minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: dieci, il sogno turchese, tutti, considerazioni finali, come torno

Ineccepibile la descrizione di Marco Polo: «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini». Nemmeno una parola falsa o imprecisa, non lo si becca in castagna, Polo. Sono quasi tutte così le sue descrizioni di città e luoghi, tipo (parafrasi): «e vi eran cose molto belle» e son la minoranza del Milione, che si dedica invece lungamente a Kublai Khan e alle vicende dell’impero mongolo, mica la fa lunga sui posti, così usava. Ma chi non l’ha letto e lo cita pensa sia così. A Samarcanda qualcosina in più c’è ma per gran parte arrivò dopo Polo, quindi assolto con beneficio. Perché Alessandro Magno disse invece: «Tutto quello che ho udito di Marakanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi» e oltre a essere ineccepibile anche questo, è un accenno che rimanda immediatamente alla storia millenaria della città, meravigliosa fin dalle origini. Afrasyab, Marakanda, poi Samarcanda, lo dicevo ieri, sottintendendo la prima città, capitale della satrapia della Sogdiana sotto gli Achemenidi di Persia, poi fiorita ancor di più sotto i Sasanidi per poi divenire una delle città più ricche di tutto il mondo islamico sotto arabi, persiani e turchi. Quando Polo la vide, Samarcanda aveva subito le due devastanti invasioni mongole che la ridussero al lumicino. Fu poco dopo che Tamerlano, Amir Timur, la fece capitale dell’impero timuride, immenso territorio che andava da Costantinopoli a Mosca a Delhi, e suo nipote Uluğ Bek proseguì l’opera rendendola talmente grandiosa da togliere il fiato ancora oggi. Che bravo sono stato quest’anno, ho visto Tebe, Cartagine e Samarcanda, bel malloppo di città leggendarie, mi emoziona ripensarci.

Vabbè, comunque facile parlar bene di Samarcanda. «Anche tu? Vanno tutti in Uzbekistan quest’estate» mi aveva detto un amico prima di partire e io mi ero sorpreso perché non so mai cosa facciano questi tutti e poi, ora, devo dire che aveva ragione: tra Bukhara e Samarcanda questi tutti li ho visti proprio, insieme. Il fatto è che lo stato uzbeko, nella persona del suo poco luminoso presidente Mirziyoyev, successore del cane Karimov, ha adottato negli ultimi anni una robusta politica di apertura, cercando di attrarre investimenti e turismo nel paese e, in effetti, i risultati si vedono. Certo, il giro canonico Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent, con volo diretto da Milano, è di grande golosità, tre città su quattro contengono monumenti di straordinaria bellezza, e i nostri turisti europei rispondono in massa, ma è anche inevitabilmente molto addomesticato. Si può alloggiare in alberghi di tipo occidentale, mangiare come a casa facendosi togliere i sapori molesti, girare sicuri e spavaldi, spendere come dei ricconi in Florida, sbattersene delle sensibilità locali e girare in ciabatte e braghini.

Ora: se questo servisse a dare una svolta ai diritti sociali e politici degli uzbeki allora sottoscriverei subito e, forse, sul lungo periodo sarà pure così. Pasolinianamente massificando tutto ma tant’è, il mondo pare oggi abbia un’unica regola e nessun modo alternativo. Se, invece, come è ora, si traduce semplicemente nell’invasione di una razza padrona cui i locali servilmente in cambio di valuta con alto potere d’acquisto vendono luoghi ed esperienze autentiche, allora faccio più fatica. E il calzolaio fa l’autista, il contadino spilla birre e la maestra col velo vende tazze alle turiste in costume sognando chissà cosa ma nel frattempo si guadagna di più. Il tutto sempre autentico, però. Per carità, le cose viste son talmente belle che non mi sentirei di scoraggiare nessuno, anzi, ma sono contento di aver messo al centro del mio viaggio il Tajikistan e l’Uzbekistan remoto del sud. E di non aver incontrato quasi nessun turista, men che meno italiano, che sopporto meno. Mica perché italiano, nonostante una certa sguaiatezza esibita nei costumi nazionali, più che altro perché capisco cosa dicono, è quello il problema. E comunque quando vedi apparire il tatuaggetto fatto a cazzo, sicuro son loro. Ma io mica voglio parlare di questo, fermati.

Tutti ‘sti presidenti, il tajiko Rahmon compreso, sono vecchioni provenienti dall’URSS, delfini di qualche satrapo allevato a pane raffermo e KGB e a loro volta despoti appassionati di potere e familisti orrendi. Certo, con loro l’argine all’islamismo integralista c’è ed è fermo, pur con tutte le storture (in Tajikistan, per dire, sono proibite le barbe) e quando essi soccomberanno al tempo e poi, spero alla storia, non è detto che andrà meglio. Anzi, potrebbe esserci la deriva fanaticheggiante, Iran e Afghanistan sono qui da vedere. Non c’è come proibire una cosa per allevare devoti.

Dei periodi di Samarcanda, dalla primordiale a quella odierna, rimangono svariate tracce. Notevole la collina della remota Afrasyab, con le sue stanze affrescate direttamente sul fango e la paglia, così simile alla vicina ma tajika Penjakent. Senz’altro la parte più significativa della città è la parte timuride, ovvero quella costruita e disposta da Tamerlano e discendenti, tra cui senz’altro il Registan, l’enorme famosa piazza sulla quale aggettano tre madrase meravigliose che ricordano un passato di sapienza e istruzione, e qualche esecuzione qua e là, vabbè, poi la moschea più grande dell’Asia centrale, la necropoli timuride, una successione strepitosa di mausolei uno più bello dell’altro e l’osservatorio astronomico di Uluğ Bek. Molte altre cose poi, il gran bazar sovieticheggiante, il quartiere cinese Shanghai. Tra l’altro in questi giorni c’è il festival di musica folk uzbeka, un grande appuntamento che ferma il centro città per alcuni giorni. In rete si trovano filmati delle edizioni passate, alcune cose meravigliose, altre terribili e dico solo Albano che bacia la terra uzbeka in favore di presidente cane.

