma nulla importava loro. Ciò su cui andavano forte era la guerra, le armi, la caccia e così è: Stupinigi è splendida. Anni fa ci venni con gli amici, Guardate che mancano dieci minuti alla chiusura e che problema c’è? La visitammo in otto, compreso il ritorno. Ne ho ancora un video ininterrotto, poi giocammo a tirarci il vortex nel prato. Oggi no, me la guardo con calma, so anche parecchie cose in più, ora. La palazzina è un prodigio di armonia ed eleganza, non è enorme ma lo sembra, la sala centrale è sontuosa per tutti i livelli che si sovrappongono. Fortuna che quelle bestie dei Savoia avevano Giuvarra, se no arrivederci. E Guarini per la cupola del duomo, altroché.

Così se a qualcuno serve c’è il numero.

Ed è sempre Giuvarra che mi riporta a Superga, dopo che cento scavatori lavorarono un anno per sbancare la collina di quasi cento metri, lui fece la basilica. E bisognava farla bella perché si vede da ogni punto di Torino o quasi e lui, bravo, la fece. Stretta e alta, forse non irresistibile a guardarla ma è perfetta per il contesto e si vede slanciata da lontano e per questo i torinesi la amano. Si vede dappertutto perché, ovvio, è in alto. Ma non così tanto in alto dove dovrebbe volare un’aereo, eppure una notte nebbiosa di molti anni fa fu proprio lì che si schiantò l’aereo del Grande Torino, gli invincibili. Quanti altri scudetti avrebbero vinto se? Molti. C’è da dire che sul luogo del disastro molti sono gli omaggi anche delle altre squadre e questo è bene. Quel Torino che in una partita diede dieci titolari su undici alla nazionale, irripetibile. A Superga si trova anche la cappella delle sepolture dei Savoia, già che son qui la vedrei ma è chiusa. Niente, mi stan già immensamente sulle balle quei due sepolti al Pantheon a Roma, ne farò a meno. Il piazzale è pieno di ciclisti attempati con biciclette con robuste batterie e attrezzature parecchio costose, a parte la spesa capisco che quando non si riesca più a fare una cosa si cerchi un altro modo. Io penso sia giusto fare altre cose, in armonia con il proprio stato ma è un pensiero che mi tengo solo per me e ciascuno libero. Comunque girano a bande, bisognerebbe appostarsi con un furgone a una curva e fare un bottino da decine di migliaia di euro.

Scendo giù e vado al monumentale, che voglio far visita. Passo davanti a Pellico, ad Adelaide Aglietta, a tutti quelli che si inventarono la Fiat e poi uscirono lasciandola agli Agnelli, a innumerevoli senatori e ministri dei governi Cavour, a Galileo Ferraris, che molto apprezzo, e proseguo fino al primo campo israelitico, che fa impressione a dirlo, per trovare la sepoltura del deportato 174517 ad Auschwitz, tenne sempre l’infame tatuaggio e immagino volle il numero anche sulla lapide. È un piccolo pellegrinaggio, il mio, insignificante di per sé ma significativo per me, sono stato anche fuori da casa sua, in corso Umberto, fuori da quel portone che nasconde la scala del volo, sono andato in via Biancamano, all’Einaudi, insomma ho un po’ inseguito alcuni suoi posti, cercando di immaginarlo pensieroso mentre percorre la strada da casa alla casa editrice, come ho inseguito i suoi scritti, dai più tragici ai più comici. Sì, ce ne sono parecchi comici ma questo la scuola italiana lo ignora volutamente. Mi ripeto per questo, insisto, lo considero senz’altro il più grande scrittore italiano del Novecento. E Calvino, altro pretendente al titolo, sarebbe stato d’accordo.


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minidiario scritto un po’ così di un breve giro a ovest: uno, la città metropolitana, che goduria le alici, le mutande garabaldiche, fare sport

Verrebbe da noi per vedere un po’ le cose da da fare? mi chiedono a metà gennaio. Mmm, spetta, mi viene in mente qualcosa. Giusto. Certo, ma non ora. Più avanti. Avanti quando? Diciamo metà febbraio, potrebbe andare? Beh, speravamo prima ma va bene. Tergiversato il giusto per fare en plein: Torino, febbraio, le finali di coppa Italia di pallacanestro. Perfetto. Tanto era stato piacevole l’anno scorso a Pesaro, prendendo come pretesto l’appuntamento sportivo, così riesco a combinare quest’anno. Lavoro per un paio di giorni, il resto è tutta goduria.

