oggi santo domani ostacolo

Trenta milioni di italiani di più di cinquant’anni e uno solo che, diciamo, non lo voleva fare. Com’è andata a finire?
Ovvio, Mattarella, ancora. Non che fosse difficile, l’avevo scritto due mesi fa sulla porta della cucina, non era complicato da prevedere. Ma perché era prevedibile la sconfitta della politica, di questa classe dirigente, uno stato perdurante di cose: rieleggere per la seconda volta consecutiva il presidente della repubblica è sintomo di grande debolezza e incapacità, fare poi leva sull’umana disponibilità di una persona che ti levi le castagne dal fuoco è ancora peggio. Peraltro eleggendolo ora come salvatore della patria per farlo diventare, tra due anni, un ingombro da levare, trasformando così la carica più alta in un mandato a scadenza contro una durata legale. Certo, se poi il ruolo di regista lo si lascia a Salvini, arrivederci. Ma non è che altrove abbiano brillato, l’immagine di Casellati che, ormai perduta l’occasione, gioca col telefono durante lo scrutinio che sta presiedendo dice moltissimo su di lei e la compagnia bella. Poteva andare molto molto meglio.

memoria, ricordarsi di avere memoria

Niente, va allenata, il 27 gennaio serve a quello: a mettere una scadenza in cui chi è scordarello o, peggio, vigliacchetto, magari tende a dimenticare. Mica perché ricordare sia giusto e dimenticare sbagliato, da un certo punto di vista dimenticare cosa significhi essere sotto le bombe è buon segno, vuol dire che si è al riparo da tempo, cosa buona. Ricordare è necessario perché certe cose non accadano più. Il che è difficile, perché le vite umane sono corte ed è inevitabile che figli, nipoti, pronipoti poi non solo non sappiano, ma non vogliano proprio sapere le storie ammuffite del passato. Il che è bene per molte cose, non per altre, il nazismo, il fascismo, l’olocausto sono alcune di queste.
Se, dunque, i fascisti di Durham nel 1934, tutti impettiti e stronzi davanti alla loro sede, sono poi diventati un kebab è solo cosa buona, visto che il kebab si mangia pure ed è buono, anche se non sappiamo con cosa sia fatto. Ed è buon segno dei tempi, che con tutto ciò che si può dir di male non sono certo disgraziati come altri, ben peggiori.

Però i fascisti a Durham ci sono stati, eccome, e saperlo potrebbe evitare che riaccada. Perché avere un kebab invece dei fascisti è sicuramente molto, ma molto molto meglio.

vedere in grande

All’inizio di febbraio del 2020 sono stato tre giorni ad Amsterdam perché c’era un magnifico concerto dei Supergrass in una chiesa protestante sconsacrata. Già qualche mascherina si vedeva ma, io per primo, consideravo allora il tutto piuttosto esagerato. Bravo, molto. Comunque, visto che c’ero, sono andato al Rijksmuseum per vedere quei tre o quattro quadri bellini che conservano lì. Tra essi, serve dirlo?, la Ronda di notte di Rembrandt. È nella stessa salona della lattaia di Vermeer, quando ci si volta si vede un lato corto occupato da un quadro piuttosto grande, la Ronda appunto. Solo che quella volta, due anni fa, c’erano un paio di persone su uno strano macchinario che trafficavano sul quadro, all’interno di un parallelepipedo trasparente. Persino io non ci ho messo molto a capire che non trattavasi di restauro ma di scansione ad alta risoluzione. La mia foto, a bassa risoluzione, mentre mi ostacolavano la vista.

Le scansioni di questo tipo non servono tanto a mettere in rete le immagini dei dipinti quanto più a renderle disponibili agli studiosi così che le possano studiare senza dover vedere il quadro di persona, ovvero riescano a cogliere la trama pittorica, la qualità della tela, le pennellate e così via, cose da addetti. Per dare due dati tecnici, la scansione è stata effettuata a 717 gigapixel che, in pratica, significa: il quadro – grossino, 359×438 centimetri – è stato fotografato con una Hasselblad da 100 megapixel per 8.439 scatti da 5,5×4,1 centimetri ognuno; le immagini sono state unite da un software che ha generato un’immagine da 5,6 terabyte, niente male, e come dicevo da 717 miliardi di pixel, ognuno dei quali è relativo a una superficie pari a 5 micrometri quadrati, 0,005 millimetri quadrati. Bum.

Non l’immagine originale, sarebbe ovviamente da pazzi, ma un’immagine ad alta risoluzione ricavata dalla prima è disponibile sul sito del museo ed è zoomabile fino a livelli notevolissimi.

E ancora ancora più su, o giù, per arrivare al dettaglio più minuscolo.

È sempre l’occhio del capitano Frans Banning Cocq, nella «più grande immagine digitale di un’opera mai realizzata».
La Ronda non è certamente la sola opera, tra le tante ormai scansionate, c’è un altro dipinto conservato nei Paesi Bassi ed è la Ragazza col turbante di Vermeer (sì, noi patiti la chiamiamo così, altro che orecchino); scansionata a minor risoluzione, 10 megapixel, è comunque dettagliatissima. Ecco l’occhio, non della madre.

Che, allontanandosi di poco, assume l’aspetto noto, qui l’immagine disponibile.