Per me ora Samarcanda vuol dire anche aeroporto, cioè la fine del viaggio, breve tappa a Istanbul. Giusto averla piazzata alla fine, scelta saggia, partire sempre dal difficile. Che dire, ancora? Viaggio complesso, inventarsi e organizzare gli spostamenti non è sempre stato semplice, sarebbero serviti molti giorni in più, attraversare paesi come il Tajikistan richiede spesso di trovare il modo per arrivare da un punto all’altro e serve tempo per parlare, chiedere, cercare. Mi servirebbe, quindi, una vacanza, ora. Aver messo il naso in Asia centrale mi rende contento, volevo cominciare a capire. A Dušanbe scrivevo di trovarmi «nel fondo del Tajikistan che confina da vicino con l’Afghanistan, circa duecento chilometri da Pakistan e India, qualcosa meno dalla Cina e dal Kirghizistan. Oltre all’Uzbekistan, sempre dietro l’angolo» ed era vero, a Termez anche peggio, di fatto è lì che da secoli la civiltà umana progredisce e regredisce. Certo, anche noi in Europa abbiamo avuto i nostri bei (e meno) momenti, Grecia, impero romano, illuminismo, nazismo, ma chi suggerisce di guardare l’Europa come un’estrema propaggine del continente asiatico non sbaglia e ci suggerisce di aprire la mente e lo sguardo. Adesso in quest’ottica punto Iran, Armenia, Georgia e Azerbaigian.

E l’augurio iniziale? Molte persone care mi hanno augurato di tornare sereno e di trovare tranquillità e soddisfazione e io sono loro grato per questo augurio premuroso. Ma non è il tipo di viaggio che serve a questo né, probabilmente, io cerco tranquillità e soddisfazione, andando a sbirciare paesi complessi e non addomesticati. La mia amica A. mi aveva augurato di tornare «appagato», ed è stato l’augurio migliore, anche se pure in questo caso non è la conseguenza possibile delle intenzioni di viaggio. Capire di più è quello che voglio, non divertirmi o svagarmi, non vado in vacanza: vado in capienza, al contrario, in riempimento. E torno più consapevole, proiettato nel mondo, più concentrato.

Il che vuol dire che non solo non sono più sereno e accomodante ma, anzi, sopporto decisamente meno le meschinerie e le piccolezze: dopo aver diviso del formaggio essiccato a quattromila metri contemplando laghi glaciali e osservato l’immensità della storia da un monastero nel deserto, è ovvio che tollero ancor meno le sciocchezze, le miserie, le lagne, chi non parla con onestà, chi non agisce seguendo giustizia. Vedo dunque nubi all’orizzonte.

Bah, il fatto positivo è che la Nera Signora non c’era, o non era a Samarcanda che attendeva me, quindi ancora in pista, bucato fatto, sono pronto a ripartire. Chissà, magari pure a breve. Grazie a chi ha seguito.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: nove, camminare per un’idea

Non è poi così lontana Samarcanda / corri cavallo, corri di là, è vero, non è poi così lontana ma Samarcanda è un’idea, un posto là, dove tutte le strade su incontrano, dove le genti si scambiano e mescolano, è talmente in là nell’immaginazione, nello spazio e nel tempo, che puoi scappare lì per provare a sfuggire la morte. Come scrive Franco Cardini: “Samarcanda, anche perché fu a lungo una gemma incastonata in quella preziosa, polverosa collana dei sentieri attorcigliati che di oasi in oasi e di karavansaray in karavansaray ti porta lontano, e basta che tu la nomini socchiudendo gli occhi e sei su un tappeto magico”. Basta nominarla.

Dare un volto alle cose, e io sto per farlo arrivando a Samarcanda, è pericoloso, un’arma a doppio taglio: dare soddisfazione a un desiderio, arrivare finalmente a vedere e insieme, però, smarrire l’immaginazione, la fantasia, sostituirla con immagini concrete, fatte di mattoni, con la pesantezza del caso. Certo, si può fantasticare comunque sulla Samarcanda del passato, Afrasyab, Marakanda, poi Samarcanda, ma l’incantesimo è finito. Diventa un’altra cosa, un’altra categoria del pensiero.

Tamerlano, stessa cosa. Fin da Marlowe, il suo Tamerlano, fantasticare sull’immenso impero che andava da Costantinopoli a Mosca a Delhi è cosa facile, e quando morì stava conducendo la campagna di invasione della Cina, figurarsi. Anzi, non Tamerlano, che mette l’accento sulla sua zoppìa, ma Amir Timur, in cui il primo termine è il titolo onorifico, emiro degli emiri, principe dei principi, e il secondo il nome che diede inizio alla dinastia dei Timuridi che, per dire, costruirono il Taj Mahal in India e durarono fino agli inglesi nell’Ottocento. Amir Timur, dicevo, anch’egli qui diventa presenza reale da fantasia sfrenata, il suo mausoleo e la sua tomba sono lì da vedere, persino il suo corpo è stato analizzato e ha confermato quanto sapevamo di lui.

Non solo mercati e scambi e carovane e caravanserragli ma università medievali, madrase, conoscenza e apertura. Come quella di Ulug’ Begh, nipote di Timur, astronomo e scienziato che documentò nel quindicesimo secolo oltre mille stelle e relative orbite con precisione contemporanea. Le tracce del suo osservatorio, simile a quello di Copernico a Torùn o quello di Tycho Brahe a Copenaghen, sono impressionanti, resti della furia fondamentalista che, ancora, ci costringe al passato e tiene a freno la nostra capacità di immaginare.