Torino ci son stato con Bonetti, più volte, ma qualcosa la si farà saltare fuori, non è troppo difficile. Anzi, visti il sabato e la domenica, convien l’auto per qualche giro nel circondario, la cosa più immediata che viene in mente sono le residenze sabaude, qua e là. Venaria, Rivoli, Stupinigi, Moncalieri, Racconigi e così via. Poi le cose vengon per strada. Bene, il piano c’è. Chissà poi che col carnevale non succeda qualcosa di interessante a tiro. Il resto è tutto facile, e sarà riempito di vitello tonnato e alici.

Che poi il dintorno è tutto un nome che rimanda a stabilimenti del gruppo Fiat, passati o meno, Grugliasco, Mirafiori, Rivalta, Chivasso, Orbassano e così via o indotto. E lo stesso per i luoghi legati alla produzione o alla famiglia Agnelli, il Lingotto, Villar Perosa, corso Unione sovietica, si conoscono i nomi prima della città. Ricordi di titoli di giornale, marce sindacali, vignette di Forattini, cose vecchie. Torino va pensata come città reale, nel senso di re, anche con la Repubblica, semplicemente invece dei cavalli il nuovo re aveva i calciatori, che accoglieva una volta l’anno a dimora e soprannominava a suo piacimento, e le auto da corsa super. Le baracche, in senso automobilistico e un po’ anche immobiliare, per il popolo. Impossibile scindere le dinastie dalla storia della città, anche nel senso migliore, Einaudi per esempio.

Se dalle Olimpiadi 2006 Torino ha svoltato, la salute della città è senz’altro in ribasso con le ultime amministrazioni e ancora più fuori dal centro. Quanto è pulito e ristrutturato questo, tant’è che fino a qualche anno fa si comprava in centro a Torino per lavorare a Milano, prezzi molto diversi, quanto sono sconfortanti le zone lungo alcuni vialoni, palazzoni dormitori e aree industriali dismesse sulle quali mancano idee. La stessa zona dietro il Lingotto, sistemata nel 2006 senza cura né prospettiva, lascia davvero perplessi per abbandono. L’inquinamento è decisamente fuori controllo, Torino è sempre in cima alle classifiche del genere, si vedono appena le cime scarsamente innevate e nonostante sia una bella giornata da Superga la città non la distinguo, mole e grattacielo san Paolo a parte. Altro che taglio del Turchino.

Poi è un salottino in molte parti del centro, piazza Palazzo di città con le sue edicole, se devo scegliere. Vivace, molte iniziative culturali, meno di un recente passato immagino, comunque se l’idea è riconvertire una città industriale di quasi un milione di persone in qualcos’altro, Torino è un buon caso. Siccome è stata capitale, allora alcune cose si possono vedere solo qui. Il museo nazionale del Risorgimento, per esempio, in un bel palazzone ornato a mattoni proprio davanti alla biblioteca nazionale. Va da sé che non bisogna mica attendersi di trovare un racconto storicamente accurato delle indecisioni (euf.) dei re nelle guerre di indipendenza, per quello c’è Barbero. Ed è un museo istituzionale filomonarchico, della fulgida Repubblica Romana quasi nulla, dei patrioti pochino se non Mameli e i solitari, Pisacane, Menotti, dell’epopea garibaldina quel che serve, perché non si può saltare. Ma vale comunque la pena, perché son garibaldino, anzi garabaldano, ancor di più. Alla quarta bacheca di abiti di Garibaldi, dopo la camicia, il cappello, il poncho, alla sciarpa mi viene da ridere, perché potrebbero averla acquistata ieri al mercato di porta Palazzo, sembra pure nuova. E la pipa, la rivoltella, lo stiletto e avanti. Molti documenti interessanti, tra cui lo statuto Albertino e i suoi annunci, sullo scarso sostegno ai rivoluzionari glissano, molte belle caricature di Cavour e del re. E poi c’è l’aula del parlamento subalpino, intoccata, commovente esempio dei primi timidi tentativi di amministrazione democratica.

Beh, è quasi sera, io andrei. Che devo giocare. Bel palazzetto, complimenti, anche se poi a camminarci sopra si scopre che è un po’ finto. Comunque importa quel che succede giù, quindi ciao.


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