C’è da dire, di questa seconda scansione, che è altrettanto interessante perché è stata condotta dalla Hirox, società giapponese specializzata nella produzioni di lenti per microscopi, con un intento inedito: farne una scansione tridimensionale, oltre a quella piana. Una visione aggiuntiva che aiuta moltissimo gli studiosi, che colgono ulteriori aspetti della tecnica pittorica, della stesura del colore, del tipo di amalgama, dello stato del dipinto e altre cose che non so. Ecco come si vede il riflesso nella pupilla:

Tàc, un colpo di pennello unico, minuscolo, bianco e preciso. Bellissimo.
Io ho detto quel che dovevo, visto due anni fa, disponibile ora. La Ragazza si trova al Mauritshuis de L’Aja, consiglio visita anche di quello anche se molto più ridotto, perché due o tre quadretti bellini li hanno anche lì. Giuro.

quella stupidità ributtante al di là del comprensibile

L’11 gennaio si è aperto in Egitto, a Sharm el Sheikh, il World youth forum: una manifestazione in stile nordcoreano organizzata per celebrare il regime egiziano – il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi era in prima fila, raggiante – facendo finta di parlare di sviluppo, progresso, diritti umani, libertà, democrazia, cultura, climate change. Tutte cose impossibili nell’Egitto del dittatore criminale al Sisi e che suonano come irreali in questo frangente.
Alla kermesse del regime è stata invitata anche l’attrice spagnola Itziar Ituño, una delle protagoniste de la Casa di carta, la cui consapevolezza è evidentemente scarsa, oppure se ne frega nonostante l’età e il ruolo che ha nella serie tv. Tra le cose paradossali, oltre al fatto che la serie è percepita come la rappresentazione di un’efficace ribellione al sistema, e non lo è affatto, è che nella sua colonna sonora ha Bella ciao, a dir poco impropriamente. E la canzone stessa, in un accostamento pop tra serie, canzone e festa dei giovani, è stata suonata e cantata di fronte allo stato maggiore egiziano, al Sisi compreso, i quali beati applaudivano a una bella canzone tradizionale dalla bella melodia. Il cui significato sarebbe, però, come molti sanno ma non certo gli sceneggiatori della Casa di carta o i papaveri egiziani, la rivolta proprio contro i tiranni come loro.
La stampa di regime celebra, per esempio Youm al Sabaa scrive: «la cultura [ha] un grande ruolo nel curare le nostre ferite. Grazie a lei possiamo superare le sfide importanti di oggi con più determinazione», il che suona ancor più scellerato in un paese in cui le persone che si occupano di cultura sono tutte in carcere quando non eliminate fisicamente. Giulio Regeni è uno dei tanti.
Partecipare alla celebrazione del tiranno rende senz’altro complici, contribuire a dare una patina di modernità e progressismo a un regime anacronistico e spietato è senz’altro una responsabilità di cui bisognerebbe essere chiamati a rispondere. Perché al Sisi sa benissimo quello che fa, e lo fa. Altri, che per soldi vanno ovunque senza porsi domande, invece? Citando Gramsci, odio anch’io gli indifferenti, sono il peso della storia: «Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime».

nel posto della rotta del fiume, qualche memoria e due proverbi molto saggi

Qualche giorno fa ero a Occhiobello a guardare il Po.

Al di là della bellezza del momento, questo è più o meno il posto in cui si verificò una delle tre rotte del Po la sera del 14 novembre 1951, la cosiddetta alluvione del Polesine. In rapida successione, il Po sfondò gli argini in tre punti e riversò circa due terzi della sua portata del momento per le campagne e per i paesi del Veneto meridionale, le tre bocche rimasero aperte per trentasette giorni e, difficile farsene un’idea, tracimarono circa otto miliardi di metri cubi di acqua, sufficienti a ricoprire quasi tutta la provincia di Rovigo. Notevole il ben più antico proverbio polesano: «Dove no se crede, l’acqua rompe».

Oggi gli argini sono molto più alti e arretrati rispetto a un tempo, anche se – lo ricordo personalmente nel 1994 quando l’acqua arrivò quasi in casa e la mia libreria preferita fu sommersa – la questione del livello dell’acqua del Po è sempre di attualità. Era una giornata magnifica, qualche giorno fa, il fiume era placido e tutto invitava a stare. E contemplare.
Mi raccontano una storia. Immediatamente, alla notizia della rotta del fiume, gli aiuti da tutto il nord Italia si precipitarono nel rodigino, per soccorrere persone e bestie, in particolare a Occhiobello si ricordano con riconoscenza i vigili del fuoco di San Benedetto Po, accorsi prontamente con barche e uomini ed efficaci nei salvataggi. Tra i ricordi, mi dicono – riporto come mi hanno raccontato – che a fronte dell’attivismo dei soccorsi, colpì una certa qual rassegnazione, mista o confondibile con indifferenza, degli abitanti di Occhiobello, i quali non si adoperarono più di tanto nel recupero di chi era rimasto prigioniero in casa o degli animali nelle stalle. Con le dovute eccezioni, ovvio. Le spiegazioni a tale atteggiamento sono state molte, nel tempo, tra cui il fatto che gli animali e le case non fossero di proprietà dei lavoranti, ecco l’indifferenza, oppure uno stato traumatico connesso all’evento catastrofico che toglierebbe in molti la voglia di fare. Sembra che proprio il caso di Occhiobello sia diventato di studio per una certa branca della psicologia post-traumatica che studia certe reazioni delle popolazioni in caso di, appunto, catastrofe.
Dopo di che, è pur sempre qui che la saggezza popolare dice: «De quelo che i dixe o che se sente, credi gnente; de quelo che te sa, la metà de la metà» e io, ubbidiente, mi ci attengo e torno a guardare il fiume, meraviglioso.