Da Bukhara a Samarcanda prendo il treno e, siccome non mi nego nulla, ad alta velocità. Un Frecciarossa, ci assomiglia, velocità paragonabile. A bordo offrono, mai visto, oltre a dell’inedito gelato – coppetta con palline esattamente come dal gelataio -, mojito alla loro maniera ma pur sempre mojito, macedonia.

Nel deserto attraversiamo alcune zone industriali, gas e miniere, terribili e solitarie, immagino la vita qui. Poi deserto stepposo, alla TV nel treno lussuoso assisto a uno sceneggiato in cui una donna ascolta un lunghissimo concione da un dottore e non pare contenta, poi esce e dà una testata fortissima a un’altra donna che incontra per strada. Quando il treno incontra il fiume Zaravshan capisco che cominciamo a esserci. Ehi, io ti ho già visto, fiume. Ed eccola, Samarcanda, di nuovo, con la sua stazione sovietica.

Sono alla fine del viaggio, e che fine, doveva essere così. Ora c’è lei, leggendaria come Baghdad, Damasco, Persepoli, vediamo dunque com’è questa idea fatta realtà.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: otto, in risalita, frittelle, turista, la nobile città

Da Termez a Bukhara sono quattrocento e rotti chilometri che si traducono in sette ore e rotti di sospensioni nella schiena e in sorpassi semisuicidi. Da sud, ovvero da Mordor, sale il vento carico di sabbia e rende il cielo giallo e polveroso, maledetti talebani, anche questa. A un certo punto facciamo sosta in un paesello su un fiumicello stento con al centro un enorme platano quasi millenario che copre, realisticamente e metaforicamente, con la sua chioma tutto il villaggio. Faccio rifornimento di formaggio essiccato, disbrigo le mie faccende fisiologiche in un posto che raccomando – il trucco è avere il coraggio di fare due respiri a pieni polmoni, poi non si sente più – e mangio la frittellona appena fritta più buona di sempre.

Grazie, frittellaia. Superato un passo desertico la strada si allarga e si capisce che in un tempo indefinibile diverrà una strada ad alta percorrenza. Al momento sono gran buchi e ruspe cinesi. A tardo pomeriggio finalmente Bukhara. La perla dell’Asia centrale, la città santa, la nobile. Ed effettivamente.

Per la prima volta da dieci giorni vedo un turista, intendo con sandali e cappello e maglietta troppo stretta. Ed è pure italiano. Urrà. E poi ne vedo due, otto, mille. Chiaro, il governo uzbeko sta spingendo molto sul turismo e il giro ormai classico Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent è molto gettonato, voli diretti da Milano. A Bukhara vedo riapparire le carte di credito, dimenticate negli ultimi giorni, le linee telefoniche, l’inglese e, spesso, italiano e francese. E i Ricchi e poveri.

Detto questo, la città è davvero favolosa. In senso letterale, favola. Nel corso dei due rinascimenti del mondo islamico, ottavo-nono e quattordicesimo secolo, Bukhara fu il centro del sapere dell’Asia centrale, con ventimila studenti e docenti del calibro di Avicenna, anche lui di qui. Samarcanda, certo, per i commerci e le vie di comunicazione, Bukhara per scienza, medicina, filosofia, astronomia, religione, manifatture tra cui i famosi tappeti e la comunità ebraica, si dice la più antica del mondo. Sì, lo so che lo dicono anche a Roma ma qui parliamo del quinto secolo avanti cristo, mica dopo la diaspora. L’incredibile minareto in mattoni cotti che domina la piazza con le due enormi madrase colpisce davvero l’animo, e dovette colpire anche quello di Gengis Khan, che stranamente lo risparmiò. E la diretta discendenza dei minareti dal faro di Alessandria, questa cosa l’ho imparata in Tunisia, è qui abbastanza evidente.

E i mausolei, le moschee, la fortezza, il quartiere ebraico, le tombe dei santi, le vasche d’acqua, le mura e le porte, i mercati sotto le cupole, insomma la città è davvero molto affascinante nonostante i banchetti mercatini e gli italiani.

Questo mausoleo, bellissimo, armonico e proporzionato, sembra il deposito di Paperone. A sera mentre sto bevendo una birretta a fianco della grande vasca in centro alla città – sì, ci sono anche le birrette – e mangiandoci insieme semi di albicocca tostati – una grande scoperta, mille volte meglio delle arachidi -, faccio due chiacchiere con Rudi, lo chiamerò così, un tedesco residente a Cuba. Dovendo ciclicamente uscire per ragioni di visto, stavolta ha ben pensato di volare a Pechino, prendere un’auto, scendere lungo una delle vie della seta fino a qui per poi proseguire per il Pakistan e l’India. Questo per dire la gente che c’è in giro, che meraviglia. Mi deprime l’idea di dover tornare a sentire le quotidiane fregnacce del vicepresidente del consiglio, che avremo mai fatto di così male?

Bella la madrasina dei birilli, eh? Starei sempre in giro, sempre un angolo da svoltare.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: sette, amicizia al ponte, cotone, deserto e spolette

Termez o Termiz è la città più meridionale dell’Uzbekistan ed è attraversata dall’Amu Darya, l’altro fiumone dell’Asia – duemilacinquecento chilometri, per capirci, quattro Po – che fa da confine con l’Afghanistan. Infatti, basterebbe attraversare il ponte dell’Amicizia – classico senso dell’umorismo sovietico – per andare dall’Uzbekistan all’Afghanistan e viceversa. Il condizionale è perché mica è così semplice, ora che di là sono tornati i talebani per la seconda volta. A dirla tutta, il commercio vince: gli afghani possono arrivare a Termez e starci fino a dieci giorni senza limitazioni pur non potendo andare in altri luoghi nel paese – leggi: comprate e tornate a casa -, mentre chiunque altro per andare in Afghanistan deve avere un difficilissimo visto.

