oh lord, what a unbearable smell of incense

Lui è un miliardario ultraconservatore proveniente dai fondi speculativi, quindi non gode di alcuna delle mie simpatie da qualsiasi prospettiva lo guardi.

Però il fatto che al dieci di Downing Street si trovi per la prima volta un primo ministro induista di origini indiane nato da genitori emigrati in Africa mi delizia, e il pensare che i Lord Mountbatten Chamberlain Battenberg Villanti Sforza Ammiragli Baroni di Greenwich e Governatori generali dell’India del passato e del presente siano governati da uno così mi manda in sollucchero. Spero rosichino, quelli vivi e i fantasmi degli altri, a vedere Rishi Sunak che nella residenza di governo oggi festeggia Diwali e gli impesta tutti i vellutini.

my name is Giorgia, but everybody calls me Giorgio

Ed ecco la nota ufficiale, anzi il nota ufficiale de il signor Meloni presidente.

Quisquilie? Sì, beh, considerando che si tratta di un participio presente, quindi comodo, appellarla «la presidente» più che una questione di genere sarebbe una questione di grammatica.

Ma tant’è. Prometto che sei mai verrò eletto a quella carica, io piglierò il femminile e sarò «la presidente». Giuro.

Costa, va’ al punto

Dopo averlo consigliato tempo fa ad amici e parenti, ora Morning, la rassegna stampa mattutina del vicedirettore de Il Post, mi irrita. Se potessi togliere le premesse, le precisazioni e i distinguo che Costa fa per non rischiare di offendere qualsiasi entità ipotetica, la rassegna durerebbe dieci minuti. E sarebbe perfetta. Restano l’intelligenza e il valore dei contenuti ma il temperamento mi suscita grande noia.
Al contrario, due podcast di informazione che vanno dritti al punto sono The essential di Mia Ceran e Stories di Cecilia Sala, entrambi di pochi minuti, il primo su un fatto della giornata, il secondo rivolto all’estero, il primo da cinque minuti, il secondo variabile tra i cinque e i dieci. Insieme, sono tutta l’informazione giornaliera di cui ho bisogno. Peraltro, Sala è anche una delle due autrici dell’ottimo Polvere, podcast che segnalavo qui.

ma benedetti ragazzi, ancora?

Per esser precisini, il cognato è il «fratello, o sorella, del coniuge, o coniuge del fratello o della sorella» e mi attengo a questo significato in senso stretto. Orbene, il ruolo del cognato nella politica italiana non solo non è stato indagato a sufficienza ma nemmeno se ne tengono in giusto conto le pericolose implicazioni. Spesso, infatti, è il cognato, familiare in senso largo ma non così tanto, a contribuire alle difficoltà del capo, agendo con troppa disinvoltura perché si ritiene al limite dell’impunità, e qui vorrei citare i poco luminosi casi di Galeazzo Ciano per Mussolini e di Paolo Pillitteri per Craxi. Oppure, il cognato è dedito ad attività proprie ma approfitta lo stesso del potere familiare e porta alla rovina la sua stessa fonte di ricchezza, come nel caso di Gianfranco Fini, del cognato e della casa di Montecarlo. E non solo, perché nella vicenda dei camici sanitari che coinvolge il governatore lombardo Attilio Fontana è, ovviamente a questo punto, implicato il cognato. Facile immaginare che nei pranzi domenicali, tra un discorso familiare e uno no, si presentino cospicue occasioni di collaborazione, idee brillanti, suggerimenti e anticipazioni dei fatti venturi.

Ora. Il neoministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, è guarda te il cognato de IL presidente Meloni, avendone sposata la sorella. Niente di rilevante, per carità, ma la storia recente e il senso di opportunità avrebbero sconsigliato tale nomina, familiare e troppo vicina. Non succederà nulla, sarà anzi ragione per stare maggiormente accorti, ma se accadrà io dal mio davanzalino non potrò che farmi una bella risata, poi innervosirmi e poi dire l’immancabile frase: io però ve l’avevo detto.

vaccinazioni: già in vacca così in fretta?

Settimane fa avevo facilmente pronosticato problemi sul fronte vaccinazioni, vuoi perché il governo entrante ammicca senza esitazioni agli insofferenti alle vaccinazioni, vuoi perché dal punto di vista organizzativo sembrano abbastanza sprovveduti. Ma davvero non pensavo così in fretta.

Stamane provo a prenotarmi per la quarta dose, lato lombardo, gli unici vincoli sono aver più di dodici anni, ci sono, e che siano passati più di centoventi giorni dalla terza, ci sono. Il sistema però mi dice che non mi riconosce (oh, tessera sanitaria e codice fiscale, eddai), insinua il mio errore e se non, devo essere abilitato.

Mmm, sarebbe la quarta dose, dovreste sapere tutto. Invece, mi fa di fatto ri-registrare e reinserire tutte le mie credenziali, il che mi fa sospettare che abbiano delegato di nuovo la faccenda alle regioni e che non abbiano le base dati. E invece di dirlo, costringono a reinserire il tutto postulando l’errore dell’utente. Stronzi. Alla fine, bisogna inserire la categoria in cui si ricade, io “Persone over 12”, che dose si richiede, “Seconda dose Booster (Quarta Dose)”, maiuscole a caso, quale dose si abbia ricevuto e quando, io devo saperlo?, e il sistema dice di aspettare conferma entro 24/48 per l’autorizzazione.