Io questo confine lo voglio vedere e, quindi, piglio un taxi che mi porti fin dove si può. Si forma subito una piccola cordata di gente che vorrebbe andare a vedere, andiamo. Sono tassativi: niente foto in nessun caso. Già le frontiere sono sensibili in generale, figuriamoci qui. Ultima foto, a vista ponte da lontano.

Poi si prosegue a vista, scorgo la solita lunga fila di tir fermi in attesa di chissà che e in fondo la barriera, presidiata da uomini armati eon i cani. Il tassista scrive su gugol translate che non si può andare oltre, traduce e me lo mostra, ben comprendo, non è nemmeno il caso di fermarsi troppo a contemplare.

La zona di Termez è ricca di siti archeologici, testimonianze di vita antichissima nella regione – e in questo l’Afghanistan dovrebbe essere notevole, per quel che forse resta e non hanno distrutto o venduto -, tombe, insediamenti, mausolei, caravanserragli e stupa. Proprio per vedere uno stupa abbandonato ho l’idea bellissima di camminare per alcuni chilometri sotto il sole, prima in landa desertica e poi in un campo di cotone. Ovviamente alle due del pomeriggio.

Bravo me. Per vederne un altro, circondato da una madrasa nel deserto, salgo su una collina da cui non solo si vede il confine afghano, triplo reticolato, ma la collina è piena di bossoli, spolette, cartucce sovietiche, trattandosi evidentemente di una postazione di tiro durante l’invasione dell’Afghanistan.

I luoghi nel deserto sono di grande fascino e le attestazioni della vita risalgono alla preistoria, il che mi dice molte cose – non tutte buone – sulle capacità di adattamento della nostra specie, anche in chiave futura.

Le file di mattoni cotti al sole, in pratica basta prendere la terra, bagnarla, mescolarla a un po’ di paglia per renderla più traspirante, metterla in casseformi e lasciarla asciugare al sole, presupporrebbero l’esistenza di qualcuno, cosa che non è, non vedo alcuno per chilometri. Mah, solito mistero delle fermate di corriera nel deserto: da dove verranno? Dove andranno?

Domani a Bukhara.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: sei, un certo dormire, la casa da tè, un altro confine

Ancora Dušanbe, la capitale, ci sono alcune cose che vorrei visitare e che visito: la fortezza di Hisor e le sue due madrase – sono le scuole coraniche, da tempo abbandonate o adibite a negozi dall’Unione sovietica – e il museo di Storia Nazionale, in particolare l’enorne statua del Buddha dormiente di Adjina-Tepe.

La dormienza del Buddha è in realtà uno stato complicato oltre la morte, in procinto della nuova vita spirituale. O qualcosa del genere, non capisco bene questo tipo di cose. Il museo è una raccoltona di qualsiasi cosa inerente il Tajikistan e la sua storia tranne, guarda te, la guerra civile e la transizione post-sovietica. Bravo, presidente. Non male l’arte contemporanea, in cui recepiscono alcune nostre tendenze, tipo macchiaioli, oltre a quadri di dighe, invasi e montagne di cotone. E ancora meno male la parte dei doni di stato, che ipocritamente il satrapo non può tenere per sé. O sono quelli che non gli piacevano. Pugnali, diamanti, fucili, maglie da calcio, il tutto dalla combriccola più simpatica del pianeta, Putin, Erdogan e così via. A Pechino c’è un intero museo di doni di stato, mi ero molto divertito davanti al modellino Alitalia di Craxi e ai carabinieri in ceramica di Capodimonte.

La cosa più interessante è senz’altro il (la?) Kokhi Navruz, progettata per essere la più grande casa da tè dell’Asia centrale. Casa da tè è una locuzione che non spiega, in realtà è un mummullone neobabilonese di dimensioni spropositate costruito su idea del presidente per il popolo e poi invece guarda caso usata dal presidente per ricevere i suoi amiconi dittatori.

Vabbè, si è capito. Il mosaico marmoreo del presidente che prega con la sua mamma è il momento più alto della visita, superiore alla vista del più grande pennone da bandiera del mondo, costo trentadue milioni di euro, con bandiera di sessanta metri di lunghezza. Considerato che lo stipendio di un insegnante è circa centocinquanta dollari al mese, due pensierini vengono.

Bene, dopo aver fatto scorta di pane, formaggio essiccato, acqua e banane, mi dirigo alla frontiera ovest per tornare in Uzbekistan. Dopo un’oretta di corriera, di nuovo piglio su gli stracci e attraverso a piedi, come quasi tutti. Stavolta, sia perché in uscita sia perché essendo vicina alla capitale è più informatizzata, ehm, diciamo che funziona, il processo è più semplice dell’altra volta. Le donne in coda, giovani e vecchie, si sentono autorizzate a superarmi nella fila informe, immagino perché per me la procedura è più lunga, e gli uomini a passare davanti a tutti. Dopo essermi messo di mezzo, dopo aver subito gli sguardi furbi delle donne che mi rassicurano con le mani e appena possono mi passano avanti, a un certo punto sporcono ad alta voce, tutto in italiano, non mi piglio nemmeno la briga di tradurre. Cala il silenzio e per qualche minuto, qualche, l’ordine dopo di me è rispettato per un po’. Mentre aspetto il mio turno nella terra di nessuno, incrocio in senso contrario: una donna con carretto pieno di sole bibite, immagino siano varietà che in Tajikistan non esistono; un mio coetaneo che spinge un carretto con sopra seduta un’anziana signora, immagino la madre, lo aiuto ad aprire la sbarra e mi dà uno di quei cenni del capo dritti negli occhi che dicono tutto, sono ringraziamento profondo e consapevole della comune umanità; giovani donne chiacchierine con sacchetti vari; un uomo che il carro lo tira mentre i numerosi figli spingono, sopra ci sono la madre e molto di quanto possiedono, immagino.

Scendo verso sud, a Termez città militare, l’armata rossa entrava da lì in Afghanistan, separato solo da un fiume. Vale la pena segnalare che da lì è più vicina l’India che la capitale dell’Uzbekistan, Tashkent. Per dire delle influenze e delle distanze.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: cinque, altro passo, verso la capitale, la foto del viaggio

È il momento di scendere verso sud e andare a Dušanbe, la capitale del Tajikistan, a trovare il presidente che ho finora visto in ogni dove, grande e piccolo, sempre con le stesse tre foto scontornate con sfondi diversi a seconda, per la serie del presidente che fa o indica cose. Sugli edifici, a lato della strada, nei campi, a fianco dei monumenti. Dušanbe sta in un angolo nel fondo del Tajikistan e confina da vicino con l’Afghanistan, circa duecento chilometri da Pakistan e India, qualcosa meno dalla Cina e dal Kirghizistan. Oltre all’Uzbekistan, sempre dietro l’angolo. Un bell’accrocchio. Poi uno dice la stabilità, qua basta tirare il pallone di là che è un casino. Telobbuco.

La corriera fa il percorso inverso dell’altro ieri e poi gira verso sud e comincia a risalire le montagne. Stavolta sono completamente brulle e rocciose, un torrentone scorre sul fondo ed è chiaramente lui che ha scavato la valle. La strada corre accanto, salendo in un modo che alcuni camion di epoca sovietica rantolano non poco. Man mano che si sale, dobbiamo arrivare a tremila, le montagne si fanno aspre, spoglie e franabbili, perché non friano, che ogni tanto si vede del fumo alzarsi e sassi volare. E un paio di volte ci fermiamo che non si sa mai. Il principio del sorpasso è quello semiuniversale: sorpassare, qualsiasi linea ci sia, e se arriva qualcuno in senso contrario sfanalare che si allargherà. Se qualcun altro avesse la stessa idea in senso contrario, qualcuno chiunque esso sia ci penserà. Questo concetto occidentale dello stare in vita a tutti i costi è davvero noioso.

Invece di andare a quattromila metri per scavallare, come hanno sempre fatto tutti i minatori e viaggiatori passati da qui, da qualche anno si può prendere una galleria a poco meno di tremila scavata grazie all’aiuto iraniano che fa risparmiare parecchio. Grazie Iran, chi l’avrebbe detto? La galleria è talmente ben fatta che è chiamata ‘tunnel della morte’, sarà perché è stretta, non c’è luce, non c’è né areazione né vie di fuga né piazzuole e l’impermeabilizzazione non è riuscita granché, cioè è allagata e piove dal soffitto e ciò nonostante dentro c’è una tempesta di polvere che i fari li si vede davvero all’ultimo. A parte questo, tutto tranquillo. Che sarà mai? In realtà mi dà qualche pensiero in più lo stridore e l’odore di strino dei freni in discesa, visto che son seduto a destra e vedo il fondovalle quattrocento metri sotto di me.

Dopo una sosta in un pitorèsco bagno in cui siamo tutti fraternamente spalla a spalla, la discesa prosegue e in un paesello di cui non ricordo il nome ma che è detto ‘la perla del Tajikistan’ vado a comprare un po’ di pane – sempre buonissimo qui -, due banane e del formaggio essiccato – eccezionale, lo butti in borsa e lo consumi dopo venti giorni, da importare -, mi scappa l’occhio e vedo due madri e due figlie che parlano sedute in riva al fiume mentre gettano sassolini. Le trovo commoventi e mi capita di scattare la foto del viaggio.

Ha un che di McCurry, se mi si passa la blasfemia. Il merito è loro.

A Dušanbe, capitale più interessante di Tashkent mi pare, vado per i luoghi notevoli, l’enorme mercato principale prima di tutto.

Il regime si esprime in grandi condomini e palazzi istituzionali lungo grandi e larghi viali, monumenti celebrativi, tutto mediamente in cemento armato ricoperto di marmi. La città è davvero verde e la ricchezza nazionale, l’acqua, usata senza parsimonia. Esiste anche un enorme giardino botanico, notevole, che dà occasione agli sposi di fare foto decenti. Altro sacchettone di frutta secca, e il mio intestino comincia a chiedere pietà, e altro giro di carnazze come di consueto. Frutta e verdura buonissime, pomodori, pesche, meloni sopra tutto. Il farabutto cetriolo regna incontrastato come sempre, da qui a Portland. Nessuno può competere con lui.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: quattro, la moneta, molti laghi, a pranzo a casa altrui, c’è un italiano…

L’incredibile moneta da tre somoni che sconvolgerà ogni forma di economia tradizionale e, oserei dire, di calcolo planetario.

Mi attacco a un gruppetto di persone per andare a visitare uno dei luoghi più belli del Tajikistan: i sette laghi della valle di Shing. Serve un fuoristrada perché bisogna seguire la strada delle miniere d’oro per svariati chilometri e poi proseguire per la valle e sulle morene. Sterrata qui si intende quel tipo di strada che dopo cinque minuti lo stomaco è in gola e dopo due ore il cervello nel sedere.

I laghi sono glaciali e tra uno e l’altro è necessario scavalcare il fronte morenico, al quale la spinta del ghiacciaio non era più sufficiente e in fasi lunghe e successive il ghiaccio scavalcava. Le pareti sono ripide, a volte compatte a volte franose, e molto alte, ampiamente oltre i tremila in cima.

I colori dell’acqua sono strepitosi, a seconda del fondo, dell’inclinazione della luce, della larghezza del lago. Sulle pareti rocciose si vedono chiaramente le striature bianche delle cascate stagionali, allo scioglimento dei quattro-otto metri di neve che cadono qui.

La nostra auto, che è più un van che una jeep, sembra una barzelletta trita: un italiano, un autista e una guida tagiki, una donna russa, una coppia orientale. Fino a che la donna russa non vomita, la scossa piacevolezza della gita è stata ragionevole.