Solo che dopo 48, 72, 144, 360 ore nulla accade. Amici e colleghi da più di dieci giorni aspettano risposta. Speravo, in fondo, fosse solo mal pensare mio e, invece, no. Vigliacchi.

due serie tv aziendali che mi hanno dato qualche idea

Nessuna delle due è un capolavoro, per carità, ne scrivo perché mi suscitano qualche considerazione. La prima è Super Pumped. The Battle For Uber, ovvero come esplicita il sottotitolo racconta la storia della nascita e della crescita di Uber. Il sopratitolo, invece, rimanda a una serie antologica in cui ogni stagione racconterà un’azienda, la prossima Facebook. Comunque, la vicenda di Uber è sostanzialmente quella di Travis Kalanick, cattivissimo e spregiudicato fondatore dell’azienda, classico ladro d’idee ma abile a svilupparle, fino alle sue forzate dimissioni (è storia, non uno spoiler). L’intreccio con Google, Apple, il governo cinese, gli autisti e l’automazione della guida, ne fa una buona storia. Ed è ben raccontata, seppur complessa. Bella anche la locandina, esplicita.

Il pensiero che mi è venuto è che non sempre, anzi quasi mai, si accoppiano nella stessa persona la capacità di avere una buona idea – intendo in termini di Silicon valley – e l’abilità di svilupparla, finanziarla, portarla a compimento e sostenerla a ogni costo. Ne sono testimonianza tutte le maggiori compagnie del settore, là dove chi l’ha sviluppata è poi accusato di aver rubato l’idea originaria, Zuckerberg su tutti, o al contrario chi invece ha avuto l’idea poi ha avuto bisogno di CEO e amministratori abili in grado di affrontare una concorrenza tutt’altro che facile, per esempio Page e Brin. Se Gates fa un po’ eccezione in questo, ma si è pur sempre appoggiato a qualche figura discutibile, Jobs con alti e bassi in qualche maniera ha incarnato l’unione delle due cose e, non a caso, è ancora oggi oggetto di venerazione, tecnologica e aziendale.

Uno che ha avuto l’idea, e qui vengo alla seconda serie, e che è ancora alla guida della sua società è il fondatore di Spotify, Daniel Ek, e la serie è The playlist. Se fosse rimasto da solo, sarebbe ancora nella sua stanzetta a giocare col compiuter, come tutti, però la sua rigidità e una certa cultura di stampo socialista diffusa in Svezia hanno contribuito al fatto che l’azienda diventasse quello che è, mantenendo qualche principio ideale.
La serie non è formidabile, tutt’altro, è anzi un filino lenta e piuttosto svedese, ha però il merito di utilizzare un espediente narrativo collaudato ed efficace: le sei puntate sono dedicate ciascuna a un protagonista della vicenda – il fondatore, il socio finanziatore, lo sviluppatore, l’avvocata eccetera – che di volta in volta ritiene di essere stato l’elemento fondamentale per il successo dell’intuizione. Detto per inciso, la variabilità del client che senza buffering fa chiamate p2p in prima battuta, poi anticipa le ricerche successive in modo predittivo e se così non è passa al server, peraltro ignorando certe perdite di pacchetti, è davvero sorprendente.

Il senso della narrazione, quindi, punta a sottolineare come la contribuzione sia stata molteplice e come sia, in effetti, impossibile attribuire pesi dettagliati alle azioni dei protagonisti nel corso degli anni, i quali restano sulle proprie posizioni soggettive.
Ed è a questo punto che mi sono venute in mente due situazioni italiane analoghe, per le quali è oggi di fatto impossibile ricostruirne i dettagli con precisione e delle quali non conosceremo, probabilmente, mai l’esatto andamento dei fatti. La prima è la vicenda del rapimento e omicidio Moro: i racconti dei brigatisti sono tanti e tali, ciascuno minato dagli interessi diversi di ogni protagonista – volontà di sminuire le proprie responsabilità, a volte proprio il contrario, protagonismo, vanità, memoria vacua, protezione di altri e così via – che oggi conosciamo a grandi linee l’andamento della vicenda ma restano molti passaggi oscuri impossibili da chiarire definitivamente. La seconda è la caduta del governo Mussolini il 25 luglio 1943: venti furono i protagonisti di quella notte, venti sono i racconti diversi spesso confluiti in libri, tante le ipotesi al punto che noi ancora oggi – essendo stati distrutti i verbali – non sappiamo come andò. Da Grandi in giù tutti si attribuirono un ruolo superiore alla realtà distorcendo i fatti, di questo ne siamo certi, perché per esempio la natura stessa del regime non permetteva certo di sfiduciare Mussolini, cosa che già contraddice molti dei racconti pervenuti. Gli storici più seri oggi concordano sul fatto che tale caduta non sarebbe avvenuta se in un certo qual modo non vi avesse contribuito lo stesso capo del regime, ma i dettagli e ciò che sia effettivamente successo quella notte resta per noi ancora sconosciuto. E sì che la vicenda non è certo secondaria. Eppure le motivazioni dei partecipanti – sminuire le proprie responsabilità pregresse, aumentare il proprio prestigio verso gli Alleati e il nuovo corso, protagonismo, ancora, e così via – inquinarono a tal punto i resoconti da costringere a un angolo la ricerca dei fatti.