Di lago in lago, quarto, quinto, sesto, variano colori e dimensioni, saliamo verso i duemilaeotto del settimo, Hazorchashma, la temperatura è piacevole. Io ho le mie albicocche essiccate e la necessaria acqua, sempre. Oltre a qualche mucca, cane, è il regno delle capre che mantengono i rari praticelli all’inglese e quando non ce n’è più salgono sugli arbusti.

Dopo l’ultimo lago, una famiglia ci ospita in casa loro per il pranzo, tutti seduti attorno ai tappeti centrali, sui quali vi è il cibo, amarene e albicocche delle piante qui fuori, due tipi di pane cotto al forno, uno yoghurt acidino che è una favola se scarpettato, tè, zucchero in cristalli e in sfere bianche compatte.

Molte le chiacchiere con i miei compagni di viaggio, meno con i locali, ma esprimere riconoscenza è gesto umano e universale, si capisce. La famiglia sta indietro, le ragazze soprattutto, a occhi bassi, difficilmente guardano negli occhi un uomo, cattivo segno. I ragazzini sono più sfrontati, evidentemente gli è permesso. Con la donna russa è più complicato parlare, sia perché è bianca come un cencio e ha lo stomaco come un mocio, sia perché molti argomenti sono spinosi di questi tempi. Oltre al fatto che, si vede, considera queste zone come dipendenze di casa, ancora.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: tre, invitato, al passo, il mio primo plov, sfusità

La esim tagika funziona. Ci ha messo due giorni, fa caldo per tutti, ma ora funziona come può funzionare qui. Che bellezza la tennologia, così posso mandare il buongiornissimo di ferragosto. Per fortuna anche oggi c’è sereno.

Vagolavo a sera per il centro di Khujand, appena sceso dalla cabinovia panoramica che attraversa fiume e centro – e tutti contro la Raggi, allora -, quando sento musica e vedo luci. Mi avvicino curioso e mi invitano a entrare e io che faccio? Entro, ovvio. Ed è un sontuoso matrimonio tagiko, mi forniscono di foulard apposito da cingere in vita, per gli uomini, e mi versano prontamente della Pepsi locale turbogasata. Ricordo che il paese è privatamente musulmano. La band suona forte, noi si balla uomini con uomini e donne con donne ma l’atmosfera è proprio divertente e spontanea, sono contenti anche di avermi lì. Che bellezza, grazie miei nuovi amici.

Il presidente, di cui devo dire poi, ha promulgato qualche anno fa una legge specifica sui matrimoni, ovvero tetto di spesa che se no poi la gente si svena e tetto di invitati a centocinquanta. Oddio, sarò io il centocinquantunesimo? Saremo tutti arrestati e giustiziati?

Il presidente Emomali Rahmon, Rahmonov all’anagrafe ma ripulito dopo il 1991, è in carica da trent’anni e criminale vero oltre alle sopracciglia brezneviane specifiche del genere. Il popolo entusiasta, certo, ha deciso alla quasi totale unanimità di conferirgli mandato a vita cambiando la costituzione e ovunque ci sono sue fotografie in cui fa cose, nella migliore tradizione dei culti della personalità. Vista la quantità di acqua nel paese, l’idea è costruire dighe ovunque, unendo al socialismo l’idroelettrificazione. Oddio, socialismo. E le dighe anche come arma di ricatto e autotutela verso i paesi confinanti, visto che la relazione diretta è con l’Iran. I paesi attorno non gradiscono, l’hanno mostrato. Comunque.

A mattina, naturalmente dopo la lettura approfondita dei giornali locali e non, piglio su i quattro stracci e vado a sud, verso Panjakent, attraverso, credo, il passo dei monti Shahriston, a circa duemilaottocento metri. Le montagne stanno assumendo quell’aspetto afghano completamente spoglio che un po’ di inquietudine mi dà. Oddio, a dire il vero a salire la valle è piuttosto verde, coltivata e anche con qualche acqua qua e là. Appena passato il valico, con tunnel cinese, invece tutto diventa brullo. E la strada spesso a strapiombo, non so se sia meglio vedere il guard rail quando c’è tutto rotto e spesso spezzato o piuttosto quando non c’è. Il novanta per cento del percorso.

Ogni tanto c’è un autogrill che vende prodotti tipici, albicocche essiccate, miele, nocciole, formaggio essiccato, palline di zucchero. Ma mica si ferma mai ‘sto osti di conducente e anche se gli potessi parlare non saprei come dirglielo.

A fondovalle, all’incontro con il fiume Zeravshan, pieghiamo verso est fino a Panjakent, che è un centro antico della Sogdiana lungo il fiume, di cui vorrei vedere la città antica e, soprattutto, è la base di partenza per un posto speciale. Il fiume scorre vorticoso, grigio fango, i fianchi del letto del fiume si sfanno a vista d’occhio, formando enormi calanchi.

Qui non c’è nulla che non crolli e frani, non si capisce nemmeno come stia su. Come le dolomiti, per capirci, senza i turisti e senza la dolomia. E senza, vabbè, ci siamo capiti. Per festeggiare l’arrivo mi concedo una prelibatezza locale, il plov, nel miglior posto di Panjakent a quanto mi dicono o mi par di aver capito. Ecco cos’è il plov: riso, patate, cipolle, uvetta, carne, carote gialle condito con olio di cotone. Buonissimo. Una ragazza taiwanese a fianco a me ha la maglietta All you need is plov. Me lo portano con l’immancabile zuppetta di boh, che io per paura di pollo non tocco, con fette di anguria, uva, pomodori e cipolle. Tutto gradito. Ogni tanto si trova qualche anglofono ma è raro, altrimenti come sempre le cifre su calcolatrice o telefono o per terra, il resto a gesti. Ce la si fa, comunque.

Nonostante la giornata sia stata abbastanza lunga così, devo vedere qualcosa di storico, quindi in sequenza due siti di importanza mondiale, prima la fenomenale Sarazm – prendi la marshrutka n. 8 dal centro e ci sei – e poi l’antica Panjakent. Al tramonto, la terra diventa gialla e rossa, la golden hour, tira anche un po’ di vento e si sta bene, siamo circa a mille metri. Le pitture parietali del quinto secolo dell’antica Panjakent sono notevoli e gli originali stanno, come al solito, a San Pietroburgo. Poi fecero cinquanta e cinquanta con i russi sui ritrovamenti e adesso tutto o quasi resta qui. Al museo Rudaki capisco qualcosa di più su Avicenna e l’epoca d’oro della storia tagika. Per dare un riferimento a me vagamente noto.

Chiudo al supermercato, estasiato di fronte al banco dei biscotti sfusi: e perché è comodissimo, ne si sceglie uno di questo e due di quelli, sia perché la civiltà è superiore, da noi sarebbero tutti rotti e toccacciati.


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minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: due, confini terrestri, arrivo in Tajikistan, finalmente Alessandro

Oltre al mercato, all’hotel Uzbekistan, all’edilizia popolare, il vertice dell’architettura e stile sovietico aggraziato con influenze asiatiche a Tashkent è la metropolitana e la stazione dei cosmonauti mi manda completamente in estasi, tra colonne di vetro, lampadari, pavimenti geometrici e ritratti di cosmonauti. Cadauno per condivisione.

Tutto posteriore al 1966, dopo il terremoto che distrusse tutta la città. La ricostruzione, in stile sovietico, allora al proprio picco, alleggerito da elementi asiatici, è un ibrido davvero piacevole a vedersi e affascinante per me, oltre che fantasioso e sorprendente.

Bando alle piacevolezze, trovo un pullmino che arriva alla frontiera tagika, in direzione Khujand, l’Alessandria Eschate di Alessandro magno. Salgo al volo e dopo poco più di un’ora di campi, case, poi deserto e le prime montagne completamente spoglie, afghane per capirci, scendo a cinquecento metri dalla frontiera. Scendo come tutti, la frontiera si fa a piedi. Cioè, la si può fare anche in auto o camion ma significa sottoporsi a ore di controlli in cui praticamente ti smontano il mezzo, in perfetto stile est-socialista dei tempi belli e il conducente della corriera col cavolo. Ci sono dei tizi che passano la giornata in una fossa nel cemento a ispezionare i mezzi da sotto. Parrebbe paranoia o dimostrazione di forza, in realtà dal Tagikistan passa il corridoio di uscita di tutto l’oppio e l’eroina afghana verso il pianeta, per cui qualche scrupolo c’è. Faccio una foto cercando di non essere giustiziato sul posto.

Sono emozionato a valicare una frontiera a piedi, è un passaggio reale e metaforico, in aereo non se ne ha più coscienza, è una cosa che non facciamo più. Dopo più di un’ora al sole davanti a un cancello chiuso, i gradi sono quaranta, e un militare di tredici anni che decide chi passa e chi no, sono ancora emozionato ma con moderazione. L’uscita dall’Uzbekistan è relativamente agevole, l’entrata in Tagikistan meno. Il militare al controllo mi fa cenno che no e va’ tu a sapere perché. Dopo un bel po’, sempre al sole fuori da una baracchetta, un altro soldato mi dice che il system is down, intende quella webcam minuscola con cui riprendono tutti i volti di chi transisce. Le condizioni si fanno difficili e gentilmente ci fanno entrare ad aspettare nella baracchetta, almeno all’ombra, tra donne tagike, bambini e qualche obeso che soffre come un cane e che ogni tanto bisogna bagnare come fosse una balena spiaggiata. No, non sono io. Non dico niente, sorrido ma cerco di incombere sullo sportello e sull’impiegato. Non c’è una sedia. Non c’è acqua e io la mia l’ho bevuta tutta e sudata. O meglio, c’è un tubo che esce dal cemento, non oso berla ma mi lavo. Ci fanno passare alla sbarra successiva senza che sia cambiato nulla e il mio passaporto ce l’ha un soldato adolescente più indietro. Non c’è nemmeno un bagno, il che griderebbe vendetta, la disidratazione è però tale che nessuno ne ha bisogno. Esperienza interessante e rispetto a quella di un profugo questa è acqua fresca, chi legifera però dovrebbe provare. Saranno passate tre ore, quasi. Sarà poi che i militari hanno mimetiche verdino bile con macchie gialle itterizia pixelate che tutto ispirano tranne che rispetto, meglio comunque tacere. Dai e dai che incombiamo, a un certo punto il soldato chiama l’assistenza informatica e in remoto qualcuno dall’altra parte muove il cursore e sblocca la situazione, passiamo. Io ho sudato tutto il sudabile, ora devo solo trovare un mezzo per Khujand.

Come ogni viaggiatore previdente, mi sono scaricato le mappe, visto che come previsto non c’è alcuna connessione. Previdente ma ignorante, perché in Tajikistan parlano sì il farsi ma la grafia ha mantenuto il cirillico, per rendere le cose ancora più divertenti. Ah, scrivono anche da destra a sinistra, per aumentare il gaudio. Ma tanto io come me ne accorgo? In qualche ora arrivo a Khujand, la maggiore città della zona, perché voglio vedere i resti della cittadella fortificata di Alessandro magno. La città è attraversata da uno dei due grandi fiumi della regione, il Syr Darya, che sarebbero anche i due maggiori affluenti del mare d’Aral, qui lo chiamano mare. Condizionale perché entrambi i fiumi sono ormai canalizzati e prosciugati per irrigazione e non arrivano più al mare che, ormai, tristemente non esiste più, essendo ora una delle più grandi catastrofi ecologiche del pianeta. Il Syr Darya però qui è ancora un fiumone e l’acqua è la più grande ricchezza del Tajikistan, il sessantacinque per cento di tutte le acque dell’Asia centrale sta qui, con buona parte del Pamir sopra i settemila metri di altitudine. Io ora sono a duemila metri ma è come se fossi nel ferrarese.

Finalmente i resti della città di Alessandro, servirono poi innumerevoli volte da baluardo contro gli invasori, tra tutti i mongoli i più terribili. Poi i sovietici ne fecero una caserma e bon, buona parte scomparve. Oggi è ricostruita con piastrelle ceramicate, un angolo ancora c’è. A Khujand Alessandro sposò Rossane, sono abbastanza emozionato. A villa Farnesina c’è un affresco del Sodoma che rappresenta il matrimonio tra Alessandro e Rossane, indice di una conoscenza rara della storia da parte di committente e artista. Lei fu scelta tra molte prigioniere, Alessandro aveva infatti conquistato tutta la regione, Soghd, e fu scelta sia per la sua leggendaria bellezza che per in ragione strategica per l’alleanza con il futuro re della Sogdiana. Mi viene in mente anche l’affresco della battaglia di Gaugamela proveniente da Pompei al museo di Napoli, Alessandro è proprio un bel figurino. Impossibile resistergli.

Oggi è venuta lunga ma la giornata in sé lo è. Vado al mercato in città, bello sovietico anche questo, gran verdure e carni migliori di quanto si potrebbe immaginare, pane meraviglioso in dischi che potrebbe essere un’idea per coprire una settimana.

Scopro l’esistenza dell’olio di cotone, usato per cucinare, direttamente dal venditore. Usano molto anche quello di semi, secondo.

E per oggi basta, che adesso sono a un matrimonio.


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Ma certo, è tutto viaggio, il senso stesso sta nell’avvicinamento alla meta, il viag… eh, ho capito, ma son sette ore di ritardo. Ho capito il senso, ho capito tutto, ma son pur sempre non luoghi e il nuovo aeroporto di Istanbul, per quanto enorme e molto bello, non è che sia un granché per bivaccarci. Oddio, in realtà, arrangiandosi un po’, potrei farcela.

Comunque la mia prima notte al gioiello sovietico Hotel Uzbekistan è appena saltata, va bene, Turkish non è più quella di un tempo. Ma arrivo, alla fine, arrivo a Tashkent che albeggia, è un lunedì mattina estivo e lavorativo, per loro, dormo un’ora su una poltrona dell’albergo, assumo un tolotto di caffè qualsiasi cosa sia e mi butto anch’io nella mischia. Tra corani insanguinati del settimo secolo di pelle di cervo, venerate tombe di interpreti del sacro testo e di fini calligrafi, centoventisette sono le diverse grafie riconosciute dell’arabo artistico sacro, statue di Tamerlano, eroe uzbeko per eccellenza – nessuno mai insinui la sua nascita tajika -, teatri russi costituiti da ex prigionieri giapponesi della seconda guerra mondiale, ho le mie belle soddisfazioni.

Interagisco fin da ora con uno degli assurdi -stan partoriti da mente sovietica e tracciati con la logica delle cose viste da Mosca, per cui le capitali son dove fa più comodo, e devo dire che mi piace questo inizio di relazione con l’Uzbekistan. Tashkent è la capitale per decisione sovietica, come dicevo, perché vicina a Kazakhstan e Tajikistan ma insensata quando Samarcanda chiama a tutta ragione il titolo. Sebbene la via della seta sia tramontata da parecchio e il paese sia rimasto più isolato – è uno dei due soli paesi al mondo che non solo non ha il mare ma è pure circondato da paesi che non hanno il mare, l’altro è in Europa continentale -, è ancora un vero crocevia di stili, storie e persone: cinesi ovviamente, russi comunque, europei in riscoperta, -stani di ogni tipo, mongoli, qualche indiano, molti turchi. È loro la predominanza economica e culturale qui, le infrastrutture le costruiscono come fanno i cinesi in Africa, stesso guadagno, stesso ritorno. Ci sono anche loro, i cinesi, in ogni caso, auto, camioncini, ruspe sono tutti di importazione, Chevrolet, prodotte tutte in Corea. Tutte bianche e sono tutte a gas, camion compresi. Per forza.

Compro dei soldi ed essendo il tasso di cambio uno a tredicimilatrecento mi riempio tutte le tasche di biglietti da diecimila sum uzbeki e inizio a comportarmi come un satrapo locale produttore di musica rap. Potrei anche comprarmi una pelliccia di cincillà*, che ne è pieno, sarebbe opportuno, stivaletti imbottiti e un gigantesco colbacco. Ora che possiedo circa un milione di sum, ovvero circa ottanta euro, il che la dice lunga sullo stato di alcune cose qui, vado al mercato. Ovvio.

Il mercato è strepitoso, la cupola centrale è sovietica, bellissima sia dentro che fuori, secondo la robusta tradizione dei mercati in territorio socialista, da Riga a Vladivostok. Frutta secca sopra tutto – e sto facendo un errore madornale, lo so, comprandone otto chili -, carne, cavallo più che altro, tè, formaggio essiccato, frutta e verdura tra cui le ignote carote gialle, pinoli della Siberia, banchi di carne alla griglia, vestiti, anche imbottiti che viene da ridere in questo momento ma d’inverno qui va sotto zero anche di venti gradi. Si contratta, gentilmente, nessuno si impone o richiama l’attenzione.

Ebbro di frutta secca e di carnazze, percorro i vialoni di Tashkent, possibilmente all’ombra, fino alle tre statue di Tamerlano, al palazzo del presidente e alla sala del gran consiglio, tutte realizzazioni posteriori al 1993, fino all’hotel Uzbekistan, leggendario simbolo della presenza sovietica in città, nonché edificio bellissimo a parer mio. Prendo un caffè all’ultimo piano in favor di veduta, chiacchierando piacevolmente (?) con Breznev e mi accingo a proseguire.

Il resto poi.

*volevo dire astrakan, quella roba spaventosa lì, non cincillà